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L’assistenza agli anziani nel corso di eventi critici

Gli anziani costituiscono un gruppo vulnerabile che ha bisogno di attenzione e di servizi specializzati, durante e dopo un’emergenza.
Lo stato di salute, la situazione finanziaria e sociale, l’isolamento come pure la mancanza di risorse che permettono di superare le situazioni difficili, costituiscono alcuni dei numerosi fattori che possono aumentare i bisogni delle persone anziane alle prese con un evento critico. Come quello rappresentato dalla grande epidemia di Coronavirus che ci sta coinvolgendo ora.

Il primo obiettivo di un intervento nei confronti delle persone anziane riguarda la eliminazione degli stereotipi che di solito si hanno nei loro riguardi.
La maggioranza delle persone anziane non sono fragili, malate, disorientate, inattive, dipendenti, ecc.
Gli anziani costituiscono, nella stragrande maggioranza, un gruppo autonomo pieno di risorse che vuole soddisfare i propri bisogni e pianificare in che modo soddisfarli.

Dalla letteratura scientifica e dalle ricerche sul campo, emerge chiaramente che molte persone anziane provano notevoli difficoltà prima di un evento critico. Ad esempio, non ricevono sempre adeguate segnalazioni concernenti la incombenza di un pericolo, una emergenza imminente o in corso. Anche perché a volte queste persone si trovano fuori del circuito di allertamento della protezione civile, oppure non inserite nelle reti sociali parentali o amicali.
Poi ci sono i casi di disabilità fisiche, come ad esempio la sordità o altre malattie, tanto che l’isolamento può impedir loro di udire i messaggi di allerta.

Anche se le persone anziane comprendono i segnali o i messaggi di allarme, diversi fattori possono impedire di allontanarsi dai luoghi dell’emergenza o di auto proteggersi. Ad esempio:

Inabilità
L’inabilità fisica o mentale, lo stare su una sedia a rotelle, la cecità, la sordità, le difficoltà di muoversi autonomamente, sono alcuni dei fattori che possono diminuire la loro capacità di lasciare – se necessario – il loro appartamento o di prendere le necessarie misure di auto tutela.

Mancanza di risorse e di informazioni
Alcune persone anziane spesso non dispongono dei mezzi di trasporto necessari o di assistenza fisica sufficiente per evacuare il loro alloggio. Può capitare anche che esse non sappiano dove andare o che fare per proteggersi, ne’ dove reperire le informazioni necessarie per conoscere meglio il pericolo che le minaccia.

Rifiuto di lasciare il luogo in cui stanno
Alcune persone anziane possono porre molta resistenza ad una evacuazione, per il fatto di sentirsi molto legate affettivamente ai loro beni: la casa, gli oggetti o gli animali, che esse si rifiutano di abbandonare. Perché hanno paura che entrino degli estranei, non vogliono lasciare la loro casa vuota per paura di essere derubati, o perché sono incapaci di valutare adeguatamente la situazione che si sta presentando.

Cosa fare?
Dato che la maggior parte delle persone anziane sono in grado di gestire autonomamente gli eventi, è importante occuparsi di quelle che sono a rischio; affinché si possa intervenire in tempo per avvertirle e nel caso evacuarle, oppure aiutarle a mettere in atto tutte le misure di autotutela necessarie per proteggersi.
Le persone che corrono maggiori rischi potrebbero essere quelle che:
– hanno più di 75 anni;
– abitano sole o che sono socialmente isolate;
– presentano problemi di locomozione;
– hanno perduto una persona cara nel corso degli ultimi due anni;
– sono state ricoverate in ospedale recentemente;
– sono incontinenti;
– sono disorientate e/o confuse;
– abitano in zone a forte concentrazione di anziani, come quelle in cui vi sono centri di accoglienza, di abitazioni protette, di luoghi di cura specializzati per persone anziane.

Ecco qualche punto di riferimento che può migliorare la pianificazione di interventi di urgenza per gli anziani a rischio:
un registro (tutelato dai vincoli previsti dalla legge) in cui scrivere nomi, indirizzi e bisogni (in termini di inabilità) delle persone anziane maggiormente sensibili;
un piano di emergenza comprendente le modalità e i meccanismi di avvertimento diretto delle persone anziane a rischio, così pure dei metodi e mezzi di evacuazione da parte della polizia, il 118 o il volontariato;
allo scopo di accelerare le procedure di evacuazione in caso di evento improvviso, sarà bene evidenziare sulla topografia comunale le residenze delle persone anziane a rischio.

Avvertire le persone anziane
Considerate le problematiche di natura sensoriale di numerose persone anziane, una segnalazione di un evento imminente o di una evacuazione fatta attraverso i sistemi di informazione audio e video potrebbe rivelarsi insufficiente.
Sarebbe dunque opportuno discutere, prima di tutto, di queste difficoltà con gli operatori dei mezzi di informazione e suggerire loro un sistema di allarme più appropriato; tale da compensare i disturbi visivi o uditivi che riguardano le persone anziane. Ad esempio, nei loro messaggi di allerta, i mezzi di informazione potrebbero consigliare ai loro ascoltatori di avvertire le persone anziane a loro vicine dell’evento imminente e aiutarle a evacuare o ad attivarsi per prendere le necessarie precauzioni.

Collegamenti
I responsabili di organizzazioni sociali che rappresentano interessi di categoria o attività di cura e assistenza per le persone anziane, il volontariato e le parrocchie (naturalmente anche le altre rappresentanze religiose) dovrebbero costituire una rete con l’organizzazione della protezione civile locale. Questa a sua volta sarà in continuo contatto con gli operatori dell’emergenza incaricati di seguire la evoluzione dell’imminente evento. Tutti questi organismi possono così lavorare in rete concertando le loro iniziative e assicurando in questo modo un adeguato coordinamento del piano di emergenza.

Assistenza in caso di evacuazione
– Il personale del soccorso pubblico 118, la polizia urbana, il volontariato di protezione civile, devono entrare immediatamente in comunicazione con le persone anziane a rischio che abitano la zona coinvolta dall’evento.
– Occorre prevedere delle modalità di assistenza per l’evacuazione ed anche dei mezzi di trasporto verso i centri di accoglienza o verso altri ricoveri temporanei.
– Rassicurare le persone anziane, che esse possono lasciare le loro abitazioni e i loro beni, perché la polizia sorveglierà le case e proteggerà le loro cose. (il piano di emergenza potrebbe contenere anche un piano di evacuazione degli animali domestici).
– Ricordare alle persone anziane di portare con loro le medicine e non soltanto le pillole. Quando si è pressati dall’urgenza, si dimenticano facilmente altre cose importanti: le gocce per gli occhi, gli inalatori, le pastiglie antiacido, le pastiglie di nitroglicerina. Sarebbe bene portare con se le eventuali grucce oppure l’apparecchio acustico o la dentiera.
– Gli operatori del soccorso 118 e gli altri soccorritori devono essere informati dei problemi particolari di trasporto delle persone anziane fragili verso i centri di accoglienza di urgenza o presso altre sedi, e della necessità di garantire loro le necessarie cure.

Reazioni emotive negli anziani
La maggior parte delle persone danno prova di resistenza e di coraggio di fronte all’emergenza, perché la loro esperienza (separazioni, divorzi, perdite di persone care, malattie, ecc.) ha permesso loro di costruirsi una capacità di recupero. Secondo la letteratura sulle emergenze,  le persone anziane, in quanto gruppo, hanno la tendenza a recuperare in fretta e più a loro agio, nel giro di un anno, rispetto ad altre fasce di età.
Tuttavia, per il fatto che certi anziani presentano effettivamente delle reazioni emotive e un certo stress, gli operatori del soccorso dovranno essere pronti a riconoscere queste situazioni e a soccorrere coloro che, nel periodo successivo all’evento critico, provano una reazione depressiva, confusione, accompagnata da una scarsa capacità di organizzarsi; oppure un sentimento di disperazione, di impotenza, di desolazione di fronte alla prospettiva di rifarsi una vita.

L’ansia, la depressione, la paura, la collera, i sensi di colpa e la tristezza sono sentimenti normali, anzi anche appropriati, c’è da aspettarseli.
Per le persone anziane, ciò può essere un mezzo per esprimere la propria inquietudine di fronte al loro avvenire, alla perdita della salute fisica, dei loro ruoli familiari, dei contatti sociali e della loro sicurezza finanziaria. Gli anziani tengono a conservare un senso di autonomia e in una certa misura di controllo sulla loro vita e il loro ambiente.
La collera è ugualmente una reazione normale da prevedere poiché essa permette alla persona di rispondere a ciò che l’ha colpita. Questa collera può essere diretta contro i bambini, i familiari o gli operatori del soccorso che non dovrebbero però allarmarsi ma anzi vedere in questa reazione delle persone anziane una modalità terapeutica di confrontarsi con le loro perdite.

La tristezza costituisce una reazione altrettanto normale e occorre permettere ed incoraggiare le persone anziane a piangere le loro perdite. I soccorritori dovrebbero riconoscere questo bisogno che hanno le persone anziane di piangere le loro perdite e dovrebbero tenere a bada i ragazzi o i familiari e tutti coloro che pensano di far bene cercando di evitare questa manifestazione di tristezza.

Il processo di lutto nelle persone anziane può esprimersi in maniere diverse:
– dimenticarsi di prendere le medicine;
– rifiutare di mangiare;
– incapacità di decidere che fare;
– rimuginare sull’incidente occorso.

Talvolta la reazione iniziale delle persone anziane è di dire che “tutto va bene”, ma ciò può essere una falsa impressione; queste persone hanno in realtà bisogno di aiuto per superare le perdite. E’ allora che gli operatori del soccorso rivestono un ruolo molto importante prestando loro un ascolto attivo.

 

 

 

Già pubblicato in:
V. Tripeni – La gestione dell’emergenza. I rapporti con la cittadinanza nel corso di eventi critici sul territorio. Il ruolo degli amministratori pubblici durante l’emergenza
Dispensa del corso FORMEL, Venezia, 21 settembre 2007

Emergenze, eventi critici e situazioni di disagio

Le situazioni nelle quali le persone si ritrovano a confronto di eventi critici, sono molteplici e possono presentarsi in modo diverso, secondo gli agenti scatenanti il fatto e le conseguenze dirette e indirette. Sia nel caso si tratti di un processo di “vittimizzazione primaria”, in cui le persone si trovano loro malgrado a subire conseguenze dirette, sia che riguardi un “coinvolgimento di servizio” in qualità di operatori del soccorso o dell’emergenza. In ambedue i casi concorrono diversi elementi comuni:
– il contenuto emotivo/affettivo dell’esperienza;
– la percezione e la valutazione del rischio;
– la gestione della comunicazione e l’elaborazione delle informazioni, in stretta relazione con la “presa della decisione” e la “motivazione” delle persone coinvolte.

In ogni caso influiscono anche le caratteristiche ambientali, perché freddo, caldo, altitudine, umidità, ecc., possono avere conseguenze fisiopatologiche che, oltre a comportare eventuali patologie specifiche, interferiscono in ogni caso con le condizioni psicologiche e sociali delle persone coinvolte.

1. Gli eventi naturali
Per quanto riguarda il coinvolgimento della popolazione, in genere gli eventi critici possono essere classificati come attesi e non attesi. Ad esempio, chi si confronta con il rischio e il pericolo in modo continuativo (pensiamo a tutti gli sport cosiddetti “estremi”) sa che può aspettarsi da un momento all’altro di rimanere coinvolto in una situazione critica. Invece chi, ad esempio, si trova coinvolto in un terremoto non ha certo previsto ciò che gli sarebbe capitato.
Su un altro versante, vi sono quelli che si confrontano con i rischi in quanto “implicati per scelta”. Come nel caso del personale dei servizi di soccorso e emergenza, oppure le forze dell’ordine. Che sebbene abbiano accettato di correre dei rischi scegliendo quella professione, possono trovarsi di fronte a situazioni che non hanno provocato, né alimentato o sostenuto e tantomeno auspicato.
Oltre alle diverse modalità di far fronte all’evento, teniamo conto anche della distinzione tra evento critico d’origine naturale ed evento critico di origine umana (accidentale o volontaria). Che segna anche il punto di svolta indispensabile per una efficace comprensione dei fenomeni fisiopatologici, eziopatogenetici e clinici correlati con l’evento o gli eventi.

Quali sono i fattori di maggiore nocività degli eventi critici d’origine naturale?
Il pericolo, talvolta l’isolamento (inteso anche come mancanza di informazioni), la condizione di profugo degli sfollati e degli evacuati, le condizioni di vita dei soccorritori nel corso di missioni di lunga durata. Queste sono alcune variabili che influiscono più o meno a lungo termine sulle persone coinvolte.
La eventuale aggressività fisica delle vittime e talvolta dei soccorritori, potrebbe avere relazione con l’aggressività derivante dagli effetti patogeni dell’evento traumatico, soprattutto presso le persone con una non sufficiente capacità di coping .
Nel contesto sociale possono emergere delle manifestazioni comportamentali, legate al panico ad esempio, ma anche esordi psicopatologici, come nel caso della nevrosi traumatica. Tutto ciò avrà degli effetti anche sugli operatori che, indipendentemente dalla gestione iniziale della situazione, rischiano di ritrovarsi a confronto con ulteriori eventi di cui essi potrebbero essere contemporaneamente i gestori, i soccorritori, ma anche gli attori passivi e le vittime.

Le catastrofi e gli incidenti
Il termine catastrofe è attualmente inteso nel senso di situazione accidentale grave, collettiva, che ha origine naturale e/o artificiale. La catastrofe si definisce essenzialmente come un evento che risulta dannoso per la collettività umana che la subisce.
Sono molteplici gli elementi caratterizzanti una catastrofe:
coinvolge la collettività;
– ha caratteristiche di brutalità, di accadimento inaspettato;
– è un evento non abituale;
– provoca danni e distruzioni di massa.
Louis Crocq, uno dei massimi esponenti della psicotraumatologia, nel 1987 ha aggiunto a questa descrizione la nozione di perturbazione sociale, di alterazione dei sistemi sociali funzionali (evidenziando in questo modo le caratteristiche della “criticità”).
Gli eventi critici classificati come “catastrofe naturale”, citati dalla letteratura scientifica, possono essere raggruppati:
– in rapporto con gli elementi geologici: eruzione vulcanica, frana, sisma, erosione, straripamento;
– in rapporto agli elementi climatici: tempeste, trombe d’aria, uragani, cicloni, maremoti, inondazioni, siccità, variazioni termiche, ecc.
– in relazione alla popolazione: malattie endemiche, epidemie, sovrappopolazione, carestie, ecc.
– invasioni animali: cavallette, termiti, topi, ecc.

2. Gli eventi di origine antropica
Sono direttamente dipendenti dal fattore umano e i loro effetti psicopatologici sulle vittime dirette e le “professioni a rischio” si presenteranno in modo diversi dai precedenti. Dal momento che, il fattore (umano) scatenante, diretto o indiretto, volontario o involontario, orienterà il pensiero delle persone direttamente e/o indirettamente coinvolte, a una logica fondata su un’opposizione radicale di vero e falso, bene e male (o bianco o nero) e alla loro moralistica opinione personale sul caso.
Ad esempio:
– “ non è possibile che un essere umano faccia una cosa simile! ”
– “ io non sarei capace di arrivare fino a quel punto! ”
– “ perché non ci difendiamo da tali comportamenti? ”

In generale, è possibile raccogliere schematicamente in due gruppi gli eventi critici imputabili all’uomo:

1. Quelli non voluti direttamente, risultanti dalla civiltà industriale e in relazione con:
– la terra: rottura di dighe, negligenze di natura ambientale, contaminazione radioattiva, ecc.;
– l’aria: piogge acide, esplosioni, nubi radioattive, smog;
– il fuoco: origine elettrica, chimica, vapori pericolosi, combustioni spontanee;
– l’acqua: contaminazione delle falde, marea nera, siccità, ecc.;
– la popolazione: incidenti di lavoro, incidenti causati dalla folla durante le partite di calcio, sommosse, incidenti marittimi, ferroviari, aerei.

2. Quelli voluti direttamente: il cui effetto psicologico avrà intense ripercussioni nel momento in cui le persone coinvolte e il “professionista” prendono coscienza del potenziale aggressivo e distruttivo dell’azione posta in essere:
– che chiamano in causa un numero limitato di individui: ingorghi, aggressioni urbane, presa di ostaggi, attentati, dirottamento di aerei, incendi, estorsioni criminali attraverso l’uso di virus o di veleni, violenze familiari;
– coinvolgenti un numero elevato di individui che agiscono contemporaneamente: guerre, guerriglie, guerre civili, terrorismo di stato, sommosse scatenate volontariamente da agitatori con l’obiettivo di destabilizzazione sociale, deportazioni, genocidi.

3. I fattori che possono innescare effetti dannosi

Il pericolo
Le persone coinvolte da un evento critico di particolare gravità si confrontano con il pericolo a diversi livelli e in diverse situazioni, sia di origine naturale che antropica. In tutti i casi, la risposta al pericolo corrisponde a una mobilitazione della vigilanza, che nelle persone ben adattate o ben preparate, comporterà conseguenze fisiche o psichiche minori.
Ciò che si dovrà temere, nel lungo periodo, è l’esaurimento delle risposte adattive in possesso di ciascun individuo (e diverse da individuo a individuo), un esaurimento contemporaneamente psichico, neurosensoriale e fisico, che porta ad abbandonare la lotta e cadere nella depressione.

L’isolamento
Parola diversa da “solitudine”, può ingenerare comportamenti aggressivi o depressivi. I professionisti impegnati in particolari interventi di soccorso possono essere a confronto con questa particolare situazione. Quella di ritrovarsi isolati, cioè vivere durante un lasso di tempo lontano dal mondo abituale e delle proprie radici. Ad esempio in occasione di un soccorso in montagna, in ambienti ostili, in occasione di grandi catastrofi (terremoti, eruzioni) i nostri operatori, anche se sono in gruppo, possono incontrare situazione di stress direttamente legate a questo isolamento, che viene ad aggiungersi agli altri parametri relativi alle criticità.
Le frustrazioni affettive, sociali, la perdita del contesto abituale di vita, delle relazioni amicali, familiari, del confort di vita elementare, la rottura dei ritmi circadiani rappresentano una pressione reale. La mancanza di stimoli abituali può innescare un rimuginio di idee e di problemi non risolti.
Situazioni simili si presentano nel corso di una prolungata assenza di informazioni che restituiscano un quadro comprensibile della situazione in cui si è direttamente coinvolti.

Il confinamento
Riguarda soprattutto le operazioni di soccorso di lunga durata, il confinamento può favorire l’emergenza di conflitti interpersonali con formazione di sottogruppi di opposizione.
Un argomento specifico o una critica diventano l’oggetto di sviluppi immaginativi poco razionali che traggono il loro alimento e la loro crescita da essi stessi, finché un qualche stimolo esterno non viene a cambiare il motivo di interesse.
Talvolta mal tollerato a livello individuale e fonte di manifestazioni patologiche, il confinamento può essere anche mal sopportato a livello di gruppo, il quale cessa di essere operativo oppure si rivolta contro il leader o contro l’autorità lontana dalla quale dipende (Bluth, 1979; Rivolier, 1979).
Del resto, è frequente, nelle condizioni estreme, che il dialogo risulti difficile per incomprensione reciproca tra il campo delle operazioni e i lontani responsabili.
Anche in questo caso la mancanza o la scarsità di informazione, comunicazione e relazione, con chi “ha in mano” il punto della situazione, risulta fonte di confinamento e di stress.

Le specifiche attività
Se lo stress originato dalla situazione differisce enormemente secondo i casi configurati, non è da meno il fatto che l’ambito lavorativo è all’origine di scariche aggressive che esprimono le difficoltà di adattamento della persona: il materiale non va bene o non è adatto, il procedimento non è idoneo, l’impiego del tempo è impossibile da rispettare, ecc. Spesso (e talvolta superficialmente) si è tentati di dare un’interpretazione psicopatologica realistica rispetto al momento. Ma non è raro appurare che la rivendicazione espressa in quella circostanza si fondi sulla realtà incombente.

Poliziotti d’America: vittime e carnefici

Per finalità di studio, non essendo disponibile in rete, ho trascritto quest’articolo di Vittorio Zucconi. E’ stato estratto da pagina 6 di la Repubblica di lunedì 11 luglio 2016.

 

 

Il detective del New Jersey che mi parla sotto l’obbligo legale dell’anonimato per tutti i 750mila agenti di polizia americani in servizio racconta il mondo visto dall’altra parte del muro: «Quando uno di noi in servizio uccide un uomo di colore, andiamo in prima pagina. Quando un uomo di colore uccide uno di noi, facciamo il funerale con le cornamuse, la vedova in nero, gli orfani con l’abito della festa e la bandiera e non gliene frega niente a nessuno».

Conosco questo cop, questo piedipiatti come si dice nello slang americano, da anni. I suoi figli giocano a basket e baseball con i miei nipoti nei sobborghi ovest di New York. La moglie cucina lasagne e melanzane alla parmesan come vuole la loro origine italiana e la sua storia potrebbe essere ripetuta da uomini e donne, bianchi, neri, bruni, asiatici, irlandesi, italiani, latinos che lavorano con il “badge” di metallo in tasca e la pistola d’ordinanza alla cintola o nella fondina sotto l’ascella se in borghese, in tutte le 18mila organizzazioni di pubblica sicurezza Coast to Coast. «L’uniforme non ci può dare la licenza di uccidere. Ma da la licenza di essere uccisi».

Nella tavolozza di colori e umori acri che il pennello della “Guerra in Bianco e Nero” sta dipingendo sulla tela americana, appare l’immagine dell’insanabile ambiguità che nelle democrazie sempre circonda il lavoro della polizia. La visione del “Cruiser”, del barcone dipinto in bianco e blu o bianco e nero secondo le scelte delle contee, degli sceriffi, delle polizie metropolitane, che scivola silenzioso nella strade di notte o che arriva, ululando con “l’albero di natale”, le luci rotanti accese, nella propria strada, scatena sentimenti opposti: il sollievo di chi si sente minacciato da quella sagoma scura che si aggira attorno alla casa, il terrore di quella sagoma scura che sa di potere essere fatto secco senza avere fatto altro che essere una sagoma scura.

La percezione del ruolo della polizia cambia secondo il luogo dove ti trovi e secondo il colore della pelle. Lo stesso “Cruiser”, la stessa autopattuglia che “protegge e serve” nelle strade di Beverly Hills a Los Angeles, di Georgetown a Washington, di Times Square a Manhattan, è accolto come un’astronave di predator alieni nelle mean street, nelle strade malvagie di East Los Angeles, di Detroit, del Bronx, dei Projects, i casermoni popolari di Chicago. Nessun regolamento, nessuna sensibilizzazione, nessuna predica di capi o presidenti può cambiare la semplice, letale realtà che una poliziotta, lei stessa di pelle nera, raccontò all’Atlantic: «La reazione ti uccide, l’azione ti salva». Tradotto: se aspetti che quel sospetto cerchi di strapparti l’arma della fondina o estragga una delle 330 milioni di pistole che circolano è troppo tardi.

Quella violenza che ormai nugoli di smartphone riprendono e che le minicam installate sulle autopattuglia o indossate dagli agenti riprendono e la prova visiva di forze di polizia che sembrano più dedite ad abbattere che a proteggere. Mentre per loro le conseguenze legali degli omicidi in servizio, oscenamente evidenti, restano marginali. Soltanto tre casi su 100 di poliziotti accusati di avere ammazzato un sospetto, di avere usato excessive force, finiscono davanti a un giudice, incriminati. Per gli altri, l’impunità, la complicità, la comprensione di una magistratura che di quegli stessi cop ha bisogno per fare il lavoro d’indagine, è garantita.

Ma ciò che a noi, cittadini, sembra una guerra contro un solo nemico, “l’uomo nero”, il predator come fu definito da Bill Clinton negli Anni ‘90 stanziando miliardi per reclutare 180mila nuovi agenti in tutti gli Stati Uniti, alla “sottile linea blu”, ai poliziotti, sembra l’iniquità strumentale di una “sinistra” che non ha mai superato l’equazione fra cop e pig, questurino e maiale, scolpita negli Anni ‘60, non solo negli Usa, dalla retorica ideologica. Eppure le statistiche compilate dallo Fbi raccontano di una guerra con molte più sfumature di grigio. Nel 2015 più bianchi che neri sono stati uccisi dagli agenti: il 50% delle vittime erano bianchi, il 26% di colore. E la maggioranza degli uccisi portava un’arma. Non è neppure vero che siano poliziotti bianchi a sparare più disinvoltamente: gli agenti di colore, secondo una ricerca del Ministero della Giustizia del 2015, fanno fuoco 3 volte più facilmente dei colleghi bianchi. Gli agenti uccidono e sono uccisi: più di 100 all’anno cadono, 56 già nei primi sei mesi di questo 2016.

«Nelle Accademie di Polizia dove anch’io insegno — mi racconta il detective che spera di diventare tenente l’anno prossimo e andare in pensione a 45 anni con 20 di anzianità perché «non ne può più» — addestriamo le reclute a sparare sempre al bersaglio grosso, al torace, perché mirare alla gambe espone soltanto al rischio di essere sparati senza colpire niente». Ma in queste Accademie, dove decenni di sforzi non sempre vigorosi dovrebbero produrre più agenti di colore, il reclutamento è difficile. La paga buona, superiore alla media.

Fra straordinari e anzianità, un agente di 35 anni porta a casa 70-80mila dollari lordi annui, più di un operaio o vigile del fuoco e la pensione è pari allo stipendio. Ma migliaia di giovani afroamericani che vorrebbero arruolarsi sono respinti perché nel loro curriculum spuntano macchie, arresti per possesso di marijuana, reati minori da ragazzi, ma sufficienti per squalificarli. E la percentuale di cop con la pelle scura è inchiodata al 12 per cento della Forza. Simile alla percentuale della popolazione afroamericana, ma sproporzionata rispetto ai reati, che sono concentrati nella fascia di popolazione di colore — fino al 46% dei crimini — dove la presenza costante di “fratelli” con lo stesso volto sarebbe indispensabile. La Forza non è con loro.

La percezione è tutto. Il rapporto fra cittadini e poliziotti supera le statistiche, i casi clamorosi e imperdonabili, come gli ultimi che hanno spezzato i nervi scossi di Micah, reduce dall’Afghanistan, è soggettivo, ma si traduce nei fatti oggettivi. «Se la polizia è vista come nemica, la tratterai come nemica e lei ti rispenderà come una forza d’occupazione in territorio ostile», spiega lo studio condotto dalla Fondazione Marshall. E se la polizia si sente sola, abbandonata in pasto alla voracità sensazionalista dei media e alla collera delle vittime, il risultato è quello che vediamo: l’inasprimento di uomini e donne armati che si sentono soli e assediati.

Percezione, fatti, sangue, odio e diserzione politica, nel cocktail micidiale al quale imbonitori elettorali si abbeverano per strappare voti spaventati. «Ci sentiamo soli nelle strade», dice il mio detective mentre guardiamo i nostri bambini contendersi un rimbalzo. «Abbiamo più paura noi di quelli che dovremmo spaventare. Un capitano nella mia stazione ci dice, scherzando solo un po’, di non immobilizzare e ammanettare più sospetti, ma di dare a loro le manette perché si leghino i polsi da soli».

Un pubblico illuso dal facile mantra della “certezza della pena” e della “tolleranza zero” ha scaricato sui giudici, sui penitenziari e sui 750mila agenti compiti di assistenza, di salute mentale, di prevenzione e interpretazione psichiatrica che a loro non spetterebbero. Ignorando che la polizia è per una società quello che i pneumatici sono per le automobili, il punto di contatto fra il veicolo e l’asfalto della realtà, le chiede di essere tutto, pilota e strada. «Sono entrato nella polizia del New Jersey vent’anni or sono per ripulire la mia contea dai bad guys, dai delinquenti, come vedevo fare nei telefilm e scopro di essere diventato io il cattivo dello show. Ora conto solo i giorni che mi dividono dalla pensione». La partita di basket fra i bambini è finita e mi saluta con un regalo per rabbonirmi: un tesserino del “Fraterno Ordine” degli amici della polizia che mi eviterà una futura contravvenzione per eccesso di velocità. Un piccolo privilegio, accanto a uno molto più grande: nessun cop mi sparerà mai. Sono bianco.

 

VITTORIO ZUCCONI

la Repubblica, 11 luglio 2016, pag. 6

Vulnerabilità e umanità degli operatori della polizia locale: emergenza del fenomeno e ipotesi di intervento

Nell’ultimo decennio, sono notevolmente aumentate le evidenze empiriche relative ai rischi per la salute nei luoghi di lavoro, che segnalano tra l’altro come in numerosi ambienti lavorativi le persone possano addirittura morirne. L’attenzione dei ricercatori e dei professionisti della salute al lavoro, in questo momento è rivolta soprattutto ai rischi  psico-sociali che risultano essere direttamente correlati al modo in cui ciascun lavoro è organizzato e gestito; oltre, naturalmente, alle caratteristiche sociali e ambientali nelle quali si svolge l’attività. Questi rischi hanno assunto una rilevanza crescente perché hanno un forte impatto  sulla  salute  e  il  benessere  dei  lavoratori  e si trovano direttamente in relazione con il fenomeno dello stress lavoro-correlato. Ciò è stato messo in risalto anche dall’ultima indagine Europea sulle condizioni di lavoro, facendo notare che il  35% dei lavoratori dell’Unione Europea è convinto che la qualità del lavoro influisca sulla loro salute. Nell’indagine è emerso anche che tra i sintomi  di  maggiore  rilievo primeggia lo  stress correlato al lavoro, insieme al mal di schiena, ai dolori muscolari e alla fatica, i quali – si noti bene – possono trovarsi direttamente o indirettamente in rapporto con lo stress da lavoro.

E’ ormai noto che la crescente importanza  dei  rischi  psicosociali  sia  determinata  dai  rapidi  cambiamenti e dalle profonde modifiche che il mondo del lavoro ha subito negli ultimi decenni  e ciò è convinzione ormai condivisa in tutti gli ambienti scientifici internazionali.

Il mondo del lavoro è cambiato profondamente ed è cambiato per tutti, anche per gli operatori della polizia locale. In questo scenario, il loro lavoro è diventato una minaccia per la salute. L’affermazione, che a tutta prima sembra eccessiva, è supportata dagli studi e dalle ricerche empiriche su scala mondiale.

La fatica professionale degli operatori della polizia locale, è connotata in particolar modo dallo stress connesso all’esercizio della professione e dalla sindrome di “esaurimento professionale” o burn out che ne può derivare. Si tratta di un evento multidimensionale, la cui eziopatogenesi è da attribuire all’articolazione di fattori individuali, relazionali, lavorativi, organizzativi e persino storico culturali, i quali contribuiscono a determinare uno stato di malessere che può sfociare in una patologia conclamata. Nessuno di questi fattori autonomamente può condurre al burn out, ma la loro contemporanea presenza sembra determinarlo.

Tale fenomeno, pur non essendo specifico dell’attività professionale in argomento, assume una rilevanza in quanto un numero considerevole degli interessati soffrono della sindrome di esaurimento professionale o dichiarano avere problemi di salute di natura psichica. Trova una sua contestualizzazione all’interno dei complessi equilibri tra le molteplici sollecitazioni specifiche dell’attività di polizia, in cui la combinazione e l’articolazione di esse e la natura degli equilibri o compromessi che ne derivano, comporta diversi aspetti di sofferenza, che vanno dal semplice stress al burn out, sino a forme di comportamento estremo come l’autosoppressione. A fronte di questa drammatica situazione, spesso ci si trova in assenza sia di piani di sostegno degli operatori in difficoltà e sia di programmi di prevenzione.

Il fenomeno dell’esaurimento professionale degli operatori della polizia locale, più noto come burn out, ha conseguenze sulla qualità del servizio e sull’accessibilità al servizio da parte della cittadinanza. Non si tratta di un problema individuale a carico del singolo lavoratore bensì una questione di pubblico interesse, in quanto migliorare la qualità di vita degli agenti aumenta l’efficienza degli stessi, l’efficacia del servizio offerto e si ripercuote favorevolmente sulla fiducia e la sicurezza della comunità.  Ed esiste ormai – a livello internazionale – un accordo generale sulla necessità di far fronte al problema con scelte opportune ed iniziative qualificate scientificamente.

Cosa vogliamo dai carabinieri

Indipendenza dalla politica. Trasparenza. Equilibrio nella gestione delle risorse. Il compito dell’Arma non è facile. A noi cittadini spetta il dovere di vigilare.

Da questa riflessione di Roberto Saviano, pubblicata sull’Espresso del 6 febbraio scorso, si possono trarre ulteriori stimoli per altre considerazioni a margine. Una tra le tante: la cittadinanza “attiva” da parte nostra ed anche delle varie forze di polizia.

 

 

In Italia, le nomine dei vertici delle forze dell’ordine hanno in genere una scarsissima eco nell’opinione pubblica, ma un peso enorme per gli addetti ai lavori. Capire cosa accade, invece, è fondamentale per comprendere il percorso che le istituzioni stanno tracciando.

Conoscere storia e curriculum di chi occuperà posti di rilievo, di chi interloquirà per diversi anni con politica, stampa e magistratura, di chi contribuirà a segnare il corso che l’Italia imboccherà è necessario. Sono convinto che gran parte delle scelte di un governo sia leggibile attraverso la selezione dei dirigenti militari; le nomine dei vertici indicano direzioni, visioni e non semplicemente scelte tecniche.

Il nuovo comandante generale dell’Arma dei Carabinieri Tullio Del Sette ha un profilo interessante, che vale la pena valutare, per capire quale potrebbe essere la direzione che l’Arma intraprenderà sotto il suo mandato. Su di lui si concentrano molte speranze di cambiamento e miglioramento. Ha retto Comandi in tutte le organizzazioni dell’Arma ed è stato Capo Gabinetto al ministero della Difesa. Conosce il settore giuridico e questo potrebbe renderlo un innovatore, potrebbe avere un ruolo riformista all’interno dell’Arma.

Sono quasi dieci anni che vivo sotto scorta, conosco i Carabinieri, spesso trascorro in auto blindate e nelle caserme talmente tanto tempo da sentirmi uno di loro, da sapere di cosa ha bisogno l’Arma per poter ancora una volta giocare un ruolo fondamentale in un Paese che sta vivendo un momento difficilissimo. La necessità prima è equilibrare le risorse, non cedere ai timori di attentati terroristici e continuare a valutare ogni situazione per l’importanza e l’urgenza che ha.

In Italia è fondamentale dare risorse all’antimafia, alle investigazioni, alla presenza sul territorio, alla prevenzione e mi auguro che il Comandante Del Sette saprà gestire questo momento di emergenza. Così come c’è bisogno di una voce autorevole che dia il punto di vista dei Carabinieri sull’immigrazione. Non può essere tutto sempre e solo affidato ai presidi sulterritorio, ma il Paese deve avere consapevolezza, deve essere messo a conoscenza di quali sono le strategie.

Ecco perché la comunicazione è fondamentale. Una comunicazione che non sia strizzare l’occhio alla stampa, passare informazioni, ma che sia rigorosa, che serva a parlare al cittadino più che a creare rapporti personali.

La stampa è diventata spesso un ispettore aggiunto all’inchiesta, e questo spesso svilisce l’autorevolezza delle indagini, ecco perché è fondamentale comunicare, ma bisogna trovare il modo per farlo nella maniera più corretta possibile. È fondamentale poi arginare la quantità di sprechi e privilegi: limitare al massimo l’interlocuzione, quella nociva, con la politica, fatta di assunzioni e favori, che indebolisce politici e forze dell’ordine.

Il Generale Del Sette dovrà mantenere un profilo di totale indipendenza rispetto alla politica. Dovrà essere controllore e poi garante di fronte ai cittadini. Dovrà tenersi autonomo da un governo che tende a mal sopportare qualunque voce critica. Il profilo è quello giusto per non trovarsi impelagato in queste sabbie mobili.

Occorre poi ciò che in Italia manca, ovvero una trasparenza assoluta per quanto riguarda leindagini sui Carabinieri come nel caso di Stefano Cucchi, in quello più recente che riguarda Riccardo Magherini. Il compito di Del Sette sarà difficilissimo e la sua nomina, se la si guarda da questa prospettiva, ha più peso della nomina di un ministro. Il suo, oserei dire, dovrebbe essere quasi un atto di creatività geniale per riuscire a far bene investigazione, tutela e presidio. Perché se c’è una cosa che all’Arma dei Carabinieri variconosciuta è di essere sempre presente sul territorio e non solo insituazioni di emergenza.

Anche nei luoghi più remoti la figura del Maresciallo, diventata ormai un topos, incarna proprio questo: la capacità di esserci e di presidiare, la capacità di dialogare e conoscere, la volontà di cercare e creare vicinanza. Il Generale Tullio Del Sette viene da questa tradizione di presidi, ecco perché da lui il Paese deve aspettarsi una gestione rigorosa e dialettica. Volevo fortemente che queste considerazioni non rimanessero solo nell’ambito ristretto dell’Arma, volevo provare a condividerle. Perché fondamentale è sapere chi guida le forze dell’ordine se la nostra prospettiva è sempre più quella di una cittadinanza attiva. Partecipare alle decisioni e non subirle, significa svolgere il nostro dovere di cittadini: controllare, presidiare, non abbassare mai la guardia. Anche quando una nomina non dipende direttamente da noi, abituiamoci a vigilare. Solo così la democrazia funzionerà.