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Sostenibilità di un marketing dell’intangibile

Tra individualismo crescente e necessità di cooperazione, compartecipazione e condivisione.

Il progresso e la catastrofe sono il diritto e il rovescio della stessa medaglia
(Anna Arendt, 1968)

 

Il XX secolo è stato definito il secolo del progresso scientifico, il XXI sarà ricordato come quello del progredire delle catastrofi”. Sembra privo di speranza il futuro immaginato da Paul Virilio, un filosofo e urbanista francese che ha ideato la mostra “Ce qui arrive” alla Fondazione Cartier per l’arte moderna. A vedere la coda delle persone che attendono il proprio turno per visitarla – e si parla di oltre 20000 visitatori già passati – si direbbe che il desiderio dei molti che si spingono per andare a vedere le immagini catastrofiche e allo stesso tempo macabre (da Bhopal alla navetta Challenger, non trascurando le Twin Towers) è quanto mai indicativo di una certa evoluzione del gusto; che in un certo senso è quello poi dell’automobilista che rallenta per osservare meglio lo spettacolo dell’incidente.

Paul Virilio è uno dei più arguti uomini di pensiero del nostro tempo, una persona che riflette con disincanto sui diversi atteggiamenti intellettuali del mondo contemporaneo e ci mette in guardia – spesso servendosi di testimonianze veramente scioccanti – contro le idee troppo semplicistiche, troppo alla moda, eccessivamente lineari e prive di contraddizioni, che vengono offerte dai “media del tutto e subito” (medias de l’immediat). Quei messaggi che spesso hanno solo stillato il nettare del successo nascondendoci l’amaro calice di eventuali momenti di criticità; evitandoci la prospettiva della precarietà della certezza e la prevedibilità dell’accidente (Ce qui arrive). Un memento mori e un “dovere di memoria” anche presente nel catalogo della mostra, che diventa ineluttabile di fronte a quelle creazioni del progresso che in vario modo hanno scotomizzato il loro inevitabile pendant, gli eventi critici nelle loro varie forme: dall’incidente fino alle catastrofi, il rovescio della medaglia.
Immagini di incidenti aerei, treni deragliati, navi in procinto di essere inghiottite dai flutti; immagini di attentati (che potremmo chiamare incidenti volontari) , pellicole impressionate da irradiazioni, interviste filmate, ma anche opere di artisti che mettono in scena l’instabilità attraverso l’uso di oggetti, suoni, fotografie: segnali di una catastrofe imminente o soltanto possibile.

Se dovessimo definirla dovremmo parlare di una mostra che “mette in guardia”, che non stimola il compiacimento e ci spinge a cercare altrove il senso delle crisi che stiamo vivendo.
Tolstoi o Manzoni ci avrebbero offerto altre immagini. Altri tempi. Nella sostanza però il discorso non cambia. Le trasformazioni dei “mondi” passati, le mutazioni e le contemporanee crisi attuali – talvolta molto profonde – non hanno carattere esclusivamente sociale o economico, esse sono prima di tutto umane e individuali, riguardano le persone e il loro mondo interiore.

Certamente, la paura del domani (del doman non v’è certezza) accompagna l’essere umano sin dall’antichità e l’incertezza non è un fenomeno nuovo; tuttavia essa si inserisce in un contesto diverso rispetto al passato. In qualche modo la globalizzazione ha finito per fare piazza pulita degli ultimi punti di riferimento “sicuri” ed è diventato sempre più evidente quello che già nel Rapporto Censis 1998, ad esempio, era stato definito il disagio dei “piccoli popoli” di produttori e consumatori che hanno come solo destino quello di navigare nel mare dei processi macro di mondializzazione.

Lo smarrimento si registra dappertutto. Mancano o fanno difetto i sistemi importanti, la famiglia, lo stato e la bandiera; un contesto affettivo di vicinato, con i suoi codici fondati sul rispetto per l’autorità e soprattutto sul rispetto della persona. Sembra che tutto sia andato o stia andando in frantumi. Si perde il contatto con i riferimenti morali, sociali, economici, politici… E a differenza del mondo descritto da Tolstoi o da Manzoni, questo nostro ha perduto il suo senso religioso della carità e della comunità. Da una parte ciascuno di noi sente di poter fare a meno del “maestro” e agire in prima persona investendo tutta la sua responsabilità; dall’altra ognuno può accorgersi che quando la individualità (individualismo) trionfa e prende le distanze dal “sociale”, il contesto non gli offre più la cintura di sicurezza di un tempo.

Le cause sono sicuramente importanti, molteplici e di vario ordine, ma a guardar bene la situazione non possiamo trascurare che è avvenuto un forte cambiamento nelle persone e che ciascuno è cambiato di fronte a una forte sproporzione tra le attese individuali e le prospettive del futuro. Si percepisce una lacerante mancanza di prospettiva personale e diventa sempre più larga la sproporzione tra le esigenze di maggiore coinvolgimento nel lavoro e le attese individuali in termini di qualità della vita. Nel caso del lavoro ormai è evidente che non basta più proporre “ponti d’oro” alle persone se esse non hanno più il tempo di vivere; se esse non hanno più un minimo di disponibilità interiore e di serenità (fondamentale per ognuno di noi).

Lo stesso concetto del lavoro definisce una realtà che è molto diversa rispetto a quella degli anni passati, attualmente il lavoro sta assumendo sempre di più gli aspetti della precarietà professionale; siamo nell’era dei lavoratori “mutanti”. A tutto ciò si aggiunge la sensazione che “la festa è finita”, che non torneranno più i begli anni di un tempo e che il sacrosanto progetto di vita personale molto spesso (si potrebbe dire sempre) non rappresenta più un progetto e un’aspettativa individualizzata. Molte persone oggi si occupano soprattutto di sopravvivere allo stress e ciò dimostra con evidenza che – almeno per certuni – il limite è stato ormai raggiunto.

I riferimenti certi si sfilacciano lasciando vuoto lo spazio dei valori e delle speranze; in questa condizione di incertezza mancano le prospettive, i progetti, i sogni di futuro. L’incertezza diventa una realtà tangibile con la quale saremo chiamati a porci in relazione costantemente; ma è proprio a partire dalla gestione efficace delle instabilità che diventeremo capaci di stillare la “qualità” della nostra vita. Negoziando con costanza tra la nostra vita privata e quella professionale, per un equilibrio continuamente instabile.
In realtà la questione riguarderà essenzialmente il nostro mondo relazionale nel quale ciascuno di noi dovrà far fronte al carattere imprevedibile e inatteso del suo interlocutore: marito/moglie, figlia/figlio, del collaboratore o del capo, del cliente o del fornitore, ecc.; comportandosi possibilmente in un modo pro-positivo piuttosto che reattivo.

L’incertezza è più che mai compagna della nostra vita ed è presente nelle nostre prospettive personali e nelle nostre relazioni individuali; inoltre, è legata a un nostro limite percettivo che molto spesso trascuriamo.

Del resto, non siamo stati preparati per affrontare la realtà. A scuola ci hanno trasmesso la cultura della “certezza” e una visione abbastanza rigida del mondo. La nostra educazione, e più tardi il mondo professionale ci ha incoraggiato a fissare la realtà non certa in schemi di probabilità che a lungo andare ci sta abituando a sostituire il “prevedibile” o il “programmato” con la realtà che emerge e che non può essere repertoriata a priori.

Lo smarrimento è una realtà alla quale non si può far fronte con delle tecniche rigide e alla fin fine inadatte alle situazioni che cambiano continuamente. Conviene dunque riprendere in considerazione la persona, anima e corpo (senza dimenticare l’elemento spirituale individuale) e ciò che essa possiede in termini di qualità di adattamento e di comprensione di fronte all’incertezza del cambiamento e dell’emergenza. Comprendere opportunamente che le situazioni sono in costante mutamento e che ogni strategia previsionale dovrà, per forza, confrontarsi con una realtà imprevedibile. E sappiamo bene ormai che la capacità di adattamento delle persone di fronte a una realtà nuova dipende dallo stato d’animo e dalla capacità di esse di integrare i vari aspetti della realtà.
Considerare in modo nuovo, da punti di vista ulteriori, la vita professionale e privata, guidandole consapevolmente tra i flutti dell’incertezza e dell’imprevedibilità.

Un mondo diverso è possibile
Soprattutto per chi sceglierà di affrontare le crisi con umiltà, umanità e umorismo.

 

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta, con lo stesso titolo su MKT, gennaio 2003. Ho l’impressione che l’argomento possa stimolare ancora molte riflessioni

L’assistenza agli anziani nel corso di eventi critici

Gli anziani costituiscono un gruppo vulnerabile che ha bisogno di attenzione e di servizi specializzati, durante e dopo un’emergenza.
Lo stato di salute, la situazione finanziaria e sociale, l’isolamento come pure la mancanza di risorse che permettono di superare le situazioni difficili, costituiscono alcuni dei numerosi fattori che possono aumentare i bisogni delle persone anziane alle prese con un evento critico. Come quello rappresentato dalla grande epidemia di Coronavirus che ci sta coinvolgendo ora.

Il primo obiettivo di un intervento nei confronti delle persone anziane riguarda la eliminazione degli stereotipi che di solito si hanno nei loro riguardi.
La maggioranza delle persone anziane non sono fragili, malate, disorientate, inattive, dipendenti, ecc.
Gli anziani costituiscono, nella stragrande maggioranza, un gruppo autonomo pieno di risorse che vuole soddisfare i propri bisogni e pianificare in che modo soddisfarli.

Dalla letteratura scientifica e dalle ricerche sul campo, emerge chiaramente che molte persone anziane provano notevoli difficoltà prima di un evento critico. Ad esempio, non ricevono sempre adeguate segnalazioni concernenti la incombenza di un pericolo, una emergenza imminente o in corso. Anche perché a volte queste persone si trovano fuori del circuito di allertamento della protezione civile, oppure non inserite nelle reti sociali parentali o amicali.
Poi ci sono i casi di disabilità fisiche, come ad esempio la sordità o altre malattie, tanto che l’isolamento può impedir loro di udire i messaggi di allerta.

Anche se le persone anziane comprendono i segnali o i messaggi di allarme, diversi fattori possono impedire di allontanarsi dai luoghi dell’emergenza o di auto proteggersi. Ad esempio:

Inabilità
L’inabilità fisica o mentale, lo stare su una sedia a rotelle, la cecità, la sordità, le difficoltà di muoversi autonomamente, sono alcuni dei fattori che possono diminuire la loro capacità di lasciare – se necessario – il loro appartamento o di prendere le necessarie misure di auto tutela.

Mancanza di risorse e di informazioni
Alcune persone anziane spesso non dispongono dei mezzi di trasporto necessari o di assistenza fisica sufficiente per evacuare il loro alloggio. Può capitare anche che esse non sappiano dove andare o che fare per proteggersi, ne’ dove reperire le informazioni necessarie per conoscere meglio il pericolo che le minaccia.

Rifiuto di lasciare il luogo in cui stanno
Alcune persone anziane possono porre molta resistenza ad una evacuazione, per il fatto di sentirsi molto legate affettivamente ai loro beni: la casa, gli oggetti o gli animali, che esse si rifiutano di abbandonare. Perché hanno paura che entrino degli estranei, non vogliono lasciare la loro casa vuota per paura di essere derubati, o perché sono incapaci di valutare adeguatamente la situazione che si sta presentando.

Cosa fare?
Dato che la maggior parte delle persone anziane sono in grado di gestire autonomamente gli eventi, è importante occuparsi di quelle che sono a rischio; affinché si possa intervenire in tempo per avvertirle e nel caso evacuarle, oppure aiutarle a mettere in atto tutte le misure di autotutela necessarie per proteggersi.
Le persone che corrono maggiori rischi potrebbero essere quelle che:
– hanno più di 75 anni;
– abitano sole o che sono socialmente isolate;
– presentano problemi di locomozione;
– hanno perduto una persona cara nel corso degli ultimi due anni;
– sono state ricoverate in ospedale recentemente;
– sono incontinenti;
– sono disorientate e/o confuse;
– abitano in zone a forte concentrazione di anziani, come quelle in cui vi sono centri di accoglienza, di abitazioni protette, di luoghi di cura specializzati per persone anziane.

Ecco qualche punto di riferimento che può migliorare la pianificazione di interventi di urgenza per gli anziani a rischio:
un registro (tutelato dai vincoli previsti dalla legge) in cui scrivere nomi, indirizzi e bisogni (in termini di inabilità) delle persone anziane maggiormente sensibili;
un piano di emergenza comprendente le modalità e i meccanismi di avvertimento diretto delle persone anziane a rischio, così pure dei metodi e mezzi di evacuazione da parte della polizia, il 118 o il volontariato;
allo scopo di accelerare le procedure di evacuazione in caso di evento improvviso, sarà bene evidenziare sulla topografia comunale le residenze delle persone anziane a rischio.

Avvertire le persone anziane
Considerate le problematiche di natura sensoriale di numerose persone anziane, una segnalazione di un evento imminente o di una evacuazione fatta attraverso i sistemi di informazione audio e video potrebbe rivelarsi insufficiente.
Sarebbe dunque opportuno discutere, prima di tutto, di queste difficoltà con gli operatori dei mezzi di informazione e suggerire loro un sistema di allarme più appropriato; tale da compensare i disturbi visivi o uditivi che riguardano le persone anziane. Ad esempio, nei loro messaggi di allerta, i mezzi di informazione potrebbero consigliare ai loro ascoltatori di avvertire le persone anziane a loro vicine dell’evento imminente e aiutarle a evacuare o ad attivarsi per prendere le necessarie precauzioni.

Collegamenti
I responsabili di organizzazioni sociali che rappresentano interessi di categoria o attività di cura e assistenza per le persone anziane, il volontariato e le parrocchie (naturalmente anche le altre rappresentanze religiose) dovrebbero costituire una rete con l’organizzazione della protezione civile locale. Questa a sua volta sarà in continuo contatto con gli operatori dell’emergenza incaricati di seguire la evoluzione dell’imminente evento. Tutti questi organismi possono così lavorare in rete concertando le loro iniziative e assicurando in questo modo un adeguato coordinamento del piano di emergenza.

Assistenza in caso di evacuazione
– Il personale del soccorso pubblico 118, la polizia urbana, il volontariato di protezione civile, devono entrare immediatamente in comunicazione con le persone anziane a rischio che abitano la zona coinvolta dall’evento.
– Occorre prevedere delle modalità di assistenza per l’evacuazione ed anche dei mezzi di trasporto verso i centri di accoglienza o verso altri ricoveri temporanei.
– Rassicurare le persone anziane, che esse possono lasciare le loro abitazioni e i loro beni, perché la polizia sorveglierà le case e proteggerà le loro cose. (il piano di emergenza potrebbe contenere anche un piano di evacuazione degli animali domestici).
– Ricordare alle persone anziane di portare con loro le medicine e non soltanto le pillole. Quando si è pressati dall’urgenza, si dimenticano facilmente altre cose importanti: le gocce per gli occhi, gli inalatori, le pastiglie antiacido, le pastiglie di nitroglicerina. Sarebbe bene portare con se le eventuali grucce oppure l’apparecchio acustico o la dentiera.
– Gli operatori del soccorso 118 e gli altri soccorritori devono essere informati dei problemi particolari di trasporto delle persone anziane fragili verso i centri di accoglienza di urgenza o presso altre sedi, e della necessità di garantire loro le necessarie cure.

Reazioni emotive negli anziani
La maggior parte delle persone danno prova di resistenza e di coraggio di fronte all’emergenza, perché la loro esperienza (separazioni, divorzi, perdite di persone care, malattie, ecc.) ha permesso loro di costruirsi una capacità di recupero. Secondo la letteratura sulle emergenze,  le persone anziane, in quanto gruppo, hanno la tendenza a recuperare in fretta e più a loro agio, nel giro di un anno, rispetto ad altre fasce di età.
Tuttavia, per il fatto che certi anziani presentano effettivamente delle reazioni emotive e un certo stress, gli operatori del soccorso dovranno essere pronti a riconoscere queste situazioni e a soccorrere coloro che, nel periodo successivo all’evento critico, provano una reazione depressiva, confusione, accompagnata da una scarsa capacità di organizzarsi; oppure un sentimento di disperazione, di impotenza, di desolazione di fronte alla prospettiva di rifarsi una vita.

L’ansia, la depressione, la paura, la collera, i sensi di colpa e la tristezza sono sentimenti normali, anzi anche appropriati, c’è da aspettarseli.
Per le persone anziane, ciò può essere un mezzo per esprimere la propria inquietudine di fronte al loro avvenire, alla perdita della salute fisica, dei loro ruoli familiari, dei contatti sociali e della loro sicurezza finanziaria. Gli anziani tengono a conservare un senso di autonomia e in una certa misura di controllo sulla loro vita e il loro ambiente.
La collera è ugualmente una reazione normale da prevedere poiché essa permette alla persona di rispondere a ciò che l’ha colpita. Questa collera può essere diretta contro i bambini, i familiari o gli operatori del soccorso che non dovrebbero però allarmarsi ma anzi vedere in questa reazione delle persone anziane una modalità terapeutica di confrontarsi con le loro perdite.

La tristezza costituisce una reazione altrettanto normale e occorre permettere ed incoraggiare le persone anziane a piangere le loro perdite. I soccorritori dovrebbero riconoscere questo bisogno che hanno le persone anziane di piangere le loro perdite e dovrebbero tenere a bada i ragazzi o i familiari e tutti coloro che pensano di far bene cercando di evitare questa manifestazione di tristezza.

Il processo di lutto nelle persone anziane può esprimersi in maniere diverse:
– dimenticarsi di prendere le medicine;
– rifiutare di mangiare;
– incapacità di decidere che fare;
– rimuginare sull’incidente occorso.

Talvolta la reazione iniziale delle persone anziane è di dire che “tutto va bene”, ma ciò può essere una falsa impressione; queste persone hanno in realtà bisogno di aiuto per superare le perdite. E’ allora che gli operatori del soccorso rivestono un ruolo molto importante prestando loro un ascolto attivo.

 

 

 

Già pubblicato in:
V. Tripeni – La gestione dell’emergenza. I rapporti con la cittadinanza nel corso di eventi critici sul territorio. Il ruolo degli amministratori pubblici durante l’emergenza
Dispensa del corso FORMEL, Venezia, 21 settembre 2007

Emergenze, eventi critici e situazioni di disagio

Le situazioni nelle quali le persone si ritrovano a confronto di eventi critici, sono molteplici e possono presentarsi in modo diverso, secondo gli agenti scatenanti il fatto e le conseguenze dirette e indirette. Sia nel caso si tratti di un processo di “vittimizzazione primaria”, in cui le persone si trovano loro malgrado a subire conseguenze dirette, sia che riguardi un “coinvolgimento di servizio” in qualità di operatori del soccorso o dell’emergenza. In ambedue i casi concorrono diversi elementi comuni:
– il contenuto emotivo/affettivo dell’esperienza;
– la percezione e la valutazione del rischio;
– la gestione della comunicazione e l’elaborazione delle informazioni, in stretta relazione con la “presa della decisione” e la “motivazione” delle persone coinvolte.

In ogni caso influiscono anche le caratteristiche ambientali, perché freddo, caldo, altitudine, umidità, ecc., possono avere conseguenze fisiopatologiche che, oltre a comportare eventuali patologie specifiche, interferiscono in ogni caso con le condizioni psicologiche e sociali delle persone coinvolte.

1. Gli eventi naturali
Per quanto riguarda il coinvolgimento della popolazione, in genere gli eventi critici possono essere classificati come attesi e non attesi. Ad esempio, chi si confronta con il rischio e il pericolo in modo continuativo (pensiamo a tutti gli sport cosiddetti “estremi”) sa che può aspettarsi da un momento all’altro di rimanere coinvolto in una situazione critica. Invece chi, ad esempio, si trova coinvolto in un terremoto non ha certo previsto ciò che gli sarebbe capitato.
Su un altro versante, vi sono quelli che si confrontano con i rischi in quanto “implicati per scelta”. Come nel caso del personale dei servizi di soccorso e emergenza, oppure le forze dell’ordine. Che sebbene abbiano accettato di correre dei rischi scegliendo quella professione, possono trovarsi di fronte a situazioni che non hanno provocato, né alimentato o sostenuto e tantomeno auspicato.
Oltre alle diverse modalità di far fronte all’evento, teniamo conto anche della distinzione tra evento critico d’origine naturale ed evento critico di origine umana (accidentale o volontaria). Che segna anche il punto di svolta indispensabile per una efficace comprensione dei fenomeni fisiopatologici, eziopatogenetici e clinici correlati con l’evento o gli eventi.

Quali sono i fattori di maggiore nocività degli eventi critici d’origine naturale?
Il pericolo, talvolta l’isolamento (inteso anche come mancanza di informazioni), la condizione di profugo degli sfollati e degli evacuati, le condizioni di vita dei soccorritori nel corso di missioni di lunga durata. Queste sono alcune variabili che influiscono più o meno a lungo termine sulle persone coinvolte.
La eventuale aggressività fisica delle vittime e talvolta dei soccorritori, potrebbe avere relazione con l’aggressività derivante dagli effetti patogeni dell’evento traumatico, soprattutto presso le persone con una non sufficiente capacità di coping .
Nel contesto sociale possono emergere delle manifestazioni comportamentali, legate al panico ad esempio, ma anche esordi psicopatologici, come nel caso della nevrosi traumatica. Tutto ciò avrà degli effetti anche sugli operatori che, indipendentemente dalla gestione iniziale della situazione, rischiano di ritrovarsi a confronto con ulteriori eventi di cui essi potrebbero essere contemporaneamente i gestori, i soccorritori, ma anche gli attori passivi e le vittime.

Le catastrofi e gli incidenti
Il termine catastrofe è attualmente inteso nel senso di situazione accidentale grave, collettiva, che ha origine naturale e/o artificiale. La catastrofe si definisce essenzialmente come un evento che risulta dannoso per la collettività umana che la subisce.
Sono molteplici gli elementi caratterizzanti una catastrofe:
coinvolge la collettività;
– ha caratteristiche di brutalità, di accadimento inaspettato;
– è un evento non abituale;
– provoca danni e distruzioni di massa.
Louis Crocq, uno dei massimi esponenti della psicotraumatologia, nel 1987 ha aggiunto a questa descrizione la nozione di perturbazione sociale, di alterazione dei sistemi sociali funzionali (evidenziando in questo modo le caratteristiche della “criticità”).
Gli eventi critici classificati come “catastrofe naturale”, citati dalla letteratura scientifica, possono essere raggruppati:
– in rapporto con gli elementi geologici: eruzione vulcanica, frana, sisma, erosione, straripamento;
– in rapporto agli elementi climatici: tempeste, trombe d’aria, uragani, cicloni, maremoti, inondazioni, siccità, variazioni termiche, ecc.
– in relazione alla popolazione: malattie endemiche, epidemie, sovrappopolazione, carestie, ecc.
– invasioni animali: cavallette, termiti, topi, ecc.

2. Gli eventi di origine antropica
Sono direttamente dipendenti dal fattore umano e i loro effetti psicopatologici sulle vittime dirette e le “professioni a rischio” si presenteranno in modo diversi dai precedenti. Dal momento che, il fattore (umano) scatenante, diretto o indiretto, volontario o involontario, orienterà il pensiero delle persone direttamente e/o indirettamente coinvolte, a una logica fondata su un’opposizione radicale di vero e falso, bene e male (o bianco o nero) e alla loro moralistica opinione personale sul caso.
Ad esempio:
– “ non è possibile che un essere umano faccia una cosa simile! ”
– “ io non sarei capace di arrivare fino a quel punto! ”
– “ perché non ci difendiamo da tali comportamenti? ”

In generale, è possibile raccogliere schematicamente in due gruppi gli eventi critici imputabili all’uomo:

1. Quelli non voluti direttamente, risultanti dalla civiltà industriale e in relazione con:
– la terra: rottura di dighe, negligenze di natura ambientale, contaminazione radioattiva, ecc.;
– l’aria: piogge acide, esplosioni, nubi radioattive, smog;
– il fuoco: origine elettrica, chimica, vapori pericolosi, combustioni spontanee;
– l’acqua: contaminazione delle falde, marea nera, siccità, ecc.;
– la popolazione: incidenti di lavoro, incidenti causati dalla folla durante le partite di calcio, sommosse, incidenti marittimi, ferroviari, aerei.

2. Quelli voluti direttamente: il cui effetto psicologico avrà intense ripercussioni nel momento in cui le persone coinvolte e il “professionista” prendono coscienza del potenziale aggressivo e distruttivo dell’azione posta in essere:
– che chiamano in causa un numero limitato di individui: ingorghi, aggressioni urbane, presa di ostaggi, attentati, dirottamento di aerei, incendi, estorsioni criminali attraverso l’uso di virus o di veleni, violenze familiari;
– coinvolgenti un numero elevato di individui che agiscono contemporaneamente: guerre, guerriglie, guerre civili, terrorismo di stato, sommosse scatenate volontariamente da agitatori con l’obiettivo di destabilizzazione sociale, deportazioni, genocidi.

3. I fattori che possono innescare effetti dannosi

Il pericolo
Le persone coinvolte da un evento critico di particolare gravità si confrontano con il pericolo a diversi livelli e in diverse situazioni, sia di origine naturale che antropica. In tutti i casi, la risposta al pericolo corrisponde a una mobilitazione della vigilanza, che nelle persone ben adattate o ben preparate, comporterà conseguenze fisiche o psichiche minori.
Ciò che si dovrà temere, nel lungo periodo, è l’esaurimento delle risposte adattive in possesso di ciascun individuo (e diverse da individuo a individuo), un esaurimento contemporaneamente psichico, neurosensoriale e fisico, che porta ad abbandonare la lotta e cadere nella depressione.

L’isolamento
Parola diversa da “solitudine”, può ingenerare comportamenti aggressivi o depressivi. I professionisti impegnati in particolari interventi di soccorso possono essere a confronto con questa particolare situazione. Quella di ritrovarsi isolati, cioè vivere durante un lasso di tempo lontano dal mondo abituale e delle proprie radici. Ad esempio in occasione di un soccorso in montagna, in ambienti ostili, in occasione di grandi catastrofi (terremoti, eruzioni) i nostri operatori, anche se sono in gruppo, possono incontrare situazione di stress direttamente legate a questo isolamento, che viene ad aggiungersi agli altri parametri relativi alle criticità.
Le frustrazioni affettive, sociali, la perdita del contesto abituale di vita, delle relazioni amicali, familiari, del confort di vita elementare, la rottura dei ritmi circadiani rappresentano una pressione reale. La mancanza di stimoli abituali può innescare un rimuginio di idee e di problemi non risolti.
Situazioni simili si presentano nel corso di una prolungata assenza di informazioni che restituiscano un quadro comprensibile della situazione in cui si è direttamente coinvolti.

Il confinamento
Riguarda soprattutto le operazioni di soccorso di lunga durata, il confinamento può favorire l’emergenza di conflitti interpersonali con formazione di sottogruppi di opposizione.
Un argomento specifico o una critica diventano l’oggetto di sviluppi immaginativi poco razionali che traggono il loro alimento e la loro crescita da essi stessi, finché un qualche stimolo esterno non viene a cambiare il motivo di interesse.
Talvolta mal tollerato a livello individuale e fonte di manifestazioni patologiche, il confinamento può essere anche mal sopportato a livello di gruppo, il quale cessa di essere operativo oppure si rivolta contro il leader o contro l’autorità lontana dalla quale dipende (Bluth, 1979; Rivolier, 1979).
Del resto, è frequente, nelle condizioni estreme, che il dialogo risulti difficile per incomprensione reciproca tra il campo delle operazioni e i lontani responsabili.
Anche in questo caso la mancanza o la scarsità di informazione, comunicazione e relazione, con chi “ha in mano” il punto della situazione, risulta fonte di confinamento e di stress.

Le specifiche attività
Se lo stress originato dalla situazione differisce enormemente secondo i casi configurati, non è da meno il fatto che l’ambito lavorativo è all’origine di scariche aggressive che esprimono le difficoltà di adattamento della persona: il materiale non va bene o non è adatto, il procedimento non è idoneo, l’impiego del tempo è impossibile da rispettare, ecc. Spesso (e talvolta superficialmente) si è tentati di dare un’interpretazione psicopatologica realistica rispetto al momento. Ma non è raro appurare che la rivendicazione espressa in quella circostanza si fondi sulla realtà incombente.

Trasformare le disfunzioni e gli elementi critici in esperienze pro-positive

Star bene con se stessi e con gli altri è certamente un obiettivo ambizioso e faticoso da raggiungere, ma perseguibile con facilità proprio partendo dal presupposto che è un diritto dovere curare e confortare il proprio stato d’animo.

E dato che il benessere psicologico di ciascuno di noi dovrebbe essere considerato il nucleo fondamentale e indispensabile per una buona qualità della vita, ad esso dovrebbe essere conferito il giusto merito ed attribuito un adeguato valore.

Proprio per questo, chi si trova nella condizione di voler richiedere un supporto psicologico, ma non ha le possibilità economiche per conseguire tale obiettivo privatamente e deve purtroppo confrontarsi con liste d’attesa lunghissime per accedere ai servizi pubblici, va aiutato.

Dobbiamo essere consapevoli che, in tema di salute e qualità della vita, il lavoro – inteso in senso lato come investimento di energie personali per il conseguimento di un determinato fine – è innanzitutto una fonte di riconoscimento individuale e, di conseguenza, con un forte impatto sulla nostra identità sociale.
Se proviamo a renderci conto che viviamo la maggior parte della nostra giornata immersi nelle nostre attività di lavoro, non possiamo nasconderci che attualmente la qualità della nostra vita è rappresentata soprattutto dalla qualità della vita professionale; cioè dalla qualità del lavoro (sia quando c’è lavoro che quando non c’è).

Viviamo già da tempo una mutazione “genetica” nelle nostre condotte di lavoro. In alcune circostanze possiamo verificare una vera alterazione dei parametri qualitativi della nostra vita e sono presenti nuove disfunzioni che attualmente stanno affliggendo la salute delle persone.
Da una parte vi sono problematiche di tipo “fisico”: disturbi molto spesso cronicizzati e in stretto rapporto con la fatica mentale e lo stress; dall’altra sono evidenti le problematiche di natura “psichica” o “mentale”, derivanti da un non armonico rapporto con se stessi, i propri colleghi, i dipendenti, il lavoro e il ruolo.
Si tratta di campanelli d’allarme che mostrano molto chiaramente la necessità di una riflessione sulla salute al lavoro nell’attuale clima di accresciuta competizione e di cambiamenti nei modelli di occupazione e trasformazioni nelle pratiche professionali.

Con sempre maggiore frequenza oggi proviamo una certa inquietudine per le conseguenze di modelli organizzativi e di procedure di lavoro che sembrano aumentare soprattutto la gravosità dei carichi mentali.
Alla richiesta di fare presto, meglio e a meno costi, le aziende e le organizzazioni sono costrette a introdurre nuove pratiche e procedure organizzative che comportano l’assunzione di compiti nuovi e più impegnativi per le persone che vi lavorano.
Le difficoltà e i problemi nuovi, sono segnali che impongono di aggiornare i nostri strumenti professionali i quali, naturalmente, coinvolgono a vario livello specifiche competenze e professionalità.

Questo presuppone che venga posta una attenzione più marcata alla “socializzazione” della psicologia, che essa non resti solo appannaggio degli esperti, ma faccia parte delle competenze di base di ogni individuo: per la vita quotidiana, per il lavoro, per le relazioni che essa vorrà intessere.

Da qui la necessità di trasformare le disfunzioni e gli elementi critici emergenti in esperienze pro-positive, avviando interventi di formazione e di ricerca adeguati alle mutate condizioni.

La psicologia e gli psicologi non sono esclusi in queste trasformazioni. Perché ormai qualsiasi intervento di promozione della salute, qualsivoglia attività di prevenzione in fatto di salute, non può prescindere dalla cultura della psicologia
La psicologia ha davanti a sé una lunga strada di continua ricerca azione, un costante “cimento” che offrirà a ciascuno la opportunità di sentirsi al passo con le evoluzioni dei bisogni professionali autodiretti ed eterodiretti.

In questo faticoso momento dell’emergenza Coronavirus (in cui è forte anche il pericolo di una pandemia mentale) si parla spessissimo nei mass media soprattutto del disagio esistenziale, ma sono poco diffuse le conoscenze su quanto si può fare e si fa per promuovere il benessere psicologico.

La nostra iniziativa per promuovere il benessere psicologico si basa sulla convinzione, ormai diffusa, che il migliore modo di prevenire il malessere delle persone non è quello di intervenire direttamente su di esso, ma di perseguire iniziative volte a potenziare abilità fondamentali per l’adattamento nei diversi contesti di vita.

Le condizioni di autoefficacia in questo caso costituiscono gli indicatori più possibili di tali capacità e pertanto rappresentano fondamentali determinanti del benessere delle persone.
Occorre considerare gli individui come agenti attivi del loro sviluppo, perché essi sono in grado di trarre vantaggio dalle relazioni con se stessi, gli altri, il lavoro, la famiglia, ecc.

Ciò che contraddistingue le condinzioni di autoefficacia delle donne e degli uomini è la loro specificità: tali condinzioni variano in relazione alle diverse aree del funzionamento umano ed in relazione ai diversi ambiti in cui si declina l’esperienza individuale.
Molti studi, anche nel contesto italiano, hanno sottolineato l’importanza del senso di autoefficacia, nelle sue diverse articolazioni relazionali, nel promuovere il benessere psicologico ed ostacolare le condizioni di rischio.

Lo psicologo è in grado di fornire suggerimenti di indirizzo e intervento, per agevolare nelle persone le abilità cognitive, emotive ed interpersonali indispensabili per il loro benessere. Aiuta a riconoscere che le strategie proattive possono agevolare il benessere psicologico, legato alla attività lavorativa, all’allevamento dei figli, ecc.
Mettendo in evidenza che esse svolgono un ruolo importante anche sulla collaborazione e l’aumento di engagement dei collaboratori.
Prende parte attiva nella eliminazione di pregiudizi sul disagio psichico e facilita lo scambio di buone pratiche per agevolare nelle persone abilità cognitive, emotive ed interpersonali indispensabili per il loro benessere.
Rendendo così evidente che è sempre più necessario tener conto dei bisogni più esplicitamente e dichiaratamente psicologici e spirituali, per mantenere una sana e soddisfacente qualità della vita.

Nuove forme di lavoro e nuove esigenze cognitive

Qual è l’impatto delle tecnologie digitali dell’informazione e della comunicazione sulla qualità della vita e del lavoro? Il loro uso è ormai inevitabile. Proprio per questo è necessario conoscere gli eventuali effetti dirompenti nei confronti del benessere e della qualità della vita al lavoro.

Ognuno può rendersi conto in ogni momento, qualunque cosa stia facendo, che l’uso delle ICT ha determinato una notevole riconfigurazione delle pratiche quotidiane e una definizione del quadro di riferimento delle attività e delle competenze nel lavoro. Queste trasformazioni sono accompagnate da nuove sollecitazioni, ad esempio la necessità di elaborare in pochissimo tempo le informazioni ricevute o l’urgenza di organizzare la valanga di dati che ogni giorno richiamano la nostra attenzione. Portano con sé anche delle opportunità tra le quali la possibilità di gestire meglio il proprio orario di lavoro. Ma soprattutto hanno dato vita a nuovi profili di attività professionali caratterizzate da forme inedite di organizzazione del lavoro e una notevole dominanza delle tecnologie digitali.

Accelerazione digitale
In questi ultimi anni l’accelerazione del ritmo dei cambiamenti è in costante crescita a causa delle continue innovazioni e conseguente messa a punto di soluzioni tecnologiche. Si tratta di processi di implementazione che innovano le modalità di azione e di apprendimento di chi usa le tecnologie e che, a volte, generano evidenti situazioni dirompenti nell’ambito del loro utilizzo. Soprattutto perché esse richiedono una ristrutturazione radicale dell’esperienza dell’utilizzatore, in quanto elicitano nuovi modi di fare, di pensare, di organizzare le attività e mantenere vive le collaborazioni. Ragion per cui è necessario inventare nuovi modelli organizzativi e socio-cognitivi per lavorare con gli strumenti digitali e, allo stesso tempo, tenere conto che l’uso delle tecnologie può avere effetti sulla salute e il benessere di chi le usa.

Gli studi scientifici e le ricerche empiriche hanno messo in evidenza l’emergere di collegamenti tra le condizioni di lavoro, in cui le ICT svolgono un ruolo importante, e la salute di chi lavora. Diventa pertanto importante tenerne conto, soprattutto per motivarci ad analizzare ancora più in profondità il ruolo delle ICT rispetto alla salute e alla qualità della vita e del lavoro.

Ad esempio, il tempo e le risorse liberate grazie all’uso delle ICT possono essere investite in occupazioni che producono maggiore valore aggiunto e sono più stimolanti. Tuttavia, mentre le tecnologie possono migliorare il lavoro e riqualificare la professionalità, esse tendono anche a snaturare il lato umano dell’attività e a sviare la persona che lavora da tutto ciò che ha senso per essa; per esempio: le pratiche e i contatti professionali, oppure i margini individuali di manovra e la relazione che ha con il “suo” lavoro. La mediatizzazione tecnologica dell’attività può dunque correre il rischio di svolgersi in danno della salute di chi lavora e della qualità della vita al lavoro perché ha un impatto sulla struttura psichica della persona.

Come si diceva, in questo costante processo di cambiamento alimentato dalle continue innovazioni tecnologiche, possiamo mettere in evidenza anche una certa varietà di destabilizzazioni. Si tratta di cambiamenti costanti che influenzano la struttura e il contenuto delle decisioni e delle comunicazioni e di conseguenza influenzano i tradizionali parametri di riferimento dello spazio e del tempo di lavoro. Mentre nello spazio (di lavoro), le ICT hanno completamente smaterializzato la relazione dei dipendenti con il proprio ufficio, l’azienda, la famiglia e la vita privata; tanto che i confini tra i diversi tipi di ambito sono divenuti permeabili, se non addirittura scomparsi. Nella prospettiva temporale, dato che l’orario di lavoro è sempre più scandito dal tempo (velocissimo) degli strumenti tecnologici e il ritmo batte la misura al nanosecondo, l’immediatezza diventa la modalità prevalente di organizzazione della vita professionale e sociale. In questo caso, il tempo umano è diventato tempo della processazione che rimpalla sull’aumento del carico di lavoro. Ciò che può essere brevemente definito come la relazione tra sollecitazioni e capacità che possono essere mobilitate dall’individuo. In questo caso, cresce in modo esponenziale il volume dei dati (in quantità e qualità) ragion per cui il lavoro subisce una compressione dovuta alla maggiore quantità di informazioni da gestire e, allo stesso tempo, l’attività si intensifica con l’accelerazione del ritmo di lavoro e delle sequenze di lavoro. Rapidità delle comunicazioni, immediatezza della risposta e reattività della persona diventano così alcune delle caratteristiche del compito smaterializzato. Il riflesso sostituisce la riflessione e la simultaneità delle attività diventa una condotta pregnante dell’attività mediatizzata. E’ quanto risulta, in modo ben evidenziato e documentato, proprio dagli studi specialistici. L’accumulo di compiti in corso, avviati, ma mai completamente completati, si sta dimostrando estenuante e, allo stesso tempo, angosciante. Il dipendente si disperde in compiti concorrenti e contemporanei che deve gestire secondo le sollecitazioni tecnologiche per progredire nonostante tutto nel lavoro.

Frammentazione e destabilizzazione
Si tratta di situazioni marcate da continui disapprendimenti e/o riapprendimenti, che sono cognitivamente estenuanti e professionalmente molto destabilizzanti, in grado addirittura di imporre le regole di condotta e di lavoro perché strettamente associate all’uso degli strumenti digitali. In questi casi, parliamo anche di stress associato alle paure, le ansie, le frustrazioni provocate dalla introduzione e dall’uso delle tecnologie sul lavoro.

Gli artefatti tecnologici guidano e scandiscono il lavoro, pongono frequenti sollecitazioni. Interrompono il lavoro, determinano le modalità di azione e gli impieghi del tempo (ad esempio, attraverso le agende condivise), orientano e costantemente reindirizzano azioni e compiti da realizzare (al esempio, attraverso la messaggistica sincrona e asincrona). Tutti casi in cui i dipendenti si sentono privati della loro capacità di agire e prendere decisioni sulla propria attività. Di fronte a queste interruzioni permanenti, il lavoro è frammentato e ridotto a micro-compiti che devono essere costantemente raccordati per ritrovarne il senso. Si ha allora la sensazione di perdere il controllo del proprio lavoro per subire ciò che impone il sistema. Alla fine, ci si trova davanti a un lavoro che richiede sempre più frequentemente di affrontare gli imprevisti e raccordare i compiti frammentati, vale a dire un lavoro sul lavoro. Che potremmo anche definire un “meta-lavoro”.

Sottoposto a tale frammentazione, l’individuo è dunque obbligato a ridefinire costantemente l’organizzazione e le priorità della sua attività per dare una parvenza di coerenza e raggiungere i suoi obiettivi professionali.

In questa attività spezzettata, ognuno deve sapere come gestire il passaggio tra i diversi frammenti di attività, e anche tra i diversi mondi professionali ad esso collegati e in cui si ritrova proiettato secondo le sollecitazioni della tecnologia digitale.

Propongo un quadro emerso da una ricerca pubblicata recentemente. Si tratta di una dirigente che si trova ad assumere, nello spazio di qualche decina di minuti, ruoli e responsabilità diverse. Cioè, svolgere il ruolo di responsabile della comunicazione, del project manager, collaborare a un altro progetto, essere cliente di un fornitore, collega … ecc. Ove ogni contesto professionale è stato avviato da una interruzione tecnologica (mail, smartphone, strumenti collaborativi, agenda condivisa, ecc.) e ha richiesto specifici riferimenti commerciali: conoscenza del vocabolario dedicato, implementazione di un particolare know-how, padronanza degli strumenti e metodi appropriati, conoscenza degli obiettivi di ciascun progetto e loro temporalità, posizionamento e ruolo sociale appropriato. Alla fine, la dirigente doveva essere in grado di adattarsi permanentemente a questa “poli contestualità professionale”. In questo caso diventano necessarie capacità cognitive specifiche (gestione della dispersione, contestualizzazione, anticipazione, articolazione delle differenze, organizzazione, ecc.) In modo che l’attività possa raggiungere un obiettivo che si trova oltre l’assemblaggio caotico di frammenti dispersi di lavoro. In assenza di tale impegno di articolazione, il rischio è che l’attività perde il suo significato, si svuota della sua sostanza e alla fine scoraggia l’individuo che è costretto a confrontarsi con una serie di attività frustrate e frustranti, incomplete o prevenute, in breve a un lavoro che gli sfugge e in cui non si riconosce.

Tutto ciò – possiamo comprenderlo – rappresenta una fonte di malessere per le persone e, di conseguenza, può avere un impatto non positivo sulla qualità della vita al lavoro.

 

* L’autore può fornire – a richiesta – ulteriori informazioni ed eventuale documentazione bibliografica, nonché pareri specialistici sullo specifico argomento