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Sostenibilità di un marketing dell’intangibile

Tra individualismo crescente e necessità di cooperazione, compartecipazione e condivisione.

Il progresso e la catastrofe sono il diritto e il rovescio della stessa medaglia
(Anna Arendt, 1968)

 

Il XX secolo è stato definito il secolo del progresso scientifico, il XXI sarà ricordato come quello del progredire delle catastrofi”. Sembra privo di speranza il futuro immaginato da Paul Virilio, un filosofo e urbanista francese che ha ideato la mostra “Ce qui arrive” alla Fondazione Cartier per l’arte moderna. A vedere la coda delle persone che attendono il proprio turno per visitarla – e si parla di oltre 20000 visitatori già passati – si direbbe che il desiderio dei molti che si spingono per andare a vedere le immagini catastrofiche e allo stesso tempo macabre (da Bhopal alla navetta Challenger, non trascurando le Twin Towers) è quanto mai indicativo di una certa evoluzione del gusto; che in un certo senso è quello poi dell’automobilista che rallenta per osservare meglio lo spettacolo dell’incidente.

Paul Virilio è uno dei più arguti uomini di pensiero del nostro tempo, una persona che riflette con disincanto sui diversi atteggiamenti intellettuali del mondo contemporaneo e ci mette in guardia – spesso servendosi di testimonianze veramente scioccanti – contro le idee troppo semplicistiche, troppo alla moda, eccessivamente lineari e prive di contraddizioni, che vengono offerte dai “media del tutto e subito” (medias de l’immediat). Quei messaggi che spesso hanno solo stillato il nettare del successo nascondendoci l’amaro calice di eventuali momenti di criticità; evitandoci la prospettiva della precarietà della certezza e la prevedibilità dell’accidente (Ce qui arrive). Un memento mori e un “dovere di memoria” anche presente nel catalogo della mostra, che diventa ineluttabile di fronte a quelle creazioni del progresso che in vario modo hanno scotomizzato il loro inevitabile pendant, gli eventi critici nelle loro varie forme: dall’incidente fino alle catastrofi, il rovescio della medaglia.
Immagini di incidenti aerei, treni deragliati, navi in procinto di essere inghiottite dai flutti; immagini di attentati (che potremmo chiamare incidenti volontari) , pellicole impressionate da irradiazioni, interviste filmate, ma anche opere di artisti che mettono in scena l’instabilità attraverso l’uso di oggetti, suoni, fotografie: segnali di una catastrofe imminente o soltanto possibile.

Se dovessimo definirla dovremmo parlare di una mostra che “mette in guardia”, che non stimola il compiacimento e ci spinge a cercare altrove il senso delle crisi che stiamo vivendo.
Tolstoi o Manzoni ci avrebbero offerto altre immagini. Altri tempi. Nella sostanza però il discorso non cambia. Le trasformazioni dei “mondi” passati, le mutazioni e le contemporanee crisi attuali – talvolta molto profonde – non hanno carattere esclusivamente sociale o economico, esse sono prima di tutto umane e individuali, riguardano le persone e il loro mondo interiore.

Certamente, la paura del domani (del doman non v’è certezza) accompagna l’essere umano sin dall’antichità e l’incertezza non è un fenomeno nuovo; tuttavia essa si inserisce in un contesto diverso rispetto al passato. In qualche modo la globalizzazione ha finito per fare piazza pulita degli ultimi punti di riferimento “sicuri” ed è diventato sempre più evidente quello che già nel Rapporto Censis 1998, ad esempio, era stato definito il disagio dei “piccoli popoli” di produttori e consumatori che hanno come solo destino quello di navigare nel mare dei processi macro di mondializzazione.

Lo smarrimento si registra dappertutto. Mancano o fanno difetto i sistemi importanti, la famiglia, lo stato e la bandiera; un contesto affettivo di vicinato, con i suoi codici fondati sul rispetto per l’autorità e soprattutto sul rispetto della persona. Sembra che tutto sia andato o stia andando in frantumi. Si perde il contatto con i riferimenti morali, sociali, economici, politici… E a differenza del mondo descritto da Tolstoi o da Manzoni, questo nostro ha perduto il suo senso religioso della carità e della comunità. Da una parte ciascuno di noi sente di poter fare a meno del “maestro” e agire in prima persona investendo tutta la sua responsabilità; dall’altra ognuno può accorgersi che quando la individualità (individualismo) trionfa e prende le distanze dal “sociale”, il contesto non gli offre più la cintura di sicurezza di un tempo.

Le cause sono sicuramente importanti, molteplici e di vario ordine, ma a guardar bene la situazione non possiamo trascurare che è avvenuto un forte cambiamento nelle persone e che ciascuno è cambiato di fronte a una forte sproporzione tra le attese individuali e le prospettive del futuro. Si percepisce una lacerante mancanza di prospettiva personale e diventa sempre più larga la sproporzione tra le esigenze di maggiore coinvolgimento nel lavoro e le attese individuali in termini di qualità della vita. Nel caso del lavoro ormai è evidente che non basta più proporre “ponti d’oro” alle persone se esse non hanno più il tempo di vivere; se esse non hanno più un minimo di disponibilità interiore e di serenità (fondamentale per ognuno di noi).

Lo stesso concetto del lavoro definisce una realtà che è molto diversa rispetto a quella degli anni passati, attualmente il lavoro sta assumendo sempre di più gli aspetti della precarietà professionale; siamo nell’era dei lavoratori “mutanti”. A tutto ciò si aggiunge la sensazione che “la festa è finita”, che non torneranno più i begli anni di un tempo e che il sacrosanto progetto di vita personale molto spesso (si potrebbe dire sempre) non rappresenta più un progetto e un’aspettativa individualizzata. Molte persone oggi si occupano soprattutto di sopravvivere allo stress e ciò dimostra con evidenza che – almeno per certuni – il limite è stato ormai raggiunto.

I riferimenti certi si sfilacciano lasciando vuoto lo spazio dei valori e delle speranze; in questa condizione di incertezza mancano le prospettive, i progetti, i sogni di futuro. L’incertezza diventa una realtà tangibile con la quale saremo chiamati a porci in relazione costantemente; ma è proprio a partire dalla gestione efficace delle instabilità che diventeremo capaci di stillare la “qualità” della nostra vita. Negoziando con costanza tra la nostra vita privata e quella professionale, per un equilibrio continuamente instabile.
In realtà la questione riguarderà essenzialmente il nostro mondo relazionale nel quale ciascuno di noi dovrà far fronte al carattere imprevedibile e inatteso del suo interlocutore: marito/moglie, figlia/figlio, del collaboratore o del capo, del cliente o del fornitore, ecc.; comportandosi possibilmente in un modo pro-positivo piuttosto che reattivo.

L’incertezza è più che mai compagna della nostra vita ed è presente nelle nostre prospettive personali e nelle nostre relazioni individuali; inoltre, è legata a un nostro limite percettivo che molto spesso trascuriamo.

Del resto, non siamo stati preparati per affrontare la realtà. A scuola ci hanno trasmesso la cultura della “certezza” e una visione abbastanza rigida del mondo. La nostra educazione, e più tardi il mondo professionale ci ha incoraggiato a fissare la realtà non certa in schemi di probabilità che a lungo andare ci sta abituando a sostituire il “prevedibile” o il “programmato” con la realtà che emerge e che non può essere repertoriata a priori.

Lo smarrimento è una realtà alla quale non si può far fronte con delle tecniche rigide e alla fin fine inadatte alle situazioni che cambiano continuamente. Conviene dunque riprendere in considerazione la persona, anima e corpo (senza dimenticare l’elemento spirituale individuale) e ciò che essa possiede in termini di qualità di adattamento e di comprensione di fronte all’incertezza del cambiamento e dell’emergenza. Comprendere opportunamente che le situazioni sono in costante mutamento e che ogni strategia previsionale dovrà, per forza, confrontarsi con una realtà imprevedibile. E sappiamo bene ormai che la capacità di adattamento delle persone di fronte a una realtà nuova dipende dallo stato d’animo e dalla capacità di esse di integrare i vari aspetti della realtà.
Considerare in modo nuovo, da punti di vista ulteriori, la vita professionale e privata, guidandole consapevolmente tra i flutti dell’incertezza e dell’imprevedibilità.

Un mondo diverso è possibile
Soprattutto per chi sceglierà di affrontare le crisi con umiltà, umanità e umorismo.

 

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta, con lo stesso titolo su MKT, gennaio 2003. Ho l’impressione che l’argomento possa stimolare ancora molte riflessioni

Essere sé stessi. Non solo sopravvivere o adattarsi.

“Durante una vacanza sul Pacifico, me ne stavo su alcune sporgenze rocciose a guardare le onde infrangersi sugli scogli, notai con sorpresa, su una roccia, qualcosa come dei piccoli fusti di palma, non più alti di 70-80 cm, che ricevevano l’urto del mare. Attraverso il binocolo vidi che si trattava di un certo tipo di alghe costituito da un fusto snello e un ciuffo di foglie posto in cima. Osservandole nell’intervallo fra un’onda e l’altra sembrava evidente che il fusto fragile, eretto, dalla chioma pesante, sarebbe stato completamente schiacciato e spezzato dall’onda successiva. Ma quando l’onda gli si abbatteva sopra, il fusto si piegava paurosamente e le foglie venivano sbattute fino a formare una linea diretta dallo scorrere dell’acqua. Tuttavia, non appena l’onda era passata, ecco di nuovo la pianta diritta, resistente, flessibile. Sembrava incredibile che un’ora dopo l’altra, giorno dopo notte, per settimane e forse per anni, potesse resistere a questo urto incessante, e per tutto il tempo potesse nutrirsi, affondare le proprie radici e riprodursi. In breve, potesse mantenere e migliorare se stessa attraverso un processo che, nel nostro linguaggio, chiamiamo crescita. Con la tenacia e la persistenza della vita, la capacità di resistere in un ambiente incredibilmente ostile, riuscendo non soltanto a sopravvivere, ma ad adattarsi, a svilupparsi, a “essere se stessa.”

Questo breve appunto biografico di C. Rogers aiuta a porre in risalto come, in tutti i regni della natura, la vita sia un processo attivo, non passivo. Portando a considerare che, prescindendo dalla provenienza dello stimolo, dal fatto che l’ambiente possa essere favorevole o sfavorevole, l’organismo tende ad assumere forme adatte a mantenere, migliorare e riprodurre se stesso. Sicuramente questa è una descrizione molto generica del fenomeno, ma rappresenta in modo adeguato (almeno nell’economia di questo scritto) la natura propria del processo, in continuo divenire, chiamato “vita”. Cioè quella tendenza intrinseca negli organismi viventi che è presente in ogni momento della loro esistenza. Infatti, è solamente la evidenza o l’assenza di questo processo che può darci la possibilità di dire se un dato organismo è vivo o morto.

Mi è spontaneo pensare al racconto quando capita di incontrare clienti che vivono la loro situazione definendola molto complicata e difficile. Vogliono cambiare e non sanno come fare, sentendosi schiacciati dai loro fardelli personali. A un esame superficiale le loro storie possono sembrare problematiche, disturbate, sorprendenti. Le condizioni in cui queste persone sono cresciute, hanno vissuto la loro esistenza, di solito non sono state molto agevoli e sicure … eppure, ogni volta che si presenta l’occasione, possono contare su una tendenza profondamente volitiva che alberga in loro.

La chiave per comprendere quel modo di essere è che esse stanno lottando, persone ed anche organizzazioni di persone, con le uniche modalità che sentono di avere a disposizione, per muoversi verso la crescita, verso il divenire: per uscir fuori da quella condizione di sofferenza. A chi in quel momento osserva la scena dall’esterno e non sta vivendo quei problemi, i tentativi possono sembrare inammissibili e inspiegabili ma essi sono i coraggiosi, autentici, tentativi della vita di diventare se stessa. È un modo di essere, una forte tendenza che cerca di affermare un processo di crescita costruttivo.

A partire da queste considerazioni, emerge con evidenza il fatto che quando le circostanze sono favorevoli, l’organismo cerca di superare se stesso, raggiungendo un grado di armonia e di integrazione superiori. E – per esperienza – mi sento di affermare che quell’essere bio-psico-sociale vive una condizione di sviluppo costantemente attivo, in virtù di un processo intrinseco naturale, perché in natura non esiste un processo vitale che giunge definitivamente a completezza e stabilità. Di conseguenza, posso anche rilevare sia gli elementi che favoriscono la crescita e sia le modalità attraverso le quali tale crescita può essere facilitata o incoraggiata.

Le caratteristiche generali degli esseri viventi assumono negli umani forme molto più complesse e singolari. Nelle persone le forze “naturali” appartenenti alla sfera vegetativa e quelle legate alla “istintualità” sono certamente meno attive ed evidenti, essendosi metamorfosate in capacità superiori tipiche dell’umanità. Ciò ha portato la persona a crescere individualmente, ad interiorizzarsi sempre di più, ad evidenziare la unicità e la irripetibilità del prorio Io, in un processo continuo di crescita spirituale. Sottolineando così la diversità e la differenza esistente tra ciascun essere umano.

Tuttavia, per essere “Io” bisogna essere almeno in due. Non è possibile crescere se si è da soli, l’Io si trova in divenire soltanto in rapporto a un Tu, solo nel momento in cui si confronta con l’altro. François de Singly ha sviluppato il tema della costruzione/ricomposizione dell’identità adulta all’interno delle relazioni ed ha evidenziato una struttura a quattro termini: un sé visto da sé stessi e un sé visto dagli altri, sdoppiati a loro volta in un sé intimo, privato, e un sé “sociale”, quello che da statuto a una persona. Mettendo in evidenza che la questione dell’identità che sta alla base della definizione di sé, non è mai compiuta una volta per tutte ma richiede costanti aggiornamenti o riaggiustamenti. Quanto detto aiuta a comprendere anche che la costruzione dell’identità diventa un progressivo svelamento e/o rafforzamento di sfaccettature nascoste di noi stessi, da parte di altre persone significative.

Ecco dunque, che per lo sviluppo spirituale-identitario dell’essere umano “l’ambiente” che può facilitare o ritardare la sua crescita diventa maggiormente complesso e complicato dalla presenza e dalla necessità delle relazioni interpersonali che sono alla base della sua esistenza.

La minaccia e la grazia

Capita di trovarci di fronte a una situazione difficile in cui non sappiamo cosa fare, non abbiamo idea di come affrontarla. Oppure ci mancano gli strumenti necessari per intervenire in modo efficace su di essa. Di conseguenza, non possiamo agire in modo adeguato.
Può essere un evento, un compito o una prova che in quel momento fa emergere il limite delle nostre possibilità ed è da noi vissuto con un certo grado di disagio.

Il segnale della nostra inadeguatezza si esprime attraverso l’ansia che a sua volta sottintende l’entità della nostra fatica psicofisica o del nostro stress. Tutto questo può capitare in modo sporadico. Altre volte, invece si presenta quotidianamente: in famiglia, a scuola, al lavoro, ecc.

Un momento in cui non riusciamo a raggiungere l’obiettivo, a realizzare cioè un compito che abbiamo di fronte, può – in moltissimi casi – tramutarsi in una minaccia nei nostri confronti. Lo viviamo inconsciamente come un attacco alla nostra autostima, uno sconvolgimento della nostra zona di confort.

Tuttavia, quando stiamo vivendo una tale situazione, avremmo la possibilità di dire: “io mi sento minacciato da questa difficoltà e posso lottare, posso far fronte al pericolo incombente per la mia autostima”.

Ad esempio, in linea del tutto schematica, nel caso ci trovassimo nella situazione appena descritta, potremmo renderci conto di quanto sta accadendo in due modi:

Possiamo entrare in contatto con il nostro corpo, attraverso il quale ci “sentiamo” e “comprendiamo” qual è la situazione interiore, valutando così le nostre energie e risorse (bisogna considerare però che tale situazione potremmo viverla anche come minaccia e in questo caso il “sentirci” in tale stato può diventare l’anticamera dello stress).

Abbiamo la capacità di entrare in contatto con l’esterno, verificare e valutare. Per comprendere se il nostro “potere” personale è sufficiente e adeguato per affrontare la situazione. Vivremo pertanto l’evento come sfida e nel momento in cui viviamo qualcosa in termini di competizione, ci attiviamo in modo sicuramente positivo. E’ il modo migliore per affrontare i problemi, anche se, naturalmente, non è sempre possibile interpretare o re-interpretare gli eventi in termini di “superamento di Sè”.

C’è, tuttavia, un rischio incombente, quello di voler vincere ad ogni costo, di superare con ingenuità e entusiasmo sprezzante il limite che si pone come sfida; e allora …
E’ facile rimanere impantanati nelle nostre emozioni.

Le baby-blues dei padri

La figura del padre contemporaneo potrebbe essere illustrata con una immagine pirandelliana: egli non ha un ruolo ben definito, ma è uno nessuno e centomila.

Soprattutto quando l’uomo si trova ad affrontare il periodo di transizione alla paternità facendo affidamento sulle proprie capacità, le proprie risorse, il proprio intuito: Non potendo contare su “linee” di comportamento, privo di qualsiasi rito di formazione o iniziazione che lo incoraggi a entrare in questo ruolo.

A lungo considerata una patologia che colpisce esclusivamente le madri, la depressione postnatale colpisce anche i padri. Secondo i risultati presentati all’ultima convention annuale dell’American Psychological Association, il 10% di questi sarebbe seriamente coinvolto. Sotto-diagnosticato dagli operatori sanitari, il fenomeno sarebbe anche ampiamente sconosciuto nella popolazione generale. Di fondo c’è l’idea sbagliata che la depressione postnatale sia dovuta esclusivamente ai cambiamenti ormonali durante il parto, quando l’impatto della privazione del sonno potrebbe essere maggiore.

C’è anche una serie di stereotipi di genere. Per valutare l’importanza di questi pregiudizi, un team di ricercatori britannici di psicologia ha sottoposto 406 adulti dai 18 ai 70 anni a casi clinici fittizi: a ogni volontario è stata descritta la situazione sia di una donna e sia di un uomo, presentando sempre gli stessi sintomi. I partecipanti dovevano quindi indicare se “qualcosa non andava” nello stato psicologico della persona. I risultati ottenuti sono stati inequivocabili: i partecipanti hanno identificato correttamente la depressione postnatale nel 90% delle madri, ma solo nel 46% dei padri. Non solo le difficoltà di questi ultimi sono state evidenziata meno volte, ma sono state anche più spesso attribuite alla fatica o allo stress.

 

Somatopsicodinamica della depressione

La depressione è un’emozione che può divenire un sintomo, se non un aspetto caratteriale.

La psichiatria classica distingue la depressione in endogena ed esogena, ma se ci atteniamo ai principi energetici di Reich, possiamo individuare certi “blocchi” corporei come responsabili delle diverse manifestazioni della depressione e cogliere l’etiologia di essa molto meglio che la nosografia ufficiale ed attuale.

Rifacendomi a Wernicke, possiamo parlare di situazioni o di processi somato-psichici che ritengo più esatto definire somato-psico-dinamici. Intendo riferirmi ai concetti che sottolineano come ogni condizione di privazione, di perdita, mancanza, determinino una condizione “depressiva” che troveremo, pertanto, ancorata a diversi livelli muscolari del corpo.

Opino che vi siano quattro possibilità per tale ancoraggio, per cui quattro espressioni della psicopatologia depressiva.

La prima possibilità è data dalla depressione psicotica allorché il soggetto non è cosciente del suo stato depressivo, egli non lo “vede”: in tal caso è il livello ad essere bloccato. Il blocco del 1. livello, dei telerecettori cioè, induce la situazione psicotica in cui la depressione è l’aspetto saliente; il blocco di tale livello per l’insoddisfazione, la frustrazione avvenuta durante i primi giorni di vita determina la condizione psicotica che è da ritenersi fondamentale in ogni caso di “psicosi depressiva”.

La sintomatologia si presenta col mutacismo, con la catatonia, con l’esplosione di rapporti distruttivi, molto pericolosi per il soggetto e per gli altri. Per tali motivi come ho già scritto e detto altre volte, non si può parlare di specifiche psicosi, ma solo delle “psicosi”.

Seconda possibilità: dal momento che sappiamo che subito dopo la nascita, attraverso l’allattamento, è la bocca, cioè il 2. livello reichiano del corpo, che entra in funzione, va da sé che se la frustrazione esistenziale si verifica in tale periodo, implode tutta la sintomatologia definita “orale”. Dico “implode” perchè in tali casi si struttura un vero e proprio nucleo depressivo della personalità, pronto ad esplodere allorché determinate situazioni esistenziali fanno rivivere al soggetto le stesse penose emozioni neonatali. Tali emozioni rimosse sono legate ad un cattivo maternage o ad un precoce svezzamento.

In questi casi vi sono due possibilità di manifestazioni orali, quella cosiddetta insoddisfatta e quella rimossa. Nella prima si tratta di soggetti che hanno ricevuto frustrazioni relative all’allattamento: soggetti che hanno sofferto una fame di latte che arrivava o troppo poco o in ritardo, dando loro tutta la possibilità di fantasmatizzare, da cui, in clinica, la presenza di pseudo-allucinazioni. Tutto ciò si manifesta nella caratterialità adulta con una spiccata tendenza alla depressione profonda dell’umore che il soggetto cerca di compensare o di evitare attraverso l’abuso del cibo, dell’alcool, del fumo. È importante, in terapia, cercare di stabilire l’epoca in cui tale frustrazione si è verificata.

L’oralità rimossa, si installa invece per uno svezzamento troppo precoce: la paura e la rabbia provata dal neonato in tale circostanza si manifesta in seguito con una contrazione cronica dei muscoli masseteri; spesso la mandibola è quadrata ed il soggetto parla fra i denti. Tale frustrazione comporta una caratterialità aggressiva di tipo distruttivo, con mordacità e con una suscettibilità al limite della paranoia.

Si delinea così il soggetto borderline che può esplodere in manifestazioni psicotiche allorché il blocco energetico della bocca invade gli occhi, regredendo. Per tali soggetti tra compensazione avviene mediante un privilegiare il “piacere” degli occhi (in tal modo non si accumula energia) con la lettura, l’estetica, ecc., se non con la droga.

Prima di passare alla nevrosi depressiva è opportuno prendere in considerazione la cosiddetta sindrome maniaco-depressiva, la cui alternanza delle fasi corrisponde in chiave reichiana a situazioni nelle quali, per la fase depressiva, da parte del soggetto si ha difficoltà a “vedere” l’altro e se stesso (accomodazione, convergenza) e facilità a ,”rodersi dentro” (mordere) come ruminazione aggressiva. La fase maniacale è caratterizzata da una facilità di “guardare e guardarsi a destra e a sinistra” e nel contempo da un bisogno di “succhiare” facilmente tutto quanto attorno.

In termini di vegetoterapia vi è uno sfasamento tra il primo e il secondo livello con una funzionalità incoerente e discordante.

Nel quadro della depressione è necessario, inoltre, ricordare la forma depressiva criptica; tale sindrome, secondo me psicotica di fondo, è nascosta per la presenza di un “blocco” al naso (ne parleremo prossimamente) che “compensa” quello degli occhi e della bocca: la sintomatologia depressiva esplode o per lo “sblocco” improvviso del naso o perchè il blocco, come difesa, oltrepassa i limiti energetici. Il blocco del naso si accompagna sempre con quello del 6. livello, l’addominale.

Terza possibilità: in relazione alla nevrosi depressiva possiamo collocare l’ipocondria, quadro clinico in cui il soggetto è capace di vedere l’altro o se stesso, ma non con un ritmo alternato per ciò che concerne il 1. livello, bensì nei confronti del 2., della bocca; il funzionalismo, cioè, è fortemente disturbato.

Che tale sindrome sia a cavallo con la nevrosi depressiva lo dimostra la sintomatologia in cui prevale l’attenzione morbosa del soggetto per la propria salute, per il proprio corpo temuto malato, cioè per il proprio Io.

È secondo me, il 3. livello reichiano, cioè il collo, responsabile della vera e propria nevrosi depressiva o depressione nevrotica. Tale 3. livello arriva in basso fino alla linea mammillare; la clinica classica lo conferma e quella reichiana pure. Non si tratta, infatti, né di uno stato né di un processo depressivo nel senso vero dei termini: il soggetto “vede” bene la sua “depressione” che è, piuttosto, una invadente tendenza alla tristezza, alla malinconia, alla “nostalgia” romantica!

Il blocco di tale livello è predominante su quello orale ed impedisce al soggetto di superare una condizione psicodi-namica di ambivalenza, nel senso che per ciò che riguarda il solo blocco degli occhi e della bocca vi è una chiara situazione di dipendenza psicologica, mentre qui vi è anche la problematica di esserlo (dipendente) o non esserlo. Il soggetto desidera essere indipendente, ma c’è qualcosa di più forte di lui che lo… blocca.

Questa dipendenza è legata all’identità poiché un soggetto dipendente è uno che non ha avuto la possibilità di-superare l’identificazione e raggiungere quindi la sua identità. Il dipendente si identifica facilmente e l’identificazione è sempre quella con la figura materna, mentre con l’identità si raggiunge l’Io individuale.

Tale blocco della parte superiore del torace (sempre 3. livello) beneficia in vegetoterapia degli acting delle braccia e, poiché il torace inferiore (4. livello) è condizionato al diaframma (5. livello) è evidente che la nevrosi depressiva si evidenzia insieme a manifestazioni ansiose. Abbiamo, cioè, la depressione ansiosa, in tal caso è l’irrigidimento del collo (blocco) per il tentativo narcisistico di superare l’ambivalenza che comporta la partecipazione diaframmatica legata all’ansia e al masochismo: il soggetto è lamentoso, si ritiene incapace, sfortunato, ecc.

Un quarto tipo di depressione è quello legato a un blocco predominante del 7. livello (il bacino) insieme a residui di oralità insoddisfatta: è dovuto all’impossibilità da parte del soggetto di procurarsi o ricevere una ben soddisfacente gratificazione paragonabile all’equivalente del pia cere sessuale genitale. Tale impossibilità produce come reazione una manifestazione depressiva di tipo reattivo.

Si tratta di “disturbi” convergenti per cui, una volta che l’elemento esogeno è stato superato o eliminato, il soggetto ritrova la sua vitalità, anche se ulteriori frustrazioni potranno di nuovo temporaneamente “deprimerlo”.

Si potrebbe definire, allora, la depressione reattiva meglio come depressione isterica. E l’isteria, per le donne e per gli uomini, come diceva Reich, è l’anticamera della genitalità !

In tali casi vi è sempre una “componente” diaframmatici di masochismo, il che spiega le ricadute come coazione a ripetere.

Questo breve panorama della depressione interpretata in chiave reichiana, ci mette in condizione di poter fare a meno di una classificazione nosografica rigida e ancor più ci spiega perchè in psichiatria “certi” psicofarmaci aiutano solo “certi” depressi e non altri, ciò significa che “energeticamente” influenzano solo certi livelli, ma dal momento che ogni livello ha un substrato emotivo è ovvio che se il soggetto non ha avuto la possibilità terapeutica di esprimere le abreazioni, le ricadute saranno inevitabili.