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Come affrontare gli effetti di due anni di epidemia di Covid-19 sulla nostra salute mentale?

Quali sono gli effetti psicologici di questi ultimi due anni fuori dal comune che sono appena trascorsi? Come comprenderne le implicazioni psicologiche?

Ho trovato una risposta a queste domande nella intervista che Pauline Bross ha rilasciato a Franceinfo il 23 gennaio 2022.

Pauline Boss, professoressa emerita all’Università del Minnesota (Stati Uniti). Autrice, tra gli altri, di Une présence teintée d’absence, ha sviluppato alla fine degli anni ’70 il concetto di perdita e di lutto ambigui. Nel suo ultimo libro, Le mythe de la page tournée : les pertes ambiguës en temps de pandémie et de changement ( The Myth of Closure-Ambiguous Loss in a Time of Pandemic and Change, Published by Norton Professional Books ), applica questo concetto ai due anni che abbiamo appena vissuto e tratteggia un quadro interessante per il nostro futuro.

 

Qual è il concetto di “perdita ambigua” di cui parli nel tuo libro?

Pauline Boss: Una perdita ambigua è semplicemente una perdita che non è chiara, che rimane oscura. Ci sono perdite fisiche ambigue, ad esempio persone che scompaiono durante una frana o un’inondazione. Non sei sicuro che la persona sia davvero morta. Hai anche delle perdite psicologiche ambigue, quando una persona è presente, di fronte a te, ma (il suo spirito) la sua mente è assente. Penso in particolare alle persone affette dal morbo di Alzheimer.

Come applichi questo concetto alla pandemia di Covid-19? Quali sono le “perdite ambigue” che abbiamo subito negli ultimi due anni?

Questo concetto, l’ho sperimentato io stessa durante la pandemia. Non riuscivo a vedere mio marito, che è stato ricoverato per un po’ in ospedale, né la mia famiglia. È una forma ambiguadi perdita fisica. Intorno a me, l’intera popolazione stava vivendo la stessa cosa. Non potevamo più vedere i nostri amici né la nostra famiglia, abbracciare i nostri cari. All’inizio della pandemia, le persone non potevano stare con i loro cari malati, dire loro addio prima di morire. È una forma di perdita ambigua, sia fisica che psicologica, che è devastante. Alcune famiglie delle vittime del Covid-19 non sapevano nemmeno dove fossero i corpi, le ceneri dei loro cari…

E poi, la perdita della nostra certezza di avere il controllo sulle nostre vite. Con la pandemia, la più grande perdita ambigua che abbiamo vissuto è questa perdita di certezza, di fiducia che il mondo sia un posto sicuro e prevedibile.

Nel tuo libro spieghi che “la perdita ultima (definitiva)” è questa consapevolezza di tutta l’incertezza che ci circonda dall’inizio della pandemia. Perché è così difficile da vivere?

La maggior parte dei paesi sviluppati è incentrata sulla padronanza, sul controllo delle cose. Pensiamo di poter controllare il nostro destino se lavoriamo abbastanza, se facciamo la cosa giusta. La pandemia di Covid-19 ci ha dimostrato il contrario: possiamo lavorare molto duramente e il virus può malgrado tutto metterci a terra. Non siamo abituati a questo. Ritroviamo sentimenti di paura, di incertezza sul futuro conosciuti durante la seconda guerra mondiale. Abbiamo un problema e non possiamo risolverlo immediatamente.

Quali sono secondo te le conseguenze psicologiche di questa “perdita definitiva”?

Dipende da come reagisci. Se sei una persona che ha costantemente bisogno di lucidità e controllo, c’è il rischio di arrabbiarsi, o addirittura di soffrire di disturbi depressivi. Questo può portare a conflitti familiari, per esempio. Altre persone, al contrario, la prendono con più filosofia. Dicono a se stessi: “Non ho il controllo su ciò che accade, quindi troverò qualcosa che posso, a mia misura, controllare”. Questi pensieri possono renderli più forti. Certo, possono sentirsi tristi o addirittura arrabbiati, ma questa è una reazione normale a una situazione che non lo è.

Secondo te, esiste un impatto diverso sulla nostra salute mentale tra le perdite più “classiche”, tra i lutti che normalmente viviamo e queste perdite e lutti ambigui?

Nel caso di perdite ambigue, il processo di lutto è come congelato. Questo è un processo molto complicato perché non puoi davvero fare il tuo lutto. Ad esempio, non sei sicuro se una persona sia viva o morta, quindi rimani nell’incertezza. Oggi potremmo aver perso una parte della nostra vita precedente. Forse stiamo cercando di fare il lutto per le nostre vite prima dell’arrivo del virus nel 2020.

Il fatto di aver perso contemporaneamente più persone e diversi elementi della nostra vita durante questa pandemia ha anche un impatto psicologico?

L’onere è ancora più pesante quando si ha una serie di perdite e l’accumulo di perdite ambigue è importante in questo momento. In questo caso lo sgomento è maggiore. Il livello di stress è molto alto per tutti noi attualmente. Questo carico di stress è senza precedenti per le generazioni che non hanno vissuto la seconda guerra mondiale.

Come descriveresti il ​​nostro stato psicologico oggi, dopo due anni di crisi sanitaria?

Osservo una certa divisione. La maggior parte delle persone prende le cose con molta filosofia, rimane ottimista e si è adattata. Queste persone possono essere di cattivo umore a causa della situazione, ma riescono a sorriderne. All’inizio pensavamo che questa crisi sarebbe passata in due settimane, poi in un mese o due. La gente diceva: “Mi isolo, rimango confinato, ma so che tutto questo finirà presto e la vita tornerà alla normalità”.

In realtà, la vita non è tornata alla normalità. L’unico modo per uscirne era essere più flessibili, più tolleranti nei confronti dell’ambiguità e dell’incertezza del momento. La maggior parte di noi lo è oggi. Allo stesso tempo, una minoranza rimane oggi molto rigida, nella negazione della scienza. Queste persone pensano che si tratti di uno scherzo, di un falso allarme. Non credono agli scienziati ed è molto pericoloso.

Quali sono, secondo te, i primi passi che possono aiutare a ridurre il nostro livello di stress legato all’incertezza del contesto?

Se ti senti stanco, stanco della situazione, una chiamata a una persona cara, un momento nella natura o nel tempo per ascoltare semplicemente la musica possono già aiutare. Allora avete bisogno di controllo. Abbiamo tutti bisogno di controllo nelle nostre vite. In questo contesto, cerca di trovare qualcosa che puoi ancora controllare, come cucinare per qualche ora. Il semplice atto di riordinare il tuo armadio può fare molto! Soprattutto quando non puoi controllare nient’altro.

Hai questi modi abbastanza passivi di far fronte, ma anche modi più attivi, come essere coinvolti in una causa. Devi fare quelle piccole cose che ti fanno stare bene, perché in questo momento qualcosa di molto più grande sta controllando le nostre vite.

Cosa possiamo imparare da quello che abbiamo passato negli ultimi due anni? Come possiamo superare le prove che abbiamo vissuto negli ultimi due anni?

Si tratta di cercare prima di tutto un senso alle nostre perdite, anche se queste sembrano non avere senso. Ad esempio, i genitori di un bambino che si è suicidato possono aiutare i giovani a prevenire ulteriori suicidi. Non si tratta di voltare pagina. Le persone che vi dicono di andare avanti si sbagliano: è molto difficile uscire completamente dalle perdite ambigue che abbiamo subito. Cercate invece di trovargli un senso. Scrivetele per rendervi conto di cosa avete perso e per vedere quali perdite sono state ambigue, incerte. È del tutto normale provare tristezza in questo contesto. La tristezza è un modo normale di affrontare il dolore, non dovrebbe essere combattuta.

Come superare il lutto in tempo di pandemia?

Molte persone sono già resilienti senza rendersene conto. La resilienza era l’unico modo per far fronte a ciò che ci stava accadendo. Siamo diventati flessibili: abbiamo indossato maschere, abbiamo praticato il distanziamento fisico e siamo rimasti in isolamento più spesso. D’ora in poi dobbiamo provare cose nuove per aumentare la nostra tolleranza per l’incertezza e l’ambiguità. Perdersi volontariamente durante una passeggiata, per esempio. Questee cose senza un piano, questee cose spontanee ti aiuteranno a ridurre lo stress.

Hai sviluppato sei modi per affrontare meglio le perdite ambigue. Quali sono ?

Oltre a cercare di trovare un senso alle nostre perdite, il secondo punto è quello di rivedere il livello di controllo, di padronanza di cui hai bisogno nella tua vita. Cosa posso controllare? Quali sono, invece, gli elementi che non posso controllare? Dopo una perdita o un lutto ambiguo, si pone la questione della ricostruzione della nostra identità. Una donna il cui marito è scomparso da vent’anni si chiederà se è ancora sposata.

Un altro modo per far fronte è normalizzare l’ambivalenza. Tutti abbiamo dei rimpianti, avremmo potuto fare alcune cose meglio o fare cose che non abbiamo fatto. Fa parte della vita, dobbiamo convivere con domande lasciate senza risposta. Si tratta anche di rivedere il proprio attaccamento con le persone che abbiamo perso. Non stai voltando pagina, ma stai ammettendo che se ne sono andate. Avviene una trasformazione: vi ricordate di quelle persone (o cose) perdute, mentre trovate una ragione d’essere, uno scopo per andare avanti senza di loro.

Infine, scoprite nuove speranze. Non possiamo più sperare che la vita torni come prima. Dobbiamo cambiare, adattarci man mano che la vita cambia intorno a noi. Cosa vogliamo per i prossimi decenni? Chi siamo e cosa vogliamo diventare? Il contesto attuale è un buon momento propizio per riflettere sul cambiamento.

L’antica infiorata di Gerano

Molte persone mi hanno chiesto informazioni sulla Infiorata di Gerano, un piccolo comune della provincia di Roma che mi ha dato i natali.

In questo paese ho vissuto fino all’età di diciotto anni e ho avuto la fortuna di apprendere ed esercitare l’arte dell’infioratore e sono molto legato a questa tradizione, così come i miei figli.

E’ sempre una gioia tornare a Gerano e l’attrazione maggiore è proprio l’infiorata in occasione della festa della Madonna del Cuore. In questi due anni, per le arcinote vicende sanitarie, non è stato possibile ritrovarsi tutti insieme ad ammirare quei lavori.

E proprio per questo motivo abbiamo deciso di mantenere vivo il legame con la “nostra” infiorata e rafforzare le radici e l’affetto che ci legano alla festa e ai geranesi, realizzando ( nel rispetto delle norme sociali e sanitarie vigenti) una microscopica infiorata nel borgo suggestivo di Via Berra a Milano, la zona in cui viviamo attualmente.

 

Le fonti storiche che contengono riferimenti sulla infiorata di Gerano sono molto scarse. Pare che nel 1625, il “soprastante alle masserizie della fabbrica vaticana” Benedetto Drei per la prima volta allestisse, in Vaticano, un mosaico con petali di fiori per ornare la tomba di san Pietro, nell’anniversario della morte. Quest’attività fu continuata da Lorenzo Bernini, che ricoprì lo stesso ruolo, e poi si diffuse tutt’attorno. Gerano, in provincia di Roma, è il paese che, secondo alcune fonti storiche attendibili, può vantare la più antica infiorata d’Italia.
Le cronache raccontano che intorno al 1770 fu chiamato a ricoprire l’incarico, che già fu del Drei e del Bernini, don Giuseppe Lelli, un geranese che presumibilmente insegnò ai compaesani quest’arte. A quella data si fa risalire la prima infiorata in onore della Madonna del Cuore, che già veniva venerata dal 1740. Una data certa è quella del 1789 in cui i geranesi si recarono nella vicina Subiaco ad allestire un’infiorata in omaggio a Papa Pio VI. Da quell’anno pare che Gerano non abbia perduto un appuntamento.

Nel 1867 un cronista anonimo raccontava: “Infrattanto suonano ancora le campane; e al farsi più alta la notte, una scelta di dilettanti del luogo, sulla spaziosa Piazza di S. Lorenzo, s’accampano a tessere un variato tappeto con mille maniere di fiori freschi e natii per quanto lunga e larga è la piazza e con tal preciso gusto, che contemplandolo attentamente nulla da meno vi trovi d’un magistrale tessuto. Ai soli portatori della graziosa macchina è permesso calcare quel meraviglioso conserto d’odorose fraganze; i sodalizi che l’accompagnano, al loro giungere, schieransi di mano in mano in due ali, alla guisa in che sono disposti i cordoni di verdura che ornano i laterali della piazza stessa.”
Oltre alle testimonianze scritte, negli archivi parrocchiali sono custodite le memorie fotografiche di oltre 120 infiorate. Anche in tempo di guerra i geranesi riuscirono a onorare la Madonna del Cuore con questi caratteristici tappeti.

Il piccolo paese del Lazio, gli abitanti non arrivano a 2000, pur vantando una tradizione secolare è oggi oscurato dal più famoso Genzano di Roma, che si fregia del titolo Paese dell’Infiorata. Ma lasciamo queste dispute alle ricostruzioni storiche, ed occupiamoci più a fondo di questa manifestazione di arte popolare molto interessante e poco conosciuta al di fuori dei luoghi dove viene praticata. Essa è, in poche parole, la realizzazione di un tappeto di fiori raffigurante motivi geometrici, persone, paesaggi, scene religiose. Non solo un tappeto effimero che, pur richiedendo molto lavoro di preparazione, dura al più una giornata, ma anche un tappeto sontuoso degno di accogliere una processione solenne.
L’effetto finale è di notevole impatto e comunica in un solo momento la devozione, l’abilità e il desiderio di essere ricordati degli esecutori.


Ma per arrivare al tappeto di fiori occorrono grandi preparativi, ai quali tutto il paese partecipa. Innanzitutto vanno scelti i soggetti tra i tanti bozzetti che vengono presentati dai bambini delle scuole, dai cittadini. Due temi sono fissi il cuore e le iniziali dell’Ave Maria, i restanti sette ogni anno cambiano: ricorrenze speciali, messaggi di pace, crocifissioni, scorci caratteristici della zona questi le raffigurazioni più ricorrenti. Pare che solo dal 1920 si cominciassero a riprodurre figure umane.
Qualche settimana prima del gran giorno si comincia a raccogliere e preparare i fiori. Una volta gli esperti del paese conoscevano a memoria l’ubicazione delle diverse piante nelle colline e nei campi e se la stagione era particolarmente indietro i raccoglitori dovevano spingersi molto lontano verso le zone più assolate e calde. Ora la maggior parte viene acquistata nei vivai, tranne le selvatiche ginestre, la villaggine e le cosiddette palle di neve. Però tutti gli altri preparativi sono rimasti gli stessi. Bisogna dividere i colori, sminuzzare tutte le corolle, togliere le foglie. Intanto la piazza, che è in leggero declivio, viene nuovamente squadrata in sette riquadri, più un rosone iniziale e una lunetta finale. Tutti partecipano, persino i bambini che sono fieri se possono dire: “Io ho aiutato a togliere le foglie!”.

Poi arriva il momento tanto atteso E’ ormai tutto pronto, manca la fase finale della realizzazione vera e propria. Il lavoro è piuttosto complicato. Innanzitutto bisogna riportare con il gesso sull’asfalto il disegno ingrandito del bozzetto. L’operazione non è semplice: gli infioratori si aiutano con lunghe righe di legno per tracciare linee diritte, con corda e chiodo si ottengono i compassi per segnare i cerchi, metri da falegname aiutano nelle misure e con i gessi di tutti i colori i disegni prendono forma lentamente. Una volta quando la piazza non era asfaltata la parte centrale era in terra battuta e i disegni venivano tracciati con un punteruolo e il solco veniva poi riempito con calce bianca.
Qualche particolare del disegno può essere posto in rilievo formandolo con la segatura ben pressata. Quando infine tutto il disegno è stato tracciato si cominciano a portare i fiori, che dopo essere stati tagliati vengono conservati, divisi per colore, in una fresca cantina. Arrivano le scatole e con pazienza, sempre in ginocchio, i minuscoli petali vengono disposti seguendo i contorni e le indicazioni di colore.

E’ da notare che a Gerano si usano solo fiori, mentre in altre località italiane si utilizzano anche fondi di caffè, segatura colorata etc. Del resto i fiori, in caso di pioggia, garantiscono una maggiore tenuta sul terreno e il lavoro non rischia di andare irrimediabilmente perduto.
Durante la notte della preparazione è tutto un rimandare di voci, chi assiste è impaziente, qualche volta si diverte a prendere in giro. I bambini scorazzano, felici di andare a letto tardi una volta tanto. Immancabili i ricordi: quella volta che continuò a piovere e i disegni a gesso venivano cancellati, quell’altra che il tale fece un capolavoro. I “personaggi” non si contano.

Questa è anche l’occasione per molti geranesi che abitano altrove di tornare in paese, e tra questi anche qualcuno che è stato infioratore e che spiega perché un disegno verrà meglio dell’altro, quali arguzie l’esperienza insegna.
In genere il lavoro dei nove gruppi finisce all’alba e già dal primo mattino la popolazione può ammirare lo splendido spettacolo della piazza completamente colorata. Una superficie di 250 mq, con i colori della primavera: ginestre per il giallo, calendula per l’arancione, il bosso per il verde, villagine per il viola, le palle di neve per il bianco, e poi gli iris, i garofani e le rose. Su questo tappeto effimero e profumato passeranno con grande cautela gli otto confratelli che trasportano il quadro della Madonna del Cuore.

Non solo a Gerano si usa “infiorare” le strade. Quest’arte particolare si è diffusa in molte parti dell’Italia centrale, e negli ultimi anni molti paesi ne stanno recuperando la tradizione o ne accolgono la novità come richiamo per i fedeli e i turisti.
E non è una tradizione solo italiana in quanto si è diffusa in altre parti del mondo.

Covid-19, effetti sulla salute psico-fisica dei bambini.

Disturbi del sonno, alimentazione non corretta, sedentarietà e disturbi dell’apprendimento sono alcune delle problematiche che si stanno accentuando nei più piccoli dopo la pandemia. Le preoccupazioni su questi aspetti sono emerse durante il XIV Congresso nazionale della Federazione italiana dei medici pediatri, che si è chiuso il 17 ottobre. «La salute dei bambini italiani al tempo del Covid-19 desta più di una preoccupazione in tutti noi – ha spiegato oggi in una conferenza stampa il presidente della Fimp, Paolo Biasci -. Ad allarmarci sono anche i ritardi nei recuperi del calendario vaccinale in tante Regioni, dovuti all’impegno dei Dipartimenti di Prevenzione sul contenimento del virus».

Il gruppo di bambini in maggiore sofferenza è quel «15% con disturbi del neurosviluppo, dalle difficoltà di apprendimento alle forme di autismo; in generale, tutti i bambini hanno sofferto il fatto di non poter mantenere le normali abitudini. La socializzazione e la frequenza a scuola è la migliore medicina per risolvere i problemi di cui stiamo parlando».

«La Pediatria di famiglia – ha proseguito Biasci – viene sottoposta da sette mesi a incredibili pressioni. Siamo divisi tra l’attività di prevenzione e i controlli sullo sviluppo del bambino, il trattamento dei malanni tipici dell’infanzia e quello delle cronicità, il rispetto delle scadenze sui vaccini e naturalmente la gestione dell’epidemia di Covid-19. Anche le famiglie di cui ci occupiamo vivono una condizione di notevole difficoltà, soprattutto nel rispettare uno stile di vita salutare. Il lockdown ha avuto un forte impatto sul ritmo sonno-veglia di bambini e adolescenti, con una flessione sia della quantità che della qualità delle ore dormite».

«In questo momento è un’azione fondamentale – ha poi proseguito Mattia Doria, segretario nazionale alle attività scientifiche ed etiche della Fimp -. I disturbi del neurosviluppo sono centrali. Si presentano in modalità multiforme, sono sempre più frequenti e spesso, per arrivare alla diagnosi, ci vogliono anni. E’ un’emergenza anche per le famiglie». 

Il progetto di condivisione delle informazioni tramite le schede di screening è stato illustrato anche da Maria Luisa Scattoni, coordinatrice per l’Istituto superiore di sanità del network per il riconoscimento precoce dei Disturbi del neurosviluppo: «Si tratta del frutto di quattro anni di lavoro – ha specificato -. Un percorso che coinvolge, oltre alla pediatria di famiglia anche le neuropsichiatrie infantili, i nidi-scuole dell’infanzia e le neonatologie di tutta Italia. Effettuiamo la sorveglianza della popolazione generale e ad alto rischio attraverso un protocollo di valutazione del neurosviluppo con alta sensibilità e specificità sulla popolazione da 0 a 3 anni e sostenibile nell’ambito del Servizio sanitario nazionale. I pediatri di famiglia compileranno le schede in occasione dei Bilanci di salute e valuteranno i tre assi neurofunzionali: motorio, comunicativo/relazionale e della regolazione. Potranno così riconoscere eventuali anomalie comportamentali e segnalare i casi ‘sospetti’ ai Servizi di Neuropsichiatria. Per la prima volta si dà la possibilità a ogni singolo pediatra di comunicare con il neuropsichiatra di riferimento, attraverso un’unica piattaforma su tutto il territorio nazionale».

Altro tema fondamentale è la corretta alimentazione nei bambini e quali effetti può avere a breve e lungo termine sulla salute. Per questo Fimp ha messo in campo un progetto per capire il dato di prevalenza dell’obesità e quali sono gli errori dell’alimentazione. «Da un nostro studio – rivela Raffaella de Franchis dell’area alimentazione e nutrizione della Fimp – emerge con forza l’importanza della dieta mediterranea per il benessere complessivo del bambino, ma anche per evitare lo sviluppo di patologie come la celiachia o il morbo di Crohn e altre malattie infiammatorie croniche come diabete, obesità, malattie degenerative e tumori, tutte patologie in drammatico aumento nei bambini. Un approccio che interviene inoltre nel determinare la costituzione del microbioma intestinale corretto, quello che la persona si porterà avanti tutta la vita».

Fonte: Doctror33, 19 ott 2020

Sostenibilità di un marketing dell’intangibile

Tra individualismo crescente e necessità di cooperazione, compartecipazione e condivisione.

Il progresso e la catastrofe sono il diritto e il rovescio della stessa medaglia
(Anna Arendt, 1968)

 

Il XX secolo è stato definito il secolo del progresso scientifico, il XXI sarà ricordato come quello del progredire delle catastrofi”. Sembra privo di speranza il futuro immaginato da Paul Virilio, un filosofo e urbanista francese che ha ideato la mostra “Ce qui arrive” alla Fondazione Cartier per l’arte moderna. A vedere la coda delle persone che attendono il proprio turno per visitarla – e si parla di oltre 20000 visitatori già passati – si direbbe che il desiderio dei molti che si spingono per andare a vedere le immagini catastrofiche e allo stesso tempo macabre (da Bhopal alla navetta Challenger, non trascurando le Twin Towers) è quanto mai indicativo di una certa evoluzione del gusto; che in un certo senso è quello poi dell’automobilista che rallenta per osservare meglio lo spettacolo dell’incidente.

Paul Virilio è uno dei più arguti uomini di pensiero del nostro tempo, una persona che riflette con disincanto sui diversi atteggiamenti intellettuali del mondo contemporaneo e ci mette in guardia – spesso servendosi di testimonianze veramente scioccanti – contro le idee troppo semplicistiche, troppo alla moda, eccessivamente lineari e prive di contraddizioni, che vengono offerte dai “media del tutto e subito” (medias de l’immediat). Quei messaggi che spesso hanno solo stillato il nettare del successo nascondendoci l’amaro calice di eventuali momenti di criticità; evitandoci la prospettiva della precarietà della certezza e la prevedibilità dell’accidente (Ce qui arrive). Un memento mori e un “dovere di memoria” anche presente nel catalogo della mostra, che diventa ineluttabile di fronte a quelle creazioni del progresso che in vario modo hanno scotomizzato il loro inevitabile pendant, gli eventi critici nelle loro varie forme: dall’incidente fino alle catastrofi, il rovescio della medaglia.
Immagini di incidenti aerei, treni deragliati, navi in procinto di essere inghiottite dai flutti; immagini di attentati (che potremmo chiamare incidenti volontari) , pellicole impressionate da irradiazioni, interviste filmate, ma anche opere di artisti che mettono in scena l’instabilità attraverso l’uso di oggetti, suoni, fotografie: segnali di una catastrofe imminente o soltanto possibile.

Se dovessimo definirla dovremmo parlare di una mostra che “mette in guardia”, che non stimola il compiacimento e ci spinge a cercare altrove il senso delle crisi che stiamo vivendo.
Tolstoi o Manzoni ci avrebbero offerto altre immagini. Altri tempi. Nella sostanza però il discorso non cambia. Le trasformazioni dei “mondi” passati, le mutazioni e le contemporanee crisi attuali – talvolta molto profonde – non hanno carattere esclusivamente sociale o economico, esse sono prima di tutto umane e individuali, riguardano le persone e il loro mondo interiore.

Certamente, la paura del domani (del doman non v’è certezza) accompagna l’essere umano sin dall’antichità e l’incertezza non è un fenomeno nuovo; tuttavia essa si inserisce in un contesto diverso rispetto al passato. In qualche modo la globalizzazione ha finito per fare piazza pulita degli ultimi punti di riferimento “sicuri” ed è diventato sempre più evidente quello che già nel Rapporto Censis 1998, ad esempio, era stato definito il disagio dei “piccoli popoli” di produttori e consumatori che hanno come solo destino quello di navigare nel mare dei processi macro di mondializzazione.

Lo smarrimento si registra dappertutto. Mancano o fanno difetto i sistemi importanti, la famiglia, lo stato e la bandiera; un contesto affettivo di vicinato, con i suoi codici fondati sul rispetto per l’autorità e soprattutto sul rispetto della persona. Sembra che tutto sia andato o stia andando in frantumi. Si perde il contatto con i riferimenti morali, sociali, economici, politici… E a differenza del mondo descritto da Tolstoi o da Manzoni, questo nostro ha perduto il suo senso religioso della carità e della comunità. Da una parte ciascuno di noi sente di poter fare a meno del “maestro” e agire in prima persona investendo tutta la sua responsabilità; dall’altra ognuno può accorgersi che quando la individualità (individualismo) trionfa e prende le distanze dal “sociale”, il contesto non gli offre più la cintura di sicurezza di un tempo.

Le cause sono sicuramente importanti, molteplici e di vario ordine, ma a guardar bene la situazione non possiamo trascurare che è avvenuto un forte cambiamento nelle persone e che ciascuno è cambiato di fronte a una forte sproporzione tra le attese individuali e le prospettive del futuro. Si percepisce una lacerante mancanza di prospettiva personale e diventa sempre più larga la sproporzione tra le esigenze di maggiore coinvolgimento nel lavoro e le attese individuali in termini di qualità della vita. Nel caso del lavoro ormai è evidente che non basta più proporre “ponti d’oro” alle persone se esse non hanno più il tempo di vivere; se esse non hanno più un minimo di disponibilità interiore e di serenità (fondamentale per ognuno di noi).

Lo stesso concetto del lavoro definisce una realtà che è molto diversa rispetto a quella degli anni passati, attualmente il lavoro sta assumendo sempre di più gli aspetti della precarietà professionale; siamo nell’era dei lavoratori “mutanti”. A tutto ciò si aggiunge la sensazione che “la festa è finita”, che non torneranno più i begli anni di un tempo e che il sacrosanto progetto di vita personale molto spesso (si potrebbe dire sempre) non rappresenta più un progetto e un’aspettativa individualizzata. Molte persone oggi si occupano soprattutto di sopravvivere allo stress e ciò dimostra con evidenza che – almeno per certuni – il limite è stato ormai raggiunto.

I riferimenti certi si sfilacciano lasciando vuoto lo spazio dei valori e delle speranze; in questa condizione di incertezza mancano le prospettive, i progetti, i sogni di futuro. L’incertezza diventa una realtà tangibile con la quale saremo chiamati a porci in relazione costantemente; ma è proprio a partire dalla gestione efficace delle instabilità che diventeremo capaci di stillare la “qualità” della nostra vita. Negoziando con costanza tra la nostra vita privata e quella professionale, per un equilibrio continuamente instabile.
In realtà la questione riguarderà essenzialmente il nostro mondo relazionale nel quale ciascuno di noi dovrà far fronte al carattere imprevedibile e inatteso del suo interlocutore: marito/moglie, figlia/figlio, del collaboratore o del capo, del cliente o del fornitore, ecc.; comportandosi possibilmente in un modo pro-positivo piuttosto che reattivo.

L’incertezza è più che mai compagna della nostra vita ed è presente nelle nostre prospettive personali e nelle nostre relazioni individuali; inoltre, è legata a un nostro limite percettivo che molto spesso trascuriamo.

Del resto, non siamo stati preparati per affrontare la realtà. A scuola ci hanno trasmesso la cultura della “certezza” e una visione abbastanza rigida del mondo. La nostra educazione, e più tardi il mondo professionale ci ha incoraggiato a fissare la realtà non certa in schemi di probabilità che a lungo andare ci sta abituando a sostituire il “prevedibile” o il “programmato” con la realtà che emerge e che non può essere repertoriata a priori.

Lo smarrimento è una realtà alla quale non si può far fronte con delle tecniche rigide e alla fin fine inadatte alle situazioni che cambiano continuamente. Conviene dunque riprendere in considerazione la persona, anima e corpo (senza dimenticare l’elemento spirituale individuale) e ciò che essa possiede in termini di qualità di adattamento e di comprensione di fronte all’incertezza del cambiamento e dell’emergenza. Comprendere opportunamente che le situazioni sono in costante mutamento e che ogni strategia previsionale dovrà, per forza, confrontarsi con una realtà imprevedibile. E sappiamo bene ormai che la capacità di adattamento delle persone di fronte a una realtà nuova dipende dallo stato d’animo e dalla capacità di esse di integrare i vari aspetti della realtà.
Considerare in modo nuovo, da punti di vista ulteriori, la vita professionale e privata, guidandole consapevolmente tra i flutti dell’incertezza e dell’imprevedibilità.

Un mondo diverso è possibile
Soprattutto per chi sceglierà di affrontare le crisi con umiltà, umanità e umorismo.

 

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta, con lo stesso titolo su MKT, gennaio 2003. Ho l’impressione che l’argomento possa stimolare ancora molte riflessioni

Essere sé stessi. Non solo sopravvivere o adattarsi.

“Durante una vacanza sul Pacifico, me ne stavo su alcune sporgenze rocciose a guardare le onde infrangersi sugli scogli, notai con sorpresa, su una roccia, qualcosa come dei piccoli fusti di palma, non più alti di 70-80 cm, che ricevevano l’urto del mare. Attraverso il binocolo vidi che si trattava di un certo tipo di alghe costituito da un fusto snello e un ciuffo di foglie posto in cima. Osservandole nell’intervallo fra un’onda e l’altra sembrava evidente che il fusto fragile, eretto, dalla chioma pesante, sarebbe stato completamente schiacciato e spezzato dall’onda successiva. Ma quando l’onda gli si abbatteva sopra, il fusto si piegava paurosamente e le foglie venivano sbattute fino a formare una linea diretta dallo scorrere dell’acqua. Tuttavia, non appena l’onda era passata, ecco di nuovo la pianta diritta, resistente, flessibile. Sembrava incredibile che un’ora dopo l’altra, giorno dopo notte, per settimane e forse per anni, potesse resistere a questo urto incessante, e per tutto il tempo potesse nutrirsi, affondare le proprie radici e riprodursi. In breve, potesse mantenere e migliorare se stessa attraverso un processo che, nel nostro linguaggio, chiamiamo crescita. Con la tenacia e la persistenza della vita, la capacità di resistere in un ambiente incredibilmente ostile, riuscendo non soltanto a sopravvivere, ma ad adattarsi, a svilupparsi, a “essere se stessa.”

Questo breve appunto biografico di C. Rogers aiuta a porre in risalto come, in tutti i regni della natura, la vita sia un processo attivo, non passivo. Portando a considerare che, prescindendo dalla provenienza dello stimolo, dal fatto che l’ambiente possa essere favorevole o sfavorevole, l’organismo tende ad assumere forme adatte a mantenere, migliorare e riprodurre se stesso. Sicuramente questa è una descrizione molto generica del fenomeno, ma rappresenta in modo adeguato (almeno nell’economia di questo scritto) la natura propria del processo, in continuo divenire, chiamato “vita”. Cioè quella tendenza intrinseca negli organismi viventi che è presente in ogni momento della loro esistenza. Infatti, è solamente la evidenza o l’assenza di questo processo che può darci la possibilità di dire se un dato organismo è vivo o morto.

Mi è spontaneo pensare al racconto quando capita di incontrare clienti che vivono la loro situazione definendola molto complicata e difficile. Vogliono cambiare e non sanno come fare, sentendosi schiacciati dai loro fardelli personali. A un esame superficiale le loro storie possono sembrare problematiche, disturbate, sorprendenti. Le condizioni in cui queste persone sono cresciute, hanno vissuto la loro esistenza, di solito non sono state molto agevoli e sicure … eppure, ogni volta che si presenta l’occasione, possono contare su una tendenza profondamente volitiva che alberga in loro.

La chiave per comprendere quel modo di essere è che esse stanno lottando, persone ed anche organizzazioni di persone, con le uniche modalità che sentono di avere a disposizione, per muoversi verso la crescita, verso il divenire: per uscir fuori da quella condizione di sofferenza. A chi in quel momento osserva la scena dall’esterno e non sta vivendo quei problemi, i tentativi possono sembrare inammissibili e inspiegabili ma essi sono i coraggiosi, autentici, tentativi della vita di diventare se stessa. È un modo di essere, una forte tendenza che cerca di affermare un processo di crescita costruttivo.

A partire da queste considerazioni, emerge con evidenza il fatto che quando le circostanze sono favorevoli, l’organismo cerca di superare se stesso, raggiungendo un grado di armonia e di integrazione superiori. E – per esperienza – mi sento di affermare che quell’essere bio-psico-sociale vive una condizione di sviluppo costantemente attivo, in virtù di un processo intrinseco naturale, perché in natura non esiste un processo vitale che giunge definitivamente a completezza e stabilità. Di conseguenza, posso anche rilevare sia gli elementi che favoriscono la crescita e sia le modalità attraverso le quali tale crescita può essere facilitata o incoraggiata.

Le caratteristiche generali degli esseri viventi assumono negli umani forme molto più complesse e singolari. Nelle persone le forze “naturali” appartenenti alla sfera vegetativa e quelle legate alla “istintualità” sono certamente meno attive ed evidenti, essendosi metamorfosate in capacità superiori tipiche dell’umanità. Ciò ha portato la persona a crescere individualmente, ad interiorizzarsi sempre di più, ad evidenziare la unicità e la irripetibilità del prorio Io, in un processo continuo di crescita spirituale. Sottolineando così la diversità e la differenza esistente tra ciascun essere umano.

Tuttavia, per essere “Io” bisogna essere almeno in due. Non è possibile crescere se si è da soli, l’Io si trova in divenire soltanto in rapporto a un Tu, solo nel momento in cui si confronta con l’altro. François de Singly ha sviluppato il tema della costruzione/ricomposizione dell’identità adulta all’interno delle relazioni ed ha evidenziato una struttura a quattro termini: un sé visto da sé stessi e un sé visto dagli altri, sdoppiati a loro volta in un sé intimo, privato, e un sé “sociale”, quello che da statuto a una persona. Mettendo in evidenza che la questione dell’identità che sta alla base della definizione di sé, non è mai compiuta una volta per tutte ma richiede costanti aggiornamenti o riaggiustamenti. Quanto detto aiuta a comprendere anche che la costruzione dell’identità diventa un progressivo svelamento e/o rafforzamento di sfaccettature nascoste di noi stessi, da parte di altre persone significative.

Ecco dunque, che per lo sviluppo spirituale-identitario dell’essere umano “l’ambiente” che può facilitare o ritardare la sua crescita diventa maggiormente complesso e complicato dalla presenza e dalla necessità delle relazioni interpersonali che sono alla base della sua esistenza.