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La linea d’ombra nella continuità dell’azienda familiare

Lasciare il timone è un’impresa eroica; il senior che lo cede compie un grande sacrificio. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquisire credito e ispirare fiducia, hanno sostenuto nel tempo gli investimenti d’energie e di capitali; allo stesso tempo hanno reso la sua vita un viaggio interessante ed avventuroso. In futuro sarà tutto diverso per lui.

Chi sarà chiamato a succedergli, ancora prima di assicurare continuità all’azienda e dare inizio ad un nuovo ciclo d’espansione, dovrà attraversare la sua linea d’ombra. Si troverà da una parte a sentirsi in obbligo di garantire la continuità aziendale – perché non è certo utile ad alcuno che l’azienda perda valore – dovendo allo stesso tempo assumersene le responsabilità.

Dall’altra parte proverà sentimenti ed emozioni contrastanti come ha descritto efficacemente in una bella canzone il cantante Jovanotti (cfr. La linea d’ombra, nell’album “l’albero”).

Egli da voce ad un giovane a cui è affidato un incarico di responsabilità e per la prima volta nella vita si trova a considerare quello che lascia e a non sapere immaginare ciò che troverà.
Incaricato di portare una “nave” verso una rotta che nessuno conosce in dettaglio e in un momento di stabilità precaria, egli considera quanto è più facile stare in mare se sono gli altri a far la direzione.

Gli è stato detto “che una nave ha bisogno di un comandante, che la paga è interessante e che il carico è importante”. Il pensiero della responsabilità però è enorme.

Quella del giovane protagonista – narra la canzone – è un’età in cui si sa come si stava e non si sa dove si sta andando e che cosa si sarà. Nella quale la dimensione delle responsabilità che si hanno nei confronti degli esseri umani che ti vivono accanto non è ancora ben chiara. Un’età dove ogni mossa “può cambiare la partita intera e si ha paura di essere mangiato”.

In cui non si sa ancora cos’è il coraggio, “se prendere o mollare tutto, se scegliere la fuga o affrontare questa realtà difficile da interpretare ma bella da esplorare”.

Tuttavia, pur non potendo ancora immaginare cosa avverrà, una volta “attraversato il mare e portato questo carico importante a destinazione”, quel timoniere accetterà un compito così sfidante e dirà che è pronto a partire. Studierà le carte e quando sarà il momento dirà “levate l’ancora diritta, avanti tutta: questa è la rotta, questa è la direzione, questa è la decisione”.

Tornando al passaggio del timone aziendale, dobbiamo riconoscere che in realtà è del tutto assente, nell’agire di molte aziende familiari, la definizione di obiettivi e modalità per raggiungerli e verificarli. Appare spesso inconcepibile, per l’imprenditore che vuole cedere il comando, riflettere sulla opportunità di pianificare una successione sulla base di una ponderata valutazione della strategia aziendale, delle deleghe da assegnare, delle competenze necessarie per raggiungere quegli obiettivi.

In un modo del tutto implicito, un senior si aspetta che anche i successori, da lui immaginati identici per competenze e conoscenze, riusciranno nell’impresa così come lui è riuscito a raggiungere il successo, superando le prove e gli ostacoli insiti nel proprio percorso imprenditoriale.

Quest’implicita riflessione o, meglio, attribuzione di senso e significato, porta il senior ad organizzare per il successore o i successori delle prove di ingresso che riecheggiano quelle alle quali egli è stato sottoposto in giovane età e che ritiene “naturale” far passare anche ai successori. Nell’inconscio tentativo di guidare il destino del figlio/figli, quasi fosse il prolungamento di quello proprio e in una dinamica emotiva, già nota alla psicologia sociale dalla seconda metà del secolo scorso, che Heider (1958) aveva definito con il termine Fundamental Attribution Error.

Ciò rappresenta un elemento di criticità, in quanto pone un insieme di problemi nei rapporti interpersonali e scarsa chiarezza di ruoli. Generando spesso, nella fase del passaggio generazionale e anche successivamente, conflitti a partire dalla omogeneità/eterogeneità degli schemi cognitivi (i cosiddetti assunti di base) delle persone in gioco e delle loro rappresentazioni della realtà e delle evoluzioni future.

Pertanto, non si tratta più semplicemente di un “ricambio” o “passaggio” generazionale quanto di una “integrazione” di generazioni; o, meglio, di una mediazione di punti di vista legittimamente differenti), volta a definire un piano di Sviluppo Generativo Competitivo, capace di creare nuove opportunità e nuove ricchezze per l’azienda e la famiglia.

Allora si, il nuovo timoniere finalmente potrà dire: “levate l’ancora diritta, avanti tutta: questa è la rotta, questa è la direzione, questa è la decisione”.

1 – Un equilibrio costantemente instabile

La nostra, continua a essere l’epoca delle mutevoli (instabili) esigenze del mercato, della cosiddetta deregulation delle forme d’impiego, della “complessità”, della flessibilità e … della precarietà. Un’epoca in cui: l’incertezza per l’avvenire, l’intensificazione dei ritmi, la velocità degli adeguamenti, i conflitti, ecc., nuocciono alla costruzione identitaria dell’individuo e al suo equilibrio fisiologico e psicologico.

È in atto, ormai da tempo, una profonda trasformazione delle condizioni di lavoro, in tutti i settori di attività, completamente trasformati dall’impiego di nuove tecnologie e dal conseguente cambiamento dei modelli di produzione.

Tutto ciò – era già chiaro molti anni fa, se considerato dal punto di vista della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro, continua a determinare “la comparsa di nuovi rischi, e induce una progressiva modificazione dei modelli tradizionali di esposizione al rischio. La mutata organizzazione del lavoro, la comparsa e il rapido incremento di nuove tipologie di lavoro flessibile e le diverse caratteristiche della forza lavoro, introducono modifiche nella distribuzione e diffusione dei rischi” (era scritto nel Piano Sanitario Nazionale 2003-2006).

Non è possibile distogliere lo sguardo su questi fenomeni ormai connaturati con la nostra vita ed è opportuno rimanere aggiornati sulla realtà rappresentata dai problemi psico-sociali correlati al lavoro, mantenendo viva ed efficiente una cultura partecipata del rischio. Per attivare, attraverso un sistema dinamico di valutazione, l’adozione di provvedimenti adeguati. Sapendo che la prevenzione dello stress e dei rischi psico-sociali correlati al lavoro, è strettamente legata alla realizzazione di un ambiente di lavoro sano. Senza dimenticare che la soluzione di un problema non consiste semplicemente nella “rimozione” dei fattori di rischio, ma piuttosto nel combinare cambiamenti basilari e preventivi a diversi livelli, allo scopo di creare una vita lavorativa più sana e, allo stesso tempo, maggiormente remunerativa delle attese materiali e immateriali di tutti gli stakeholder.

 

 

Quanto precede appartiene a una raccolta di appunti:

1 – un equilibrio costantemente instabile

2 – Stiamo vivendo una “mutazione genetica” delle nostre abitudini

3 – Comparse in una commedia di cui non siamo né registi né sceneggiatori

4 – Ritmo e intensità invece di fluidificare le attività di lavoro, le rendono spesso stressanti, pericolose e angosciose

5 – Una caratteristica importante del lavoro d’oggi è che l’equilibrio tra routine e problemi da risolvere è stato interrotto

6 – Tener conto dei rischi psicosociali

7 – Un’organizzazione e un ambiente di lavoro sani e sicuri sono fattori che migliorano le prestazioni

8 – la promozione della salute organizzativa

9 – Bibliografia di riferimento

Che costituiscono l’Introduzione alle lezioni del 31 marzo, 5 e 7 aprile 2014) del corso di Psicologia delle relazioni all’Università Cattolica di Milano (Facoltà di Economia)

Il front-line del benessere organizzativo – Attori, fattori strutturali e processi, nella gestione del rischio psico-sociale”.

2 – Stiamo vivendo una mutazione “genetica” delle nostre abitudini lavorative.

Ci troviamo immersi in cambiamenti, molto profondi, nella quotidianità di ciascuno di noi, ed è necessario rendercene conto. Perché i segnali che sottolineano tali trasformazioni sono molto evidenti: frammentazione, segmentazione, individualismo, ritorno a una lotta selvaggia (competitività-conflittualità) per la sopravvivenza, sfiducia, paura, ecc. Tuttavia, il lavoro rimane un elemento centrale della nostra vita e della nostra salute, senza dimenticare che anche oggi si “soffre”; al lavoro di lavoro si “muore”, sia quando c’è e sia quando non c’è; in uno scenario di regressione sociale in cui diventa molto urgente dare un senso al malessere che invade il nostro quotidiano.

 

 

 

 

Quanto precede appartiene a una raccolta di appunti:

1 – un equilibrio costantemente instabile

2 – Stiamo vivendo una “mutazione genetica” delle nostre abitudini

3 – Comparse in una commedia di cui non siamo né registi né sceneggiatori

4 – Ritmo e intensità invece di fluidificare le attività di lavoro, le rendono spesso stressanti, pericolose e angosciose

5 – Una caratteristica importante del lavoro d’oggi è che l’equilibrio tra routine e problemi da risolvere è stato interrotto

6 – Tener conto dei rischi psicosociali

7 – Un’organizzazione e un ambiente di lavoro sani e sicuri sono fattori che migliorano le prestazioni

8 – la promozione della salute organizzativa

9 – Bibliografia di riferimento

Che costituiscono l’Introduzione alle lezioni del 31 marzo, 5 e 7 aprile 2014) del corso di Psicologia delle relazioni all’Università Cattolica di Milano (Facoltà di Economia)

Il front-line del benessere organizzativo – Attori, fattori strutturali e processi, nella gestione del rischio psico-sociale”.

3 – Comparse in una commedia di cui non siamo né registi né sceneggiatori

È vero, noi possiamo fare qualcosa, produrre qualcosa, lasciare la nostra impronta nelle cose che facciamo, ma il problema è che le cose che si fanno – quasi sempre – sono calate in modelli di organizzazione e in ritmi temporali che non dipendono dalla nostra volontà. Anzi molto spesso non abbiamo neanche coscienza di essere coinvolti in quei meccanismi, ruote di un ingranaggio che funzionano “indipendentemente dalla nostra esistenza e volontà”. Siamo “delle comparse in una commedia di cui non siamo né registi né sceneggiatori”. Siamo “non persone” in un mondo fatto di “non persone”, volti che non riescono a far venire in superficie quella parte di unico e distinguibile che è la personalità (P. Rotta, 1996)

Non è quindi esagerato chiedersi se in questa nostra epoca del fare presto e bene, della velocità e della precisione, della società ultramoderna o ipermoderna, i messaggi relativi alle politiche di qualità ed eccellenza, dell’accrescimento della produttività e del contrasto della concorrenza, non stiano “modellando” subdolamente i comportamenti delle persone, in privato, in famiglia, al lavoro e nel tempo libero. Tenendo presente che le “complessità”, i rapporti interpersonali che vengono vissuti nei contesti sociali, la crescita e lo sviluppo degli individui e delle organizzazioni, la qualità della vita delle persone e degli ambienti di lavoro, costituiscono un campo privilegiato di osservazione per la psicologia del lavoro e delle organizzazioni.

Ormai sono molte le persone che hanno l’impressione di non farcela più, di non avere abbastanza tempo per realizzare correttamente ciò che viene loro richiesto, di vivere continuamente nell’urgenza. I sentimenti si intensificano e incidono sulla percezione qualitativa del lavoro e influiscono sul senso da dare alla propria occupazione. Molti si chiedono se c’è un criterio in quanto stanno facendo e se vale veramente la pena di andare avanti in quel modo.

 

 

 

Quanto precede appartiene a una raccolta di appunti:

1 – un equilibrio costantemente instabile

2 – Stiamo vivendo una “mutazione genetica” delle nostre abitudini

3 – Comparse in una commedia di cui non siamo né registi né sceneggiatori

4 – Ritmo e intensità invece di fluidificare le attività di lavoro, le rendono spesso stressanti, pericolose e angosciose

5 – Una caratteristica importante del lavoro d’oggi è che l’equilibrio tra routine e problemi da risolvere è stato interrotto

6 – Tener conto dei rischi psicosociali

7 – Un’organizzazione e un ambiente di lavoro sani e sicuri sono fattori che migliorano le prestazioni

8 – la promozione della salute organizzativa

9 – Bibliografia di riferimento

Che costituiscono l’Introduzione alle lezioni del 31 marzo, 5 e 7 aprile 2014) del corso di Psicologia delle relazioni all’Università Cattolica di Milano (Facoltà di Economia)

Il front-line del benessere organizzativo – Attori, fattori strutturali e processi, nella gestione del rischio psico-sociale”.

4 – Ritmo e intensità invece di fluidificare le attività di lavoro, le rendono spesso stressanti, pericolose e angosciose

Ritmo e intensità invece di fluidificare le attività di lavoro, le rendono spesso stressanti, pericolose e angosciose. Sovente minacciano la salute delle persone e delle stesse organizzazioni.

Diversi lavori statistici confermano l’idea che esiste un legame tra intensità e condizioni di lavoro. Per quanto riguarda l’Unione europea, c’è ormai una ricca messe di studi che hanno fato seguito a quelli condotti da Green e McIntosh (2002) e da Boisard, Cartron, Gollac e Valeyre (2002).

Lavorare in condizioni sottoposte alla pressione del tempo, equivale a lavorare in uno stato di continua emergenza e ciò comporta un danno per l’organismo; che diventa ancora più incisivo nel caso il lavoro richieda particolare attenzione. L’urgenza, d’altra parte, modifica anche il modo di lavorare e la intensificazione del lavoro diventa una fonte di rischio per le persone e le organizzazioni (Green e McIntosh, 2002; Boisard, Cartron, Gollac e Valeyre , 2002).

È sempre più evidente l’insoddisfazione dei lavoratori nei riguardi del loro lavoro: impressione di non avere più energie per far fronte ai problemi, di non avere più il tempo necessario per svolgere correttamente il proprio lavoro, un sentimento invadente di vivere costantemente nell’urgenza del fare presto e bene. La percezione di questa intensificazione del lavoro si assomma a una dimensione più qualitativa, quella della perdita del senso del lavoro, di un dubbio sull’utilità di ciò che si sta facendo e del suo valore.

Chi oggi lavora, è portato ad apprendere o riapprendere condotte di lavoro, logiche di attività, strategie cognitive che rispondono alle esigenze del lavoro. Ma le persone devono ugualmente dimostrare capacità di inserimento nei nuovi modelli di organizzazione che si creano, pena la loro esclusione. Tutte queste metamorfosi esigono dunque un adattamento rapido dell’individuo, non soltanto nelle sue modalità di pensare e di fare le proprie attività, ma anche nelle modalità di interagire con il suo ambiente socio professionale.

Di fronte alle evoluzioni troppo numerose e troppo costose, in termini di investimenti delle risorse individuali, è grande dunque il rischio che gli individui sviluppino condotte di resistenza al cambiamento con lo scopo di preservare le loro precedenti acquisizioni.

 

 

 

Quanto precede appartiene a una raccolta di appunti:

1 – un equilibrio costantemente instabile

2 – Stiamo vivendo una “mutazione genetica” delle nostre abitudini

3 – Comparse in una commedia di cui non siamo né registi né sceneggiatori

4 – Ritmo e intensità invece di fluidificare le attività di lavoro, le rendono spesso stressanti, pericolose e angosciose

5 – Una caratteristica importante del lavoro d’oggi è che l’equilibrio tra routine e problemi da risolvere è stato interrotto

6 – Tener conto dei rischi psicosociali

7 – Un’organizzazione e un ambiente di lavoro sani e sicuri sono fattori che migliorano le prestazioni

8 – la promozione della salute organizzativa

9 – Bibliografia di riferimento

Che costituiscono l’Introduzione alle lezioni del 31 marzo, 5 e 7 aprile 2014) del corso di Psicologia delle relazioni all’Università Cattolica di Milano (Facoltà di Economia)

Il front-line del benessere organizzativo – Attori, fattori strutturali e processi, nella gestione del rischio psico-sociale”.