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La linea d’ombra nella continuità dell’azienda familiare

Lasciare il timone è un’impresa eroica; il senior che lo cede compie un grande sacrificio. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquisire credito e ispirare fiducia, hanno sostenuto nel tempo gli investimenti d’energie e di capitali; allo stesso tempo hanno reso la sua vita un viaggio interessante ed avventuroso. In futuro sarà tutto diverso per lui.

Chi sarà chiamato a succedergli, ancora prima di assicurare continuità all’azienda e dare inizio ad un nuovo ciclo d’espansione, dovrà attraversare la sua linea d’ombra. Si troverà da una parte a sentirsi in obbligo di garantire la continuità aziendale – perché non è certo utile ad alcuno che l’azienda perda valore – dovendo allo stesso tempo assumersene le responsabilità.

Dall’altra parte proverà sentimenti ed emozioni contrastanti come ha descritto efficacemente in una bella canzone il cantante Jovanotti (cfr. La linea d’ombra, nell’album “l’albero”).

Egli da voce ad un giovane a cui è affidato un incarico di responsabilità e per la prima volta nella vita si trova a considerare quello che lascia e a non sapere immaginare ciò che troverà.
Incaricato di portare una “nave” verso una rotta che nessuno conosce in dettaglio e in un momento di stabilità precaria, egli considera quanto è più facile stare in mare se sono gli altri a far la direzione.

Gli è stato detto “che una nave ha bisogno di un comandante, che la paga è interessante e che il carico è importante”. Il pensiero della responsabilità però è enorme.

Quella del giovane protagonista – narra la canzone – è un’età in cui si sa come si stava e non si sa dove si sta andando e che cosa si sarà. Nella quale la dimensione delle responsabilità che si hanno nei confronti degli esseri umani che ti vivono accanto non è ancora ben chiara. Un’età dove ogni mossa “può cambiare la partita intera e si ha paura di essere mangiato”.

In cui non si sa ancora cos’è il coraggio, “se prendere o mollare tutto, se scegliere la fuga o affrontare questa realtà difficile da interpretare ma bella da esplorare”.

Tuttavia, pur non potendo ancora immaginare cosa avverrà, una volta “attraversato il mare e portato questo carico importante a destinazione”, quel timoniere accetterà un compito così sfidante e dirà che è pronto a partire. Studierà le carte e quando sarà il momento dirà “levate l’ancora diritta, avanti tutta: questa è la rotta, questa è la direzione, questa è la decisione”.

Tornando al passaggio del timone aziendale, dobbiamo riconoscere che in realtà è del tutto assente, nell’agire di molte aziende familiari, la definizione di obiettivi e modalità per raggiungerli e verificarli. Appare spesso inconcepibile, per l’imprenditore che vuole cedere il comando, riflettere sulla opportunità di pianificare una successione sulla base di una ponderata valutazione della strategia aziendale, delle deleghe da assegnare, delle competenze necessarie per raggiungere quegli obiettivi.

In un modo del tutto implicito, un senior si aspetta che anche i successori, da lui immaginati identici per competenze e conoscenze, riusciranno nell’impresa così come lui è riuscito a raggiungere il successo, superando le prove e gli ostacoli insiti nel proprio percorso imprenditoriale.

Quest’implicita riflessione o, meglio, attribuzione di senso e significato, porta il senior ad organizzare per il successore o i successori delle prove di ingresso che riecheggiano quelle alle quali egli è stato sottoposto in giovane età e che ritiene “naturale” far passare anche ai successori. Nell’inconscio tentativo di guidare il destino del figlio/figli, quasi fosse il prolungamento di quello proprio e in una dinamica emotiva, già nota alla psicologia sociale dalla seconda metà del secolo scorso, che Heider (1958) aveva definito con il termine Fundamental Attribution Error.

Ciò rappresenta un elemento di criticità, in quanto pone un insieme di problemi nei rapporti interpersonali e scarsa chiarezza di ruoli. Generando spesso, nella fase del passaggio generazionale e anche successivamente, conflitti a partire dalla omogeneità/eterogeneità degli schemi cognitivi (i cosiddetti assunti di base) delle persone in gioco e delle loro rappresentazioni della realtà e delle evoluzioni future.

Pertanto, non si tratta più semplicemente di un “ricambio” o “passaggio” generazionale quanto di una “integrazione” di generazioni; o, meglio, di una mediazione di punti di vista legittimamente differenti), volta a definire un piano di Sviluppo Generativo Competitivo, capace di creare nuove opportunità e nuove ricchezze per l’azienda e la famiglia.

La strenna più bella: sentirsi riconosciuti al lavoro!


Le attuali modalità organizzative e di management in diverse occasioni moltiplicano le fratture all’interno delle comunità e dei percorsi di carriera, rendono fragili i contesti di appartenenza e di riconoscimento del lavoro, aumentando le criticità nei processi di socializzazione organizzativa e di costruzione delle identità professionali.

Occorre avere chiari questi nodi critici, se vogliamo comprendere gli atteggiamenti e i comportamenti di chi lavora insieme a noi, per realizzare una gestione consapevole e ponderata delle persone che vi lavorano.
Chi dirige un’azienda o è responsabile di un suo settore, deve tenere ben presente che l’incremento della produttività e la qualità dei servizi, si trova sempre più in relazione con il morale dei collaboratori e il benessere (nei termini di “qualità delle relazioni collaborative”) nei luoghi di lavoro.
Impegnarsi nella qualificazione complessiva della vita al lavoro, migliorare il clima organizzativo, significa in sostanza contribuire ad agevolare le transazioni relazionali di chi vi lavora, mettere a punto i relativi meccanismi di regolazione per garantire il successo dell’azienda e dei suoi prodotti/servizi. Non dimenticando che il benessere delle persone influisce sulle performance aziendali.

Ci rendiamo conto che il ruolo centrale della soggettività e dell’intersoggettività nelle relazioni di lavoro, dentro e fuori il perimetro aziendale, diventa sempre più evidente e importante.
È necessario affrontare con molto realismo il problema del riconoscimento al/del lavoro; al di là del semplice iter giuridico ed economico, senza temere etichette di idealismo o ingenuità.
Oltretutto il riconoscimento al lavoro sta richiamando sempre più l’attenzione, in quanto comporta un elemento di criticità che è legato anche ai problemi di salute mentale al lavoro. Abbiamo bene in mente che i vari fattori di rischio non positivi per la salute dei lavoratori e, di conseguenza, per quella delle aziende, comprendono tra gli altri anche il sovraccarico di lavoro, il deterioramento delle relazioni tra colleghi, la scarsità delle relazioni con i superiori diretti, la inadeguata circolazione delle informazioni relative alla governance e l’eccessiva limitatezza di comportamenti o pratiche di riconoscimento verso il lavoro svolto dai dipendenti.

Chi lavora spera in qualcosa di più di un salario, si aspetta che il suo lavoro sia riconosciuto; ad esempio, vedendo mettere in risalto i buoni risultati, sentendosi offrire incoraggiamento o segni d’apprezzamento. Una riconoscenza che può manifestarsi anche attraverso la creazione di uno spazio di discussione, che permette alle persone di esprimere il loro punto di vista sul lavoro e rinsalda i legami.
È possibile mettere in evidenza almeno due elementi di base del riconoscimento. Uno è il giudizio d’utilità del lavoro realizzato (riconoscere il rispetto delle gerarchie, il raggiungimento degli obiettivi, gli ostacoli superati, ecc.); l’altro è il giudizio estetico del lavoro (riconoscere la qualità delle azioni, la pertinenza delle decisioni, l’ingegnosità delle soluzioni, ecc.). Cercando di comprendere anche quali rischi incontra colui o colei che non si stente stimato/a e riconosciuto/a nel suo lavoro, tanto dai suoi superiori che dai suoi colleghi; ma anche quali inciampi possano emergere per le organizzazioni. Parecchi studi dimostrano che la mancanza di riconoscimento al lavoro è strettamente connessa con lo scarso coinvolgimento professionale, la demotivazione e l’assenteismo

Il lavoro rimane il luogo fondamentale della nostra vita e della ricerca d’identità e realizzazione personale; la qualità della nostra vita è direttamente proporzionale alla qualità del nostro lavoro. Un adeguato investimento di risorse morali e materiali per migliorare la qualità della nostra vita al lavoro è necessario.
Sfortunatamente, molto spesso, il lavoro è in genere percepito nella sua dimensione utilitaristica; ciò facendo non si rende giustizia agli sforzi di chi lavora e al contributo che egli offre. Trascurando che il riconoscimento al lavoro permette di realizzare le proprie attese, la immagine identitaria; che costituisce un elemento fondamentale di salute mentale.

L’assenza di riconoscimento genera spesso la perdita di riferimenti professionali e personali importanti. Con conseguenti aspri sentimenti quali l’amarezza, la frustrazione, l’inutilità e l’indegnità, che contribuiscono a mortificare la qualità dei rapporti tra il dipendente e l’azienda. Innesca anche una serie di comportamenti, costanti e tenaci, che invischiano a loro volta i dipendenti in un subdolo processo di vittimizzazione. È proprio l’importanza dello sguardo che l’azienda rivolge al proprio dipendente che da un senso a questo fenomeno; non importa tanto la natura dello sguardo, quanto lo sguardo stesso. Molto spesso chi si sente vittima, ad esempio di mobbing, o molestie morali, sente drammaticamente la mancanza di uno sguardo rassicurante. Che lo/la rassicuri soprattutto dell’importanza che l’altra parte gli riconosce in seno all’azienda.

Il riconoscimento e la riconoscenza al lavoro rappresentano la dimostrazione chiara che quanto noi realizziamo, gli sforzi investiti nel nostro lavoro e la stessa persona, sono apprezzati nel loro giusto valore. Il salario non è tutto. Occorre ugualmente sentirsi apprezzati per rinfrescare la nostra motivazione, sviluppare il proprio sentimento d’appartenenza e la voglia di sentirsi coinvolti nell’impresa.

Vogliamo le soluzioni ma evitiamo i problemi. Un punto di vista sul coaching

C’è un’opinione diffusa e molta propensione a pensare che il moloch intelligenza artificiale divorerà l’intelligenza umana. Una prospettiva che preoccupa tanto e allo stesso modo affascina.
Gli studi che riguardano l’impatto della intelligenza artificiale sul mondo del lavoro iniziano a diffondersi e talvolta alimentano la preoccupazione appena accennata. Alcuni mettono in evidenza la complementarietà dei tre tipi di intelligenze che sarà necessario saper combinare nel prossimo futuro: l’intelligenza emotiva, l’intelligenza artificiale e l’intelligenza collettiva. All’interno di questa prospettiva si sta aprendo un notevole spazio evolutivo per le attività di consulenza organizzativa. In particolare, per il counseling e il coaching.

Le aziende sono fatte principalmente di persone, non di procedure, e spesso non basta un “programma” (o, meglio, una “ricetta”) per risolvere le criticità. Di conseguenza, se l’intelligenza di un manager non riuscirà a competere con le vertiginose capacità di memorizzazione, calcolo e diagnosi di una intelligenza artificiale, avrà tuttavia da svolgere un ruolo importante attraverso la sua “intelligenza del cuore”. Perché saranno necessarie le abilità socio emotive che il leader dovrà sviluppare nella sua organizzazione per completare il lavoro delle tecnologie intelligenti.
Ad esempio, le competenze relazionali sono ormai diventate essenziali perché son inaccessibili (per ora) all’IA. Di conseguenza, là dove sarà necessario dar prova di intuizione, creatività, immaginazione, pensiero concettuale e buon senso, l’Umano dovrà svolgere il suo pieno ruolo a fianco delle macchine.
La sfida del leader del prossimo futuro sarà triplice. Dovrà governare i cambiamenti organizzativi e culturali generati dall’IA, organizzare la collaborazione uomo-macchina e accelerare lo sviluppo di nuove abilità emotive e cognitive per aggiungere valore alle attività automatizzate. Per questo, dovrà sapere come tenere insieme le tre forme di intelligenza.
Da parte mia, nel corso di oltre tre decenni di consulenza manageriale da un lato e psicologia clinica e del lavoro dall’altro (come counselor, ricercatore, terapeuta, didatta) ho svolto attività di coaching accompagnando manager e team di ogni genere e ho svolto varie attività di supporto per la riconfigurazione e lo sviluppo dell’intelligenza collettiva in diverse situazioni. Negli anni ho avuto modo di seguire le trasformazioni dell’attività del manager, che da una pedissequa applicazione dei principi di Henry Fayol, vale a dire la pianificazione degli obiettivi, l’organizzazione dei compiti e delle responsabilità, la gestione delle persone e il controllo delle attività, ha via via compreso la necessità di acquisire competenze “non tecniche” opportune per migliorare la loro missione. Vestendo in questo modo – dopo un’adeguata formazione – i panni del manager-coach.

Una forma di elicitazione legata al “saper fare” e al “saper essere”
Di fonte al susseguirsi di domande nuove e complesse che le organizzazioni aziendali si trovano ad affrontare, il coaching diventa non soltanto un nuovo stile di management ma soprattutto una necessità per gestire in modo efficace le risorse umane e raggiungere una coerenza interna con le politiche gestionali e con gli obiettivi e le strategie dell’azienda. Esso è una forma di accompagnamento che ha come obiettivo lo sviluppo delle attitudini, il miglioramento della performance, l’adattamento a situazioni nuove e costituisce un valido supporto per la presa di decisioni quando le condizioni sono difficili o complicate. È una forma di elicitazione legata al “saper fare” e al “saper essere” riguardanti il modo di governare la propria attività, di organizzarla, di attivare la sfera relazionale e la comunicazione; mira allo sviluppo dell’identità professionale, dell’autonomia e della responsabilità, non alla riproduzione di modelli. Apporta una nuova chiarezza (introduce ulteriori punti di vista) sulle situazioni reali, ricercando evoluzioni significative in materia di comportamenti e di performance. È un volano di facilitazione dell’adattamento (attivo, non passivo) ai cambiamenti intensi sia in ambito organizzativo che sociale.

Il coaching come attività specializzata di consulenza
Per quanto riguarda la formazione appena accennata in precedenza, quella che un tempo era definita “executive coaching” e che attualmente è nota come “coaching manageriale”, è un approccio di coaching professionale incentrato sullo sviluppo di competenze relative a una posizione attuale o futura. Si basa su un processo in cui la fase di preparazione è importante quanto la fase di sviluppo stessa ed esistono diversi modelli di intervento che possono guidare la pratica del coaching. L’importante per il coach è determinare e spiegare il modello o i modelli che guidano il suo intervento, tenendo presente che il coaching manageriale può essere utilizzato in molti contesti in cui obiettivi e target differiscono.
Tra le varie definizioni di coaching manageriale, voglio considerare quella di Douglas e Morley (2000) del Center for Creative Leadership, poiché mi sembra la più operativa e completa. “Il coaching manageriale è un processo finalizzato a fornire agli individui gli strumenti, le conoscenze e le opportunità di cui hanno bisogno per crescere e diventare più efficaci […]. Implica l’insegnamento di abilità in un contesto di relazione personalizzata con il cliente, fornendogli feedback sulle sue capacità e relazioni interpersonali […]. Una serie di attività su misura finalizzate alle problematiche attuali o rilevanti incontrate dall’individuo che sono prese in considerazione insieme al coach, al fine di aiutare il primo a mantenere un’attenzione costante e rivolta all’integrazione delle sue forze e la gestione dei suoi punti deboli […].”
In realtà il processo del coaching è molto più complesso, in quanto si configura come un’attività specializzata di consulenza tipicamente individuale e squisitamente di carattere psicologico. Esso si differenzia nettamente da ogni forma ed indirizzo di psicoterapia e, d’altro canto, non appare affatto corretto identificarlo semplicisticamente come un’attività di formazione. Il coachee è il più delle volte una risorsa sulla quale l’organizzazione sta puntando nel contesto di un percorso di sviluppo o di riposizionamento mirato; in altre casi si tratta di soggetti che hanno necessità di un supporto esperto per direzionarsi o per utilizzare al meglio le proprie capacità. In ogni caso, il cliente del coaching è quasi sempre un soggetto che ha alle spalle una certa esperienza di lavoro e/o che ricopre ruoli di responsabilità.

Il problema del riconoscimento
A differenza degli psicologi, la cui acquisizione di competenze legate alla pratica della psicologia deve soddisfare gli standard specifici di un ordine professionale, la formazione dei coach non è ancora normata. Alcune associazioni offrono formazione in coaching manageriale che danno accesso a un accreditamento gestito da esse. Tuttavia, questi corsi di formazione rimangono opzionali, poiché l’esercizio del coaching non è limitato a coloro che sono stati accreditati. Pertanto, ad oggi, chiunque desideri dichiararsi un coach e offrire i propri servizi a un’organizzazione può farlo. In altre parole, significa che i profili di competenze dei coach possono essere molto variabili. Di conseguenza, le organizzazioni di riferimento dovrebbero attuare un rigoroso processo di selezione per i coach e, in attesa della professionalizzazione del coaching, spetterebbe alle organizzazioni di riferimento (in realtà alcune lo stanno facendo) creare il proprio quadro etico in cui il coaching manageriale potrà esprimere tutte le proprie potenzialità, conoscenze e valori. Ciò non è solo possibile ma necessario.

Le emozioni al lavoro: Onnipresenti e indicibili

Vittorio Tripeni, Psicologo del lavoro e delle organizzazioni

Manifestare emozioni al lavoro è da sempre ritenuto un segno di debolezza.

Anche ora. Gli interlocutori più benevoli, nel momento in cui qualcuno di noi lascia trapelare un minimo segnale dalla propria interiorità, direbbero che siamo troppo “sensibili”. Perché in azienda (un mondo “ideale” da attualizzare continuamente), occorre essere in grado di mostrare un comportamento razionale e obiettivo e allo stesso tempo tenere a freno le proprie emozioni.

Mi viene in mente, la situazione vissuta da un giovane collega, in un’azienda in cui aveva trascorso un anno come stagista nel dipartimento di ricerca e sviluppo. Ricorda che alla fine dell’anno, fu organizzato un brindisi di commiato e in tale occasione gli fu consegnato un dono che i colleghi stessi avevano acquistato attraverso una colletta. Sopra il pacchetto che conteneva quel dono, vi era stata posta una busta con il logo dell’azienda. Dopo i discorsi e i ringraziamenti di rito, prima dell’apertura del regalo, il mio collega aprì la busta contenente un assegno equivalente a tre mesi di stipendio e alcune parole di ringraziamento da parte del CEO. La gratificazione fu molto importante ed egli si commosse e pianse. Il commerciale dell’azienda proprio accanto a lui gli si avvicinò per sussurrargli all’orecchio: “Sei troppo sensibile, Mauro, troppo sensibile”. E, naturalmente, per Mauro il senso di colpa tentò subito di entrare in possesso della sua gratificazione.

 

Parlare di emozioni non è altro che mettere a fuoco l’esperienza individuale: il vissuto sul piano corporeo, affettivo e cognitivo. Vuol dire riconoscerci in ogni momento delle nostre relazioni, con noi stessi e con gli altri. Tuttavia, gli effetti della repressione delle emozioni possono trasformarsi in ulteriori tensioni di blocco emotivo che spesso sfociano in disturbi per la salute. Come nel caso di una signora che ho assistito. Paola, mi raccontò che non poteva fare a meno di scoppiare in lacrime quando si arrabbiava e faceva del tutto per evitare che questo accadesse in ufficio. Era molto brava a fingere che tutto andasse bene e reprimeva completamente i suoi sentimenti. Alla lunga, il suo stress aveva preso il sopravvento con la potenza di una serie di disturbi psicosomatici e Paola ha chiesto il mio aiuto da un punto di vista clinico e, successivamente, un sostegno in forma di coaching.

Dovremo imparare a chiederci qual è la portata sociale (ed economica) delle emozioni che d’abitudine consideriamo come un fatto intimo e privato ma che comunque rappresentano un fatto sociale, perché sono soggette a regole, possono essere apprese, sono un presupposto di conoscenze ed esperienze, nonché elemento che influisce sulle relazioni con le persone e in tutte le situazioni.

In che misura le emozioni possono ridefinire il senso della nostra identità e la identità professionale che definiamo nel tempo attraverso il rispecchiamento delle altre persone e, simmetricamente, l’essere del lavoro e delle organizzazioni?

Che cosa possono dirci della salute delle nostre relazioni in azienda?
E che cosa esse permettono di scoprire, osservare, ascoltare e comprendere, dal lato dell’analisi del lavoro reale?

 

Qual è il posto delle emozioni nei luoghi di lavoro? 

Non è possibile nasconderle o reprimerle perché, alla fine, le emozioni troveranno la via per farsi sentire. Accenno brevemente a un caso appena esaminato in consulenza. Alex e Giorgia sono soci di una Startup e lavorano nella stessa cercando ogni volta di accantonare le loro piccole irritazioni fino a quando – ahimè – diventano intollerabili. A quel punto manifestano tutto il loro disappunto nei confronti dei colleghi, oppure si rimbeccano a vicenda, talvolta esplodendo platealmente e creando molta confusione e uno sconcerto molto demotivante.
Non possono essere evitate … Tutt’al più – verrebbe da dire, con sarcasmo – possiamo fare a meno delle persone in azienda e sostituirle con i robot. Ma l’idea di rendere ogni attore dell’impresa un essere razionale al 100% non è realistico e tantomeno auspicabile. Ad esempio, senza emozioni non sapremo prendere decisioni. Le nostre reazioni emotive e persino i nostri sentimenti possono informarci sulle situazioni in cui ci troviamo e guidarci nelle scelte decisionali. Non saremmo nemmeno in grado di creare legami sociali, senza emozioni.

Propongo di accettare la sfida e accordare alle emozioni un posto importante tra gli asset aziendali. Sapendo che non sono un semplice fattore della produzione perché rappresentano un meta fattore, nel senso che la finanza, l’organizzazione o la tecnologia non esistono in sé, ma esistono le persone e le loro emozioni che fanno funzionare la finanza, la tecnologia, l’organizzazione.
Prendersi cura di esse e utilizzarle al meglio diventa ormai fondamentale anche per quelle organizzazioni del lavoro che credono solo ai numeri e alle tabelle dei dati. Le emozioni rappresentano una notevole fonte rinnovabile da investire nel corso delle continue trasformazioni delle strutture operative e del management.

 

Le emozioni fanno parte delle competenze professionali. 

In ambito professionale – e non solo – le emozioni influiscono tanto sul coinvolgimento (engagement) nel compito quanto sull’attività necessaria per svolgerlo. La loro regolazione è diventata una vera sfida, non solo per il management ma per tutte le attività che implicano competenze relazionali e tecniche-gestionali, la regolazione delle emozioni oggi è una competenza chiave, che riguarda la salute del professionista, la qualità delle sue prestazioni e, dulcis in fundo, la soddisfazione dei clienti.

Posso citare ad esempio un altro caso recentemente accolto durante un colloquio di consulenza in cui il cliente ha raccontato di essere stato nominato responsabile di una equipe di progetto perché aveva solide competenze tecniche e ha pensato che sarebbero state sufficienti per supervisionare il lavoro di squadra.
Sei mesi dopo ha dovuto implementare un cambio di organizzazione del lavoro all’interno del suo gruppo e ha dovuto affrontare gli umori, a volte distruttivi, dei suoi colleghi e la loro scarsa collaborazione, ma anche i tentativi di manipolazione e l’aggressività, a volte latente e altre volte chiaramente espressa.

La gestione delle emozioni è diventata una vera sfida per il management, in modo particolare per governare i cambiamenti, incoraggiare l’autonomia nelle equipe e nelle persone, agevolare le modalità di interfacciarsi all’interno dei team multiculturali o trasversali/interprofessionali. Di per sé l’emozione è il fulcro dell’adattamento e del coping che agevola le percezioni, le decisioni e le azioni per cogliere ogni opportunità che si presenta.

 

Che cosa insegnano le emozioni? 

Stiamo imparando che la gestione delle emozioni è fondamentale per lavorare bene, con soddisfazione e in sicurezza. Ma non solo nelle attività in cui “ci aspettiamo” che tutto ciò accada come ad esempio nelle attività di “servizio”. Saper gestire bene le emozioni è utile in tutte le professioni, soprattutto perché – ormai è chiaro – in ognuna è prevalente la funzione relazionale e gestionale per il raggiungimento degli scopi dell’impresa.

L’emozione è contagiosa e dato che non lavoriamo da soli, influisce sulle persone che ci circondano (anche a distanza) positivamente e negativamente. Inoltre, se lavoriamo da soli, anche le emozioni influiscono sul nostro lavoro condizionando spesso la qualità delle nostre performance.

Nei contesti di lavoro le emozioni influiscono sul coinvolgimento delle persone nelle attività che esse sono chiamate a svolgere e sull’investimento delle risorse (fisiche, psichiche e mentali) necessarie per portare a termine il compito.

Sostanzialmente, si tratta di reazioni delle quali, molto spesso, non si ha piena consapevolezza, che si manifestano attraverso esperienze soggettive (ciò che si “prova”), alterazioni fisiologiche e comportamenti espressivi, che possono incidere sulla abilità di governare gli imprevisti, le scelte e le decisioni, le iniziative nonché le relazioni (con noi stessi, con gli altri, con gli strumenti del nostro lavoro) e, di conseguenza, sulla nostra capacità di adattarci più o meno agevolmente alle necessità della vita o a determinate condizioni o situazioni che più o meno perentoriamente ci impongono un cambiamento.

Potremmo dire che esse rappresentano il “cuore” dell’attività umana. Nelle attività di lavoro le emozioni governano l’implicazione nel compito da svolgere e allo stesso imprimono efficacia all’esplicazione di capacità/competenze necessarie per portarlo a compimento. Danno gusto all’azione.

 

Perché svolgono un ruolo importante. 

Ogni emozione è in grado di rendere consapevoli le persone di come stanno affrontando la situazione in cui si trovano in quel determinato momento. Aiutano ad aiutarci. Mettendoci in contatto con le nostre personali rappresentazioni dei fatti e forniscono informazioni che consentono di analizzare i diversi problemi.

Oggi, mi dice il CEO di una grande azienda che ho l’onore di frequentare, le aziende impongono codici di comportamento, piani di welfare, documenti di dettaglio sullo smart working, imperativi sulla felicità … per garantire che la linea gerarchica funzioni in modo efficace, che sia anche rispettosa nei confronti dei dipendenti e della loro dignità e soprattutto fornire un’immagine “smart” del brand…  Ma non è possibile guidare o dare un senso ai comportamenti dei nostri dipendenti senza parlare di emozioni. Delle “loro” ma anche delle “nostre”, che consideriamo marginali o che rimuoviamo dalla nostra consapevolezza. Certo, non possiamo chiedere a un manager di essere uno “strizzacervelli”, ma imparare a conoscersi e conoscere meglio come “funziona” una persona al lavoro e quali sono le energie che alimentano il suo funzionamento, questo è fondamentale per gli interessi dell’azienda. Anche all’epoca dei robot e dell’intelligenza artificiale.

Nuove forme di lavoro e nuove esigenze cognitive

Qual è l’impatto delle tecnologie digitali dell’informazione e della comunicazione sulla qualità della vita e del lavoro? Il loro uso è ormai inevitabile. Proprio per questo è necessario conoscere gli eventuali effetti dirompenti nei confronti del benessere e della qualità della vita al lavoro.

Ognuno può rendersi conto in ogni momento, qualunque cosa stia facendo, che l’uso delle ICT ha determinato una notevole riconfigurazione delle pratiche quotidiane e una definizione del quadro di riferimento delle attività e delle competenze nel lavoro. Queste trasformazioni sono accompagnate da nuove sollecitazioni, ad esempio la necessità di elaborare in pochissimo tempo le informazioni ricevute o l’urgenza di organizzare la valanga di dati che ogni giorno richiamano la nostra attenzione. Portano con sé anche delle opportunità tra le quali la possibilità di gestire meglio il proprio orario di lavoro. Ma soprattutto hanno dato vita a nuovi profili di attività professionali caratterizzate da forme inedite di organizzazione del lavoro e una notevole dominanza delle tecnologie digitali.

Accelerazione digitale
In questi ultimi anni l’accelerazione del ritmo dei cambiamenti è in costante crescita a causa delle continue innovazioni e conseguente messa a punto di soluzioni tecnologiche. Si tratta di processi di implementazione che innovano le modalità di azione e di apprendimento di chi usa le tecnologie e che, a volte, generano evidenti situazioni dirompenti nell’ambito del loro utilizzo. Soprattutto perché esse richiedono una ristrutturazione radicale dell’esperienza dell’utilizzatore, in quanto elicitano nuovi modi di fare, di pensare, di organizzare le attività e mantenere vive le collaborazioni. Ragion per cui è necessario inventare nuovi modelli organizzativi e socio-cognitivi per lavorare con gli strumenti digitali e, allo stesso tempo, tenere conto che l’uso delle tecnologie può avere effetti sulla salute e il benessere di chi le usa.

Gli studi scientifici e le ricerche empiriche hanno messo in evidenza l’emergere di collegamenti tra le condizioni di lavoro, in cui le ICT svolgono un ruolo importante, e la salute di chi lavora. Diventa pertanto importante tenerne conto, soprattutto per motivarci ad analizzare ancora più in profondità il ruolo delle ICT rispetto alla salute e alla qualità della vita e del lavoro.

Ad esempio, il tempo e le risorse liberate grazie all’uso delle ICT possono essere investite in occupazioni che producono maggiore valore aggiunto e sono più stimolanti. Tuttavia, mentre le tecnologie possono migliorare il lavoro e riqualificare la professionalità, esse tendono anche a snaturare il lato umano dell’attività e a sviare la persona che lavora da tutto ciò che ha senso per essa; per esempio: le pratiche e i contatti professionali, oppure i margini individuali di manovra e la relazione che ha con il “suo” lavoro. La mediatizzazione tecnologica dell’attività può dunque correre il rischio di svolgersi in danno della salute di chi lavora e della qualità della vita al lavoro perché ha un impatto sulla struttura psichica della persona.

Come si diceva, in questo costante processo di cambiamento alimentato dalle continue innovazioni tecnologiche, possiamo mettere in evidenza anche una certa varietà di destabilizzazioni. Si tratta di cambiamenti costanti che influenzano la struttura e il contenuto delle decisioni e delle comunicazioni e di conseguenza influenzano i tradizionali parametri di riferimento dello spazio e del tempo di lavoro. Mentre nello spazio (di lavoro), le ICT hanno completamente smaterializzato la relazione dei dipendenti con il proprio ufficio, l’azienda, la famiglia e la vita privata; tanto che i confini tra i diversi tipi di ambito sono divenuti permeabili, se non addirittura scomparsi. Nella prospettiva temporale, dato che l’orario di lavoro è sempre più scandito dal tempo (velocissimo) degli strumenti tecnologici e il ritmo batte la misura al nanosecondo, l’immediatezza diventa la modalità prevalente di organizzazione della vita professionale e sociale. In questo caso, il tempo umano è diventato tempo della processazione che rimpalla sull’aumento del carico di lavoro. Ciò che può essere brevemente definito come la relazione tra sollecitazioni e capacità che possono essere mobilitate dall’individuo. In questo caso, cresce in modo esponenziale il volume dei dati (in quantità e qualità) ragion per cui il lavoro subisce una compressione dovuta alla maggiore quantità di informazioni da gestire e, allo stesso tempo, l’attività si intensifica con l’accelerazione del ritmo di lavoro e delle sequenze di lavoro. Rapidità delle comunicazioni, immediatezza della risposta e reattività della persona diventano così alcune delle caratteristiche del compito smaterializzato. Il riflesso sostituisce la riflessione e la simultaneità delle attività diventa una condotta pregnante dell’attività mediatizzata. E’ quanto risulta, in modo ben evidenziato e documentato, proprio dagli studi specialistici. L’accumulo di compiti in corso, avviati, ma mai completamente completati, si sta dimostrando estenuante e, allo stesso tempo, angosciante. Il dipendente si disperde in compiti concorrenti e contemporanei che deve gestire secondo le sollecitazioni tecnologiche per progredire nonostante tutto nel lavoro.

Frammentazione e destabilizzazione
Si tratta di situazioni marcate da continui disapprendimenti e/o riapprendimenti, che sono cognitivamente estenuanti e professionalmente molto destabilizzanti, in grado addirittura di imporre le regole di condotta e di lavoro perché strettamente associate all’uso degli strumenti digitali. In questi casi, parliamo anche di stress associato alle paure, le ansie, le frustrazioni provocate dalla introduzione e dall’uso delle tecnologie sul lavoro.

Gli artefatti tecnologici guidano e scandiscono il lavoro, pongono frequenti sollecitazioni. Interrompono il lavoro, determinano le modalità di azione e gli impieghi del tempo (ad esempio, attraverso le agende condivise), orientano e costantemente reindirizzano azioni e compiti da realizzare (al esempio, attraverso la messaggistica sincrona e asincrona). Tutti casi in cui i dipendenti si sentono privati della loro capacità di agire e prendere decisioni sulla propria attività. Di fronte a queste interruzioni permanenti, il lavoro è frammentato e ridotto a micro-compiti che devono essere costantemente raccordati per ritrovarne il senso. Si ha allora la sensazione di perdere il controllo del proprio lavoro per subire ciò che impone il sistema. Alla fine, ci si trova davanti a un lavoro che richiede sempre più frequentemente di affrontare gli imprevisti e raccordare i compiti frammentati, vale a dire un lavoro sul lavoro. Che potremmo anche definire un “meta-lavoro”.

Sottoposto a tale frammentazione, l’individuo è dunque obbligato a ridefinire costantemente l’organizzazione e le priorità della sua attività per dare una parvenza di coerenza e raggiungere i suoi obiettivi professionali.

In questa attività spezzettata, ognuno deve sapere come gestire il passaggio tra i diversi frammenti di attività, e anche tra i diversi mondi professionali ad esso collegati e in cui si ritrova proiettato secondo le sollecitazioni della tecnologia digitale.

Propongo un quadro emerso da una ricerca pubblicata recentemente. Si tratta di una dirigente che si trova ad assumere, nello spazio di qualche decina di minuti, ruoli e responsabilità diverse. Cioè, svolgere il ruolo di responsabile della comunicazione, del project manager, collaborare a un altro progetto, essere cliente di un fornitore, collega … ecc. Ove ogni contesto professionale è stato avviato da una interruzione tecnologica (mail, smartphone, strumenti collaborativi, agenda condivisa, ecc.) e ha richiesto specifici riferimenti commerciali: conoscenza del vocabolario dedicato, implementazione di un particolare know-how, padronanza degli strumenti e metodi appropriati, conoscenza degli obiettivi di ciascun progetto e loro temporalità, posizionamento e ruolo sociale appropriato. Alla fine, la dirigente doveva essere in grado di adattarsi permanentemente a questa “poli contestualità professionale”. In questo caso diventano necessarie capacità cognitive specifiche (gestione della dispersione, contestualizzazione, anticipazione, articolazione delle differenze, organizzazione, ecc.) In modo che l’attività possa raggiungere un obiettivo che si trova oltre l’assemblaggio caotico di frammenti dispersi di lavoro. In assenza di tale impegno di articolazione, il rischio è che l’attività perde il suo significato, si svuota della sua sostanza e alla fine scoraggia l’individuo che è costretto a confrontarsi con una serie di attività frustrate e frustranti, incomplete o prevenute, in breve a un lavoro che gli sfugge e in cui non si riconosce.

Tutto ciò – possiamo comprenderlo – rappresenta una fonte di malessere per le persone e, di conseguenza, può avere un impatto non positivo sulla qualità della vita al lavoro.

 

* L’autore può fornire – a richiesta – ulteriori informazioni ed eventuale documentazione bibliografica, nonché pareri specialistici sullo specifico argomento