Archivio dei tag benessere organizzativo

8 – La promozione della salute organizzativa

La promozione della salute all’interno delle aziende, come attività derivante da uno sforzo congiunto è stata sostenuta dalle politiche comunitarie a partire dalla Dichiarazione di Lussemburgo del 1997 e dal Memorandum di Cardiff del 1998. In queste due occasioni è stata postulata la importanza di una attività volta al raggiungimento dei seguenti obiettivi:

–     miglioramento dell’ambiente e dell’organizzazione del lavoro;

–     promozione della partecipazione attiva dei lavoratori e dei datori di lavoro;

–     incoraggiamento dello sviluppo delle competenze individuali;

–     consapevolezza che qualsiasi normativa in materia di salute e sicurezza al lavoro, può essere inefficace se viene a mancare la contemporanea diffusione della cultura della prevenzione che necessariamente deve andare oltre i confini dell’ambiente di lavoro.

La prevenzione dovrà essere attivata a partire dal lavoro e insieme ai lavoratori, ponendo in essere dei comportamenti in grado di agire sulle scelte organizzative, per generare interventi che si pongano sempre più a monte delle situazioni che influiscono negativamente sulla qualità del lavoro.

Gli interventi sull’organizzazione del lavoro sono quindi di fondamentale importanza per la prevenzione. La prevenzione non si basa solo sul rispetto di norme ma anche sulla capacità di tutti i diretti interessati ad attivarsi nella elaborazione di misure efficaci per la prevenzione dei rischi che minacciano la salute fisica e la salute psicologica e sociale.

In futuro, la salute dell’individuo avrà certamente una importanza sempre più preponderante. La salute fisica, la salute mentale e la socializzazione continueranno ad essere asset fondamentali.  Senza essi, chi lavora non può raggiungere i criteri di performance richiesti né assumere il proprio ruolo nel mondo del lavoro.

Occorre farsi carico di una vera “cultura” del rischio, con lo scopo di analizzare le forme più sottili, più sfuggevoli della presa in carico e della gestione dei rischi psico-sociali al lavoro. Perché, dopo i rischi naturali e i rischi tecnologici, occorre renderci conto che esistono i rischi psicologici. Tenendo in considerazione non soltanto la resistenza ai rischi, ma l’assunzione del rischio (il farsene carico) per studiarne allo stesso tempo i fattori soggettivi delle condotte “a rischio” e “nel rischio” e l’incidenza dell’orientamento organizzativo sull’attivazione delle determinanti che innescano disfunzioni sul piano individuale e organizzativo. Smarcandoci da un approccio solamente obiettivante e negativo, del rischio equiparato al pericolo e/o alla malattia, sostituendo ad esso un intervento di tipo partecipativo, a partire da una considerazione integrativa e proiettiva. Perché, oltre ai meccanismi di difesa (nel senso psicodinamico) e di adattamento (coping) il rischio sollecita meccanismi di disimpegno e di decisioni adeguate che portino all’uscita dalla situazione critica, che dipendono in larga misura dalla organizzazione del lavoro.

La psicologia del lavoro e delle organizzazioni permette di avere una visione globale delle condizioni di lavoro e del loro effetto sulla salute, mettendo in evidenza i rischi legati alla organizzazione del lavoro, ai tempi di lavoro, alla intensificazione del lavoro, ecc.; che pur rimanendo celati allo sguardo dei molti, sono attualmente quelli che costituiscono la principale causa di danno per la salute e la sicurezza di chi lavora.

Il lavoro è diventato per consistenti quote di lavoratori una faccenda molto complessa, che presuppone sempre maggiori conoscenze e capacità di risolvere i problemi, ed è fortemente caratterizzato da cambiamenti di ordine tecnico ed organizzativo. Ne consegue che non solo le competenze professionali, ma anche quelle sociali e personali rivestono un ruolo decisivo nella vita lavorativa. L’effettiva possibilità di acquisire e di consolidare tali competenze, esercita un’influenza decisiva e sempre più forte sulla posizione occupata dai lavoratori sul mercato del lavoro.

 

 

 

Quanto precede appartiene a una raccolta di appunti:

1 – un equilibrio costantemente instabile

2 – Stiamo vivendo una “mutazione genetica” delle nostre abitudini

3 – Comparse in una commedia di cui non siamo né registi né sceneggiatori

4 – Ritmo e intensità invece di fluidificare le attività di lavoro, le rendono spesso stressanti, pericolose e angosciose

5 – Una caratteristica importante del lavoro d’oggi è che l’equilibrio tra routine e problemi da risolvere è stato interrotto

6 – Tener conto dei rischi psicosociali

7 – Un’organizzazione e un ambiente di lavoro sani e sicuri sono fattori che migliorano le prestazioni

8 – la promozione della salute organizzativa

9 – Bibliografia di riferimento

Che costituiscono l’Introduzione alle lezioni del 31 marzo, 5 e 7 aprile 2014) del corso di Psicologia delle relazioni all’Università Cattolica di Milano (Facoltà di Economia)

Il front-line del benessere organizzativo – Attori, fattori strutturali e processi, nella gestione del rischio psico-sociale”.

La prevenzione della salute psicologica nei luoghi di lavoro come modalità di gestione delle risorse umane

Essendo ormai introvabile la raccolta degli Atti del Convegno che conteneva questo contributo, lo trascrivo integralmente a beneficio di quanti gentilmente hanno espresso il desiderio di leggerlo.

***

Il pensiero corre, con molta riconoscenza e ammirazione a Francesco Novara che ci ha sempre incoraggiato a “fratturare quello che siamo diventati, per divenire possibilità svelate”.

E non si può fare a meno di citare un suo concetto.
“Sovente l’organizzazione si ammala perché espia il tradimento della missione cui deve servire: le disfunzioni interne risultano – in un circolo vizioso di aggravamento – effetto e causa di una perdita di contatto con la realtà per la quale l’organizzazione deve operare.
Ciò impedisce un orientamento realistico e un mantenimento dinamico dell’equilibrio complessivo: l’avvio alla confusione prepara la disintegrazione”
.

Perché investire sulla prevenzione della salute psicologica attivando la gestione delle risorse umane?
Innanzitutto, occorre chiarire che il miglioramento della salute sul posto di lavoro non deve essere necessariamente complicato o dispendioso e tantomeno esigere molto tempo per la sua realizzazione.
È sufficiente impegnarsi per facilitare i processi relazionali alla base della salute mentale delle persone al lavoro. Attraverso una gestione funzionale proprio delle risorse umane, quell’elemento che costituisce il fondamentale capitale fondamentale dell’azienda.

Qui vorrei fare un piccolo inciso richiamando quanto ricordato dall’amico e collega William Levati (W. Levati, M. Saraò: Psicologia e sviluppo delle risorse umane nelle organizzazioni, FrancoAngeli)
Se riformuliamo i tre classici fattori della produzione (capitale, terra e lavoro come finanza, tecnologia/organizzazione e risorse umane) possiamo constatare che di fatto le prime due hanno conquistato nelle organizzazioni una credibilità, un peso e una visibilità che manca totalmente alla terza.
Prova ne è che raramente, (…) i direttori risorse umane fanno parte dei Board of Directors a differenza degli altri primi livelli aziendali.
In altri termini a un direttore di finanza o a un direttore commerciale viene chiesto di contribuire alla formulazione delle strategie attraverso la pianificazione di loro competenza, mentre al direttore risorse umane viene chiesto solo a valle di eliminare i possibili ostacoli legali, amministrativi, sindacali o al massimo di presentare una analisi quantitativa del fabbisogno di risorse umane.

In realtà le risorse umane non sono un semplice fattore della produzione, ma rappresentano un meta fattore, nel senso che la finanza, l’organizzazione o la tecnologia non esistono in sé, ma esistono uomini (e donne) che fanno funzionare la finanza, la tecnologia, l’organizzazione.

Quindi un’indagine qualitativa che riguardi queste persone dovrebbe essere l’elemento portante di un discorso di pianificazione economica dell’azienda. Invece alla funzione Risorse umane si chiede quanti sono gli individui e quanti potranno essere, non quali sono e quali dovranno essere per rendere fattibile la strategia aziendale.

In questo modo, precludendosi la possibilità di formulare una pianificazione qualitativa, si impedisce alla funzione Risorse Umane di passare da un ruolo tattico a un ruolo strategico all’interno dell’organizzazione.

La promozione della salute psicologica al lavoro riguarda innanzitutto le relazioni esistenti tra la salute e il benessere dei dipendenti – da una parte – e il successo della azienda dall’altra. Successo che a sua volta può essere inteso come “salute” (dei bilanci, delle relazioni, ecc.) e “sofferenza” (ahimè è ormai costante la sofferenza dei mercati!)

Riguardo ai costi e ai vantaggi
Va subito detto che è più impegnativo e costoso sostituire i dipendenti qualificati o affrontare gli aumenti dei costi di gestione dipendenti da una non puntuale organizzazione del lavoro. Si pensi ad esempio ai costi legati alla ricerca del personale, ai relativi colloqui, alla formazione, al reclutamento, ecc. Si rifletta sul valore della perdita delle competenze, delle conoscenze e della “memoria istituzionale”, che viene a mancare nel momento in cui un valido collaboratore ci lascia.

Per non parlare poi dei costi aggiunti derivanti da assenteismo, bassa produttività, insoddisfazione al lavoro, ecc. Tenendo presente che, secondo le ricerche e la letteratura scientifica sull’argomento, il fatto di investire sulla salute e sulla sicurezza permette di risollevare il morale dei dipendenti e aumentare il successo dell’azienda.

Investiamo quindi sulla promozione della salute psicologica per il successo della nostra azienda!
Come dirigenti o collaboratori di una azienda siamo consapevoli dei problemi derivanti dalla demotivazione del personale, dell’organizzazione del lavoro, dal tasso di assenteismo cronico, dei numerosi conflitti da gestire, e degli sforzi necessari per trovare la “persona giusta per il posto giusto” soprattutto quando un dipendente molto stimato decide di lasciare il posto di lavoro.

Oltre ad essere lunghi, costosi e onerosi, questi compiti impediscono di spendere tutte le energie in un progetto più vantaggioso per l’azienda, come la cura della clientela e la pianificazione strategica dell’azienda.

Investiamo per migliorare la nostra salute mentale!
Sapendo che la maggior parte delle persone trascorre i 2/3 della giornata al lavoro, parlando di qualità della vita non possiamo fare a meno di riferirci alla qualità del nostro lavoro

Di fatto, le ricerche evidenziano che il luogo di lavoro ha una certa incidenza sulla salute e il benessere dei dipendenti e anche sulla salute dell’azienda.
Ormai conosciamo molto bene la incidenza dello stress professionale sulla salute e molti fattori che possono determinarlo. Ad esempio: il livello di controllo sul lavoro, il carico di lavoro, la responsabilità nei confronti degli altri, le esigenze di riconoscimento personale, l’ambiguità rispetto all’avvenire dell’impiego, ecc. Tra questi elementi la variabile principale che incide sulla salute – e contemporaneamente sul livello di soddisfazione che il dipendente ha verso il suo ambiente di lavoro – è il controllo che egli esercita sul suo lavoro stesso, ossia la sua sfera (ampiezza) decisionale. Più semplicemente, l’ampiezza decisionale può essere definita come il grado di controllo che una persona può esercitare sul suo ambiente di lavoro e sulle sue attività quotidiane, le decisioni che vengono prese e i risultati di tali decisioni. Essa è anche correlata con la capacità di poter dire “no” o di negoziare il carico di lavoro senza timore di rappresaglie o di reprimende.

Dirigere, essere a capo di un comparto o di una equipe, insegnare, delegare delle responsabilità, significa trasmettere esperienza. Ciò che viene trasmesso o trasferito dovrebbe essere garantito dalla storia della persona che avvia tale scambio e dai suoi “maestri” di riferimento.
Dirigere, comandare, essere leader, vuol dire anche “drammatizzare” la propria storia e il proprio vissuto professionale e personale.

Una gestione delle risorse umane che si basa sull’esperienza, non dovrebbe ridursi alla ripetizione di un corpus asettico di norme e procedure.
Non è un caso che molti autori in questi ultimi anni abbiano affrontato l’argomento, mettendo in relazione la funzionalità e le competenze di “facilitazione” insite nella leadership con la qualità del lavoro e il benessere delle persone.

Cito tra i molti:

• BACHMANN Kimberley, 2000, La création de milieux de travail sains: pas juste une histoire de casques e de battes de securité, Le Conference Board du Canada, (novembre), p. 37
Bachmann discute sul bisogno per i quadri superiori di affrontare la salute e il ben essere in ambito lavorativo in modo integrato; affinché si possa successo in una economia globale competitiva. Definisce un approccio globale in grado di promuovere la elaborazione di politiche e di programmi capaci di affrontare le questioni relative all’ambiente fisico, all’ambiente psico sociale e alle pratiche di salute individuale. Il lavoro suggerisce che tutti i diretti interessati, compreso i governi, i datori di lavoro, le organizzazioni non governative, le organizzazioni sindacali e i fornitori di servizi profit, hanno un ruolo da giocare creando un approccio globale alla salute nell’ambito lavorativo.

• BADARACCO Joseph L. Jr. 2001. “We Don’t Need Another Hero”, Harvard Business Review, vol. 79, n. 2 (settembre). P. 120 (7).
Questo testo descrive le caratteristiche dei leaders morali che agiscono in modo trasversale in prospettiva di vittorie discrete. Esso suggerisce che i leader discreti sono pratici, efficaci e validi. Sostiene che spesso è più efficace per i leader scegliere accuratamente i loro combattimenti piuttosto che “immergersi in una fiammata di gloria per un semplice sforzo drammatico”.
Badaracco fornisce linee direttrici di base per i leader morali: riportare le cose al domani, scegliere il combattimento, aggirare i regolamenti senza violarli, trovare un compromesso. Utilizza degli aneddoti per illustrare come ciascuna di queste linee direttrici può essere utilizzata per gestire dei dilemmi di ordine etico. Include un inserto che descrive due caratteristiche distintive dei leader morali discreti: le loro motivazioni sono definitivamente sfumate e la loro visione del mondo è chiaramente realista.

• BUHLER Patricia M., 2001, “Managing in the New Millennium: the agile manager”, Supervision, vol. 6, n. 8 (agosto), p. 13 (3)
Buhler descrive la necessità per i dirigenti di essere flessibili affinchè possano efficacemente incoraggiare la vivacità nel loro ambiente di lavoro. Fa emergere la necessità di trattare i dipendenti in modo eqanime e di rispondere ai loro bisogni individuali. Il documento fornisce esempi del modo in cui i dirigenti possono dare prova di flessibilità nel loro modo di ricompensare i dipendenti, di pianificare per il futuro, di utilizzare le nuove tecnologie per incentivare il lavoro, di far fronte ai giochi politici interni all’ufficio e di risolvere dei problemi.

• Canada. SOUS-COMITE’ DU CHF SUR LE MIEUX ETRE EN MILIEU DE TRAVAIL. 2000, Le mieux etre en milieu de travail – un défi a relever; Rapport du Sous Comité. (settembre), 74 p. Bilingue
Questo rapporto definisce il senso del benessere al lavoro e discute sulla sfida attuale da accogliere affinché la funzione pubblica federale diventi un “datore di lavoro di prima qualità”. Discute le principali questioni sollevate dai dipendenti nel Sondaggio promosso presso i funzionari federali nel 1999: carico di lavoro, equità nei processi di selezione, molestie morali e discriminazione, avanzamento professionale e apprendimento. Raccomanda anche dei mezzi secondo i quali i dirigenti possono abbordare tali questioni nel quadro della funzione pubblica federale. Contiene anche degli esempi di iniziative prese da diversi ministeri ed organismi di governo per affrontare tali questioni.

• Centre syndacal et patronal du Canada. 2000, Point de vue 2000: Le milieu de travail sain, 15 p., 17 grafiques.
Questo rapporto presenta i risultati di un sondaggio presso i dirigenti del settore pubblico e privato e di organizzazioni sindacali. Presenta un confronto di punti di vista degli intervistati in merito al ciò che costituisce un ambiente di lavoro sano.

Non volendo trascurare la importanza della qualità dell’organizzazione del lavoro per la salute psicologica dei lavoratori. Cito ad esempio:

• CANADA. SANTE’ CANADA, 2002, Conseil sur la gestion des risques associés au stress en milieu de travail, partie 2, p. 23-38
Questo documento fornisce delle informazioni sulle cause di stress organizzativo e le sue ripercussioni per le organizzazioni e le persone. Cerca di “aumentare la presa di coscienza e a ispirare l’azione concernente i rischi molto reali per la salute e la sicurezza portati da diversi agenti di stress tossico presenti in ambiente di lavoro”. Fornisce dei consigli sia alle direzioni che ai comitati per l’ambiente sulle modalità di affrontare efficacemente la questione dello stress. Include una serie di lucidi che possono essere utilizzati nel corso di una presentazione.

• DUGDILL L., 2000, “Developing a Holistic Undestanding of Workplace Health: The Case of Bank Workers”, Ergonomic, vol. 43, n. 10, p. 1738 (12).
Dugdill esamina i risultati di uno studio riguardante gli impiegati di una banca del Regno Unito e riferito al loro punto di vista sul rapporto tra i fattori psicologici, lo stile di vita e la salute. Enumera alcuni fattori che contribuiscono alla salute dei dipendenti includendovi il contenuto del lavoro, le relazioni, la concezione dei compiti, l’ampiezza del processo decisionale e il controllo del lavoro. Suggerisce che le strategie di promozione della salute in ambiente di lavoro devono affrontare sia questioni di stile di vita psicosociali che individuali.

• DYCK Dianne e Tony ROITHMAYR, 2001, “The Toxic Workplace”, Benefits Canada, vol. 25, n. 3 (marzo), p. 52 (1=9
Gli autori riferiscono dell’impatto di agenti stressanti dell’ambiente di lavoro su individui e organizzazioni. Sottolineano i costi dello stress e pongono dei dubbi sul livello dei successi dei programmi che hanno come finalità il benessere nel trattare le cause dello stress. Presentano uno schema per individuare e misurare le cause fondamentali dello stress in ambito lavorativo.

• GEMIGNANI Janet, 2001, “When Work Becomes Toil”, Business & Health, vol. 19, n. 6 (giugno) p. 7 (1)
L’autrice presenta i risultati di un sondaggio riferito su 1000 operai americani effettuato da Families and Work Institute. Essa discute della prevalenza dei sentimenti di surmenage tra gli operai americani. Enumera una serie di fattori relativi all’ambiente di lavoro che contribuiscono al surmenage. Descive le conseguenze del surmenage per le persone e le organizzazioni. L’articolo include brevi statistiche riguardo le differenze dei sentimenti di surmenage dichiarati per età e professione.

• LEITER Michael P. e Christina MASLACH, 2001, “Burnout and Quality in a Sped-Up World”, The Journal for Quality and Participation, vol. 24, n. 2 (estate), p. 48-51
In questo articolo, gli autori trattano della importanza di affrontare la questione dell’esaurimento all’interno delle organizzazioni. Presentano uno schema diagnostico del potenziale di esaurimento nei dipendenti. Segnalano un metodo per valutare la situazione attuale nelle organizzazioni e avviare il processo di cambiamento.

• LYNCH Wendy D., 2001, “Health Affects Work and Work Affects Health: We Know How Health Affects Productivity, But Do We Undestand How Work Affects Healt?”, Business & Healt, vol. 19, n. 10 (nov-dic) p. 31 (4)
Questo articolo tratta degli inconvenienti del lavorare per tante ore e rinunciare alle vacanze. Presenta i risultati delle ricerche che evidenziano il costo per i dipendenti dei comportamenti ad alto rischio come ad esempio il tabagismo. Formula dei dubbi riguardo i provvedimenti in cui piccoli compromessi da parte dei dipendenti in favore del lavoro possono avere un impatto negativo a lungo termine sulla produttività. Enumera alcune conseguenze negative delle troppe ore di lavoro includendo la privazione del sonno, la depressione e la diminuzione delle competenze interpersonali. Tratta anche dei problemi acuti ai quali fanno fronte i dipendenti in situazioni di lavoro di forte domanda e debole controllo, in particolare coloro che devono anche trattare con un cattivo dirigente. Sottolinea il bisogno di affrontare i problemi sistemici nel contesto di lavoro piuttosto che semplicemente concentrarsi su interventi circoscritti come i programmi di gestione dello stress.

• MASLACH Christina e Michael P. LEITER, 1999, “Take This Job and Love It!”, Psychology Today, vol. 32, n. 5, p. 50 (6)
Questo articolo mette in luce come gli ambienti di lavoro contribuiscono all’esaurimento dei dipendenti. Gli autori pongono in evidenza sei fattori chiave che contribuiscono al senso di benessere di un dipendente: un carico di lavoro ragionevole, il sentimento di avere il controllo della situazione, l’occasione di ricevere dei riconoscimenti (ricompense), un sentimento di comunità, la fiducia nel luogo di lavoro e la condivisione di valori. L’articolo fornisce esempi della manifestazione di questi fattori nell’ambito lavorativo e descrive degli scenari che mostrano come i dipendenti possano far fronte alle situazioni e alle sfide che possono sorgere. Include una lista di misure da prendere per provocare miglioramenti dell’ambiente di lavoro.

• Mental Health in the Workplace, 2001, Worklife Report, vol. 13, n. 2, p. 11 (2)
Questo articolo riassume i risultati di uno studio dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro sulla incidenza e il costo dei problemi di salute mentale in ambito lavorativo. Fornisce informazioni sulla incidenza e le cause delle malattie legate alla salute mentale in cinque paesi: gli Stati Uniti, l’inghilterra, la Germania, Finlandia e Polonia. Tratta dei costi malattia mentale per le persone e i datori di lavoro ma anche dei progressi fatti fino a questo momento nelle soluzioni da apportare a questo problema.

• RAIMY Eric, 2001, “Back to the Table”, Human Resource Executive, (15 marzo) p. 1, 28-32
Questo autore presenta il concetto di un processo doppio di ristrutturazione degli orari di lavoro nel quale degli sforzi vengono fatti per concepire i compiti con la finalità di aumentare la produttività e allo stesso tempo ridurre le ore di lavoro. Include degli esempi che mostrano come delle organizzazioni come FleetBoston, Bank of America e Marriot International hanno messo in opera questo processo con successo.

Ho citato solo due aspetti della questione, vi è però un certo numero di dati comuni che emergono dalle ricerche e che possono essere riassunti in tre ambiti: le caratteristiche di un buon posto in cui lavorare, le condizioni che facilitano la creazione di salutari posti di lavoro e allo stesso tempo gli strumenti e le tecniche per aiutare i datori di lavoro a creare dei posti di lavoro di qualità.
Ecco un riassunto di questi messaggi:

Le caratteristiche di buoni posti di lavoro
–  le persone sono dedite al lavoro
–  vi è una reciprocità di rispetto e fiducia tra i dipendenti e i dirigenti
–  le persone ritengono di essere trattate con equità
–  vi è uno scopo ben preciso
–  i dipendenti sono capaci di garantire un equilibrio tra il loro lavoro e le loro responsabilità personali
–  i dipendenti si sentono al riparo dalle molestie psicologiche o morali e dalla discriminazione

Condizioni che aiutano a creare dei posti di lavoro salutari
–  la direzione è dedita al compito
–  i quadri intermedi sono motivati e vengono adeguatamente riconosciuti e compensati
–  comunicazioni aperte e oneste vengono incoraggiate dovunque nell’organizzazione
–  il rendimento viene valutato in funzione dei risultati piuttosto che sulle apparenze
–  la partecipazione dei dipendenti al processo decisionale viene incoraggiata e facilitata
–  viene delegata ai dipendenti una parte del controllo sul loro lavoro

Strumenti per agevolare la crescita delle persone e dell’azienda
–  sondaggi sul clima organizzativo
–  programmi di formazione e di perfezionamento “centrati”
–  impiego di strumenti di valutazione per misurare i progressi
–  elaborazione e messa in opera di strategie e programmi che favoriscono l’impegno responsabile sul piano professionale e personale
–  elaborazione di progetti pilota e creazione di gruppi di lavoro impegnati sugli elementi chiave dell’ambiente di lavoro
–  programmi di gestione del cambiamento che facciano perno sui comportamenti come mezzi per realizzare un cambiamento culturale durevole
–  tecniche specifiche per definire meglio il compito, l’impegno, carico di lavoro e la programmazione delle attività

Per una più accurata descrizione dei casi di “sofferenza” organizzativa e individuale e degli interventi di prevenzione che possono essere realizzati, sono a disposizione per i vostri quesiti. Sia durante la pausa che inizierà a breve, subito dopo avere ringraziato tutti voi per la presenza e la cordiale attenzione. Sia nel caso vogliate incontrami o scrivermi in un altro momento.

Grazie.

 

Contributo di Vittorio Tripeni al convegno:

Qualità dell’organizzazione del lavoro e salute psicologica – Una riflessione nell’ottica della Psicologia del Lavoro e dell’Organizzazione per prevenire i rischi della salute psicologica correlati al lavoro.

Milano, Via Bernardino Luini 5 – 29 maggio 2003

 

Il benessere delle relazioni

Spesso quando incontro dirigenti o manager, per un parere professionale o anche per un breve scambio di impressioni a margine di un evento, ogni tanto li sento raccontare di “problemi umani” verso i quali provano una legittima difficoltà. A volte la situazione rischia di degenerare miseramente, in altre si corre anche il pericolo di essere oggetto di aggressioni verbali o fisiche. Talora non è infrequente incontrare elementi veramente difficili da gestire, eterni insoddisfatti, persone continuamente scontente che rendono la vita pesante a colleghi e collaboratori.

I miei interlocutori vogliono farmi capire quanto certe volte possa essere complicato, se non impossibile, portare avanti una iniziativa, una attività nuova o un progetto. Svolgere un compito di guida o di coordinamento, mantenere un minimo di agio all’interno di una riunione. Talora si fa molta fatica a organizzare le persone e il gruppo, farle partecipare attivamente, ricondurre le discussioni sul tema all’ordine del giorno, gestire le tensioni e i conflitti. Far fronte ai pensieri negativi, alle frasi killer, al fuoco incrociato per evidenziare tutte le difficoltà e tentare di affossare definitivamente l’idea.

Un collaboratore “problematico” è una spina nel fianco per un capo diretto. Talvolta, lo è anche per i suoi colleghi e spesso questi ultimi fanno pressione sul dirigente affinché egli possa risolvere il problema e faciliti un’atmosfera di lavoro più tranquilla. In alcuni casi la stanza del capo può diventare l’ufficio del pianto (“il mio ufficio è diventato un ufficio reclami …”) di eventuali clienti insoddisfatti o addirittura offesi dal comportamento del dipendente.

Sarà forse perché in azienda si è più interessati alla valutazione delle performance, ai bilanci e ai risultati delle vendite e meno all’interesse per le relazioni tra le persone che lavorano? Senza dubbio i numeri sono fondamentali per la sopravvivenza e il progresso dell’organizzazione aziendale e per la definizione delle strategie future. Tuttavia è necessario considerare che il successo passa anche attraverso un esame approfondito della disposizione mentale dei dipendenti e di quel loro patrimonio di competenze e abilità individuali specificamente umane. Ad esempio, chiedersi chi fa che cosa, come, in quale stato d’animo, è fondamentale per considerare il valore della relazione tra le persone e il loro lavoro.

Le aziende stanno di nuovo lasciando il passo a logiche autoritarie di funzionamento organizzativo. Probabilmente questo è dovuto ai cambiamenti in corso e soprattutto alla pressione del breve termine dovuta agli imperativi dei “numeri”, Ad esempio, è vero che i dirigenti attualmente sono meno numerosi di un tempo, tuttavia non è una spiegazione sufficiente quando alcuni di essi si fanno notare per il loro sbrigativo modo di porsi in relazione con i collaboratori.

Sembra quasi che la cultura manageriale moderna, in fatto di miglioramento dei processi comunicativi interni e di un cambiamento di cultura e di comportamenti nella gestione delle risorse umane, non sia ancora entrata del tutto nelle nostre aziende. Forse c’è una scusante, tenendo conto che i manager vengono valutati più volentieri rispetto alla realizzazione di risultati quantitativi (tassi di produttività, riduzione dei costi, standard di lavoro o quote di vendita) e quasi mai rispetto alle loro capacità di mettere in collegamento idee e persone. È raro che li si giudichi sulla base delle loro abilità di far crescere una equipe o sulla perizia di far crescere i propri collaboratori; ambedue elementi fondamentali per l’evoluzione dell’azienda e la sostenibilità organizzativa.

A loro volta molti i manager affermano che, per loro esperienza, è difficile ottenere i rendimenti desiderati senza esercitare una certa autorità sui dipendenti; che ci si arrabbia perché costoro non prendono iniziative e stanno ad aspettare che gli si dica cosa fare. Vero che si può ottenere, attraverso l’autorità, che i dipendenti eseguano i loro compiti, però … per ottenere di più, occorre farseli alleati, mobilitarli, ma soprattutto tenere conto delle loro attese di riconoscimento e rispetto. Ciò che di solito prelude a una maggiore motivazione.

All’interno delle aziende le difficoltà relative ai problemi tecnici sono abbastanza limitate; è veramente difficile riscontrare lacune nelle competenze specifiche (soprattutto se sono state ben valutate in ingresso). Tuttavia, nei gruppi di lavoro, tra le persone coinvolte in un progetto, talvolta, non è facile coordinare gli elementi e articolare le differenze. Il ruolo di responsabilità spesso richiede ora capacità prima impensate; ad esempio, fluidificare i meccanismi della comunicazione interna, lavorando sull’ascolto, la gestione dello stress e delle emozioni, i problemi relazionali. In azienda diventa sempre più importante “curare” un clima di reciproca fiducia e migliorare la coesione del gruppo dei collaboratori.

Chi dirige una azienda o è responsabile di un settore di essa, deve considerare che l’incremento della produttività e la qualità dei servizi si trova sempre più in relazione con il morale dei collaboratori e il benessere (nei termini di “qualità delle relazioni interpersonali”) nei luoghi di lavoro.

Contribuire alla qualificazione complessiva della comunicazione interna, migliorare il clima organizzativo, significa in sostanza agevolare le transazioni relazionali di chi vi lavora, metterne a punto i relativi meccanismi di regolazione per garantire il successo dell’azienda e dei suoi prodotti/servizi.

Le ricerche scientifiche di Psicologia delle Organizzazioni hanno da tempo dimostrando che chi lavora in un contesto relazionale sano e privo di tensioni, da alle aziende un netto vantaggio sulla concorrenza. Le aziende che investono sul clima interno ne traggono benefici, per il fatto che favoriscono un lavoro di qualità, una più grande creatività e un miglior servizio alla clientela. Riducono il numero dei contenziosi e mantengono un basso tasso di assenteismo. Riescono a far crescere i talenti migliori e fidelizzare le persone più competenti.

Promuovere il benessere delle relazioni che le persone hanno con il proprio lavoro e nei luoghi di lavoro, risolvere i problemi relazionali che intossicano l’atmosfera, è un investimento fondamentale per l’azienda. Soprattutto quando recuperiamo il valore delle persone valutando e, allo stesso tempo, incoraggiando un atteggiamento mentale positivo dei collaboratori.

I rapporti interpersonali, il clima relazionale ed organizzativo nei vari settori dell’azienda, il ruolo dell’emotività e della passione, sono alcuni degli elementi fondamentali costituenti le condizioni favorevoli per “fare squadra”, che scaldano i cuori e le menti delle persone e delle organizzazioni. Non basta mettere in atto una buona idea per renderla realtà operativa e nemmeno è sufficiente che il capo la comprenda perché i collaboratori la mettano in pratica.

La tecnica o le tecniche in questo caso non sono sufficienti. Ecco perché diventa legittima una psicologia delle risorse umane: in termini di opportunità di lettura, di messa a fuoco, necessaria per trovare il bandolo della matassa e avviare un processo di crescita a partire da una situazione critica. Una psicologia come “capacità relazionale”, di “comprensione della psicologia delle persone”, per fornire opportune chiavi di accesso ai problemi di comunicazione e permettere a ciascuno di aprire la porta alla sua personalità e trovare la propria strada, dando prova di intelligenza e autonomia.

Sviluppare capacità collaborative non è facile e tantomeno alla portata di ognuno. I manager tuttavia sono chiamati ad essere all’altezza del compito perché tale risultato è uno dei punti cardine delle loro capacità. Ovvio pertanto che dalla qualità del management dipenderà in gran parte il successo o l’insuccesso dell’organizzazione. Ma come può un manager garantirsi il successo?

È facile perdersi. Se proviamo a metterci nei panni di chi è chiamato a navigare in queste acque, è facile vivere insieme ad essi un senso di smarrimento.

A volte è stato sufficiente svolgere una serie di 8-10 incontri di consulenza, per risolvere in modo soddisfacente situazioni completamente degenerate, frutto di un lungo processo di impoverimento delle relazioni. Spesso i dirigenti, ne sono usciti più forti come persone di fronte alle reazioni emotive che prima li destabilizzavano e, ancora di più, l’apprendimento che ne hanno tratto, è stato acquisito per il resto della vita.

Talora è necessario ricreare una dimensione più umanizzata del lavoro e delle organizzazioni, tenendo conto che le conquiste tecnologiche sono per noi irrinunciabili, per la nostra crescita e il nostro benessere; allo stesso tempo, che le donne e gli uomini fanno la differenza, soprattutto per quanto riguarda il loro valore immateriale.

Dunque, diventa importante per il “capo” essere consapevole delle proprie capacità relazionali, farle emergere e canalizzarle, saper gestire le proprie difficoltà e diventare cosciente del loro funzionamento per aumentare la propria lucidità, per cambiare il proprio modo (legittimamente soggettivo) di vedere gli altri e le proprie relazioni. Apprendere a osservare con obiettività la propria situazione per rafforzare la efficacia delle proprie azioni e i relativi margini di manovra. Formarsi.

La proposta è quella di incentivare un’ecologia del lavoro e delle relazioni umane a tutto vantaggio delle aziende, dei loro clienti e, naturalmente, di chi vi lavora. Insomma, scoprire che si può lavorare e allo stesso tempo si può anche vivere in salute e trarre soddisfazione da ciò che si sta facendo. Questo, va a vantaggio delle persone e delle loro relazioni, ma è anche un’opportunità – in termini di valore aggiunto – per le aziende.

Bisogna ascoltare, fare un uso intelligente delle competenze dei collaboratori e prendere in considerazione (far emergere dalla loro esperienza diretta) ciò che occorre per far crescere l’azienda, in modo da interessare le persone al processo collettivo. A partire dal momento in cui si da la parola ai nostri collaboratori e in cui si prendono in considerazione le loro conoscenze, la qualità delle decisioni che vengono prese da noi è naturalmente migliore. Inoltre, se le persone sono coinvolte nella ricerca di soluzioni, esse saranno anche più motivate a metterle in pratica. E in genere fanno di tutto perché la cosa vada in porto, anche se in partenza esse potrebbero trovarsi in difficoltà.

Vittorio Tripeni
psicologo del lavoro e delle organizzazioni

( pubblicato anche in: https://hei.network/wp-admin/post.php?post=5852&action=edit )

Le influenze naziste sul management moderno

Nel suo libro Libres d’obéir: le management, du nazisme à la RFA, appena pubblicato da Gallimard, lo storico Johann Chapoutot mette in evidenza una certa continuità tra le pratiche organizzative del regime nazista e quelle che ritroviamo oggi oggi nelle nostre aziende.
Una tesi che farà discutere a lungo ma che vale la pena considerare.


Non è la prima volta che Johann Chapoutot, storico tedesco e professore all’Università della Sorbona, avvicina il Terzo Reich al nostro presente. Di libro in libro, si sforza di dimostrare che il nazismo non era una parentesi della storia ma piuttosto un infante della modernità occidentale. Concentrandosi oggi sul mondo del lavoro, mostra come l’approccio manageriale e le tecniche sviluppate dai leader nazisti hanno continuato ad essere utilizzati molto tempo dopo la fine della seconda guerra mondiale. Ed è così ancora oggi.
L’autore, riportando alla luce i trattati dell’organizzazione del lavoro degli alti funzionari del Terzo Reich, fa emerge un “linguaggio che il nostro mondo, la sua organizzazione sociale e la sua economia usano”, come “elasticità”, “performance”, “produttività” , “iniziativa creativa”, “redditività” … Ovviamente Chapoutot non afferma che la Repubblica di Weimar ha inventato il management moderno, ma mostra come i nazisti pensarono di ottimizzare l’organizzazione della forza lavoro, fino a diventare momento “matrice” (pag. 16) della teoria e della pratica del management del dopoguerra.

Attraverso la figura di Reinhard Höhn, al quale dedica gran parte del suo saggio, Chapoutot mostra che gli alti funzionari nazisti hanno riflettuto molto presto sulle questioni relative all’organizzazione del lavoro.
A Reinhard Höhn, un giovane avvocato brillante e funzionario della SS, viene affidato il compito di pensare al modo migliore per amministrare l’immenso territorio del Reich con mezzi ridotti. Il Reich si è ampliato in modi senza precedenti nella storia tedesca, e poiché ci sono sempre più uomini in uniforme, ci sono meno “risorse umane” alle spalle. Si deve dunque pensare alla trasformazione dell’amministrazione, per fare di più con meno. Inoltre, in campo economico, si tratta di produrre quantità assolutamente incredibili di armamenti per conquistare l’Europa, dall’Atlantico agli Urali. È in questo contesto che Reinhard Höhn svilupperà la sua concezione di Menschen-führung, “la guida delle persone”, una parola inventata per parlare di management perché i nazisti rifiutano di usare termini inglesi. Ciò che è interessante è che dopo il 1945 questa concezione continuerà ad alimentare il mondo del lavoro in Germania. Beneficiando delle leggi di amnistia del 1949, Reinhard Höhn sarà assunto da un sindacato dei datori di lavoro e, molto rapidamente, vedersi incaricato di creare una scuola per la formazione dei Quadri. Fu così che nel 1956 fondò l’Accademia di Bad Harzburg, nella quale formò un certo numero di dirigenti di grandi aziende tedesche.

Che si possa affermare con certezza l’esistenza di una matrice nazista del management forse non è possibile e non credo sia un’affermazione decisiva anche per l’autore. Tuttavia Chapoutot convince ricordando che il management, in quanto riflessione sulle modalità ottimali di strutturare una organizzazione produttiva, è in atto prima del nazismo. Fu il francese Henri Fayol, matematico e ingegnere, a gettarne le basi. Ma Fayol fu criticato dai nazisti per essere troppo cartesiano. All’epoca i nazisti criticavano i francesi per essere troppo autoritari nel loro stile di management. All’amministrazione francese, giudicata centralizzatrice, verticale, gerarchica, Reinhard Höhn opporrà la sua visione della Menschen-führung, “la guida delle persone”. Oppone dunque l’amministrazione francese al management alla tedesca che per lui vuole essere molto più liberale. I nazisti avevano capito che per essere in grado di produrre in modo così massiccio, era necessario motivare ciò che veniva chiamato “materiale umano”, che oggi viene chiamato risorsa umana. Ed è per questo che c’è una riflessione sulla gioia nel lavoro. Nel 1933 all’interno del Reich fu creato un gigantesco comitato aziendale, il Kraft durch Freude (KdF), “forza attraverso la gioia”, incaricato di organizzare le attività ricreative dei lavoratori.


Per i nazisti, dice Chapoutot, l’obiettivo era ricostruire la forza lavoro in modo che l’individuo fosse più produttivo. Il termine “performance” è fondamentale nel pensiero nazista, è un termine polisemico che significa allo stesso tempo produttività, prestazione, redditività. E per i nazisti, è molto chiaro che l’individuo non ha un’esistenza in sé, nessun diritto a parte la sua produttività. In altre parole, se non sei in grado di produrre per il Reich, non hai diritto alla vita. Il parallelo che vedo con l’idea contemporanea di rendere felici le persone sul lavoro che sostengono gli Happiness Managers è che essa non ha scopi filantropici. C’è un “progetto di business” dietro.

Buttando giù come una medicina amara le affermazioni di Chapoutot, percepisco l’utilità di questo suo contributo e rimango lucidamente inquieto di fronte al quadro che egli mi mostra. Soprattutto quando mi fa vedere anche come il regime nazista sia riuscito a creare un’organizzazione di lavoro non autoritario con il consenso generale intorno all’immaginario della “libertà germanica”. Un altro punto in comune con le organizzazioni attuali: le nozioni di piacere e svago. Se “non è ancora il momento del calcio balilla, delle lezioni di yoga o dei Chief Happiness Officers (…) il principio e lo spirito sono gli stessi”, sottolinea lo storico. I lavoratori obbediscono alla Führung, una “forma di potere che impone loro i fini da raggiungere, ma che trasferisce su di loro la responsabilità dei mezzi, perché non è solo nel modo di raggiungere questi obiettivi che sono liberi di agire”.

Johann Chapoutot è professore di storia contemporanea all’Università di Paris-Sorbonne, dopo essersi interessato al regime nazista in opere come Histoire de l’Allemagne (de 1806 à nos jours), pubblicato dal PUF (Que sais-je) nel 2014 o La Révolution culturelle nazie (Gallimard, 2016), ha scritto Libres d’obéir: le management, du nazisme à la RFA (Gallimard, 2020), in cui si concentra particolarmente sui metodi di Menschenführung, che traduce e germanizza il concetto anglosassone di management.

La strenna più bella: sentirsi riconosciuti al lavoro!


Le attuali modalità organizzative e di management in diverse occasioni moltiplicano le fratture all’interno delle comunità e dei percorsi di carriera, rendono fragili i contesti di appartenenza e di riconoscimento del lavoro, aumentando le criticità nei processi di socializzazione organizzativa e di costruzione delle identità professionali.

Occorre avere chiari questi nodi critici, se vogliamo comprendere gli atteggiamenti e i comportamenti di chi lavora insieme a noi, per realizzare una gestione consapevole e ponderata delle persone che vi lavorano.
Chi dirige un’azienda o è responsabile di un suo settore, deve tenere ben presente che l’incremento della produttività e la qualità dei servizi, si trova sempre più in relazione con il morale dei collaboratori e il benessere (nei termini di “qualità delle relazioni collaborative”) nei luoghi di lavoro.
Impegnarsi nella qualificazione complessiva della vita al lavoro, migliorare il clima organizzativo, significa in sostanza contribuire ad agevolare le transazioni relazionali di chi vi lavora, mettere a punto i relativi meccanismi di regolazione per garantire il successo dell’azienda e dei suoi prodotti/servizi. Non dimenticando che il benessere delle persone influisce sulle performance aziendali.

Ci rendiamo conto che il ruolo centrale della soggettività e dell’intersoggettività nelle relazioni di lavoro, dentro e fuori il perimetro aziendale, diventa sempre più evidente e importante.
È necessario affrontare con molto realismo il problema del riconoscimento al/del lavoro; al di là del semplice iter giuridico ed economico, senza temere etichette di idealismo o ingenuità.
Oltretutto il riconoscimento al lavoro sta richiamando sempre più l’attenzione, in quanto comporta un elemento di criticità che è legato anche ai problemi di salute mentale al lavoro. Abbiamo bene in mente che i vari fattori di rischio non positivi per la salute dei lavoratori e, di conseguenza, per quella delle aziende, comprendono tra gli altri anche il sovraccarico di lavoro, il deterioramento delle relazioni tra colleghi, la scarsità delle relazioni con i superiori diretti, la inadeguata circolazione delle informazioni relative alla governance e l’eccessiva limitatezza di comportamenti o pratiche di riconoscimento verso il lavoro svolto dai dipendenti.

Chi lavora spera in qualcosa di più di un salario, si aspetta che il suo lavoro sia riconosciuto; ad esempio, vedendo mettere in risalto i buoni risultati, sentendosi offrire incoraggiamento o segni d’apprezzamento. Una riconoscenza che può manifestarsi anche attraverso la creazione di uno spazio di discussione, che permette alle persone di esprimere il loro punto di vista sul lavoro e rinsalda i legami.
È possibile mettere in evidenza almeno due elementi di base del riconoscimento. Uno è il giudizio d’utilità del lavoro realizzato (riconoscere il rispetto delle gerarchie, il raggiungimento degli obiettivi, gli ostacoli superati, ecc.); l’altro è il giudizio estetico del lavoro (riconoscere la qualità delle azioni, la pertinenza delle decisioni, l’ingegnosità delle soluzioni, ecc.). Cercando di comprendere anche quali rischi incontra colui o colei che non si stente stimato/a e riconosciuto/a nel suo lavoro, tanto dai suoi superiori che dai suoi colleghi; ma anche quali inciampi possano emergere per le organizzazioni. Parecchi studi dimostrano che la mancanza di riconoscimento al lavoro è strettamente connessa con lo scarso coinvolgimento professionale, la demotivazione e l’assenteismo

Il lavoro rimane il luogo fondamentale della nostra vita e della ricerca d’identità e realizzazione personale; la qualità della nostra vita è direttamente proporzionale alla qualità del nostro lavoro. Un adeguato investimento di risorse morali e materiali per migliorare la qualità della nostra vita al lavoro è necessario.
Sfortunatamente, molto spesso, il lavoro è in genere percepito nella sua dimensione utilitaristica; ciò facendo non si rende giustizia agli sforzi di chi lavora e al contributo che egli offre. Trascurando che il riconoscimento al lavoro permette di realizzare le proprie attese, la immagine identitaria; che costituisce un elemento fondamentale di salute mentale.

L’assenza di riconoscimento genera spesso la perdita di riferimenti professionali e personali importanti. Con conseguenti aspri sentimenti quali l’amarezza, la frustrazione, l’inutilità e l’indegnità, che contribuiscono a mortificare la qualità dei rapporti tra il dipendente e l’azienda. Innesca anche una serie di comportamenti, costanti e tenaci, che invischiano a loro volta i dipendenti in un subdolo processo di vittimizzazione. È proprio l’importanza dello sguardo che l’azienda rivolge al proprio dipendente che da un senso a questo fenomeno; non importa tanto la natura dello sguardo, quanto lo sguardo stesso. Molto spesso chi si sente vittima, ad esempio di mobbing, o molestie morali, sente drammaticamente la mancanza di uno sguardo rassicurante. Che lo/la rassicuri soprattutto dell’importanza che l’altra parte gli riconosce in seno all’azienda.

Il riconoscimento e la riconoscenza al lavoro rappresentano la dimostrazione chiara che quanto noi realizziamo, gli sforzi investiti nel nostro lavoro e la stessa persona, sono apprezzati nel loro giusto valore. Il salario non è tutto. Occorre ugualmente sentirsi apprezzati per rinfrescare la nostra motivazione, sviluppare il proprio sentimento d’appartenenza e la voglia di sentirsi coinvolti nell’impresa.