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Come affrontare gli effetti di due anni di epidemia di Covid-19 sulla nostra salute mentale?

Quali sono gli effetti psicologici di questi ultimi due anni fuori dal comune che sono appena trascorsi? Come comprenderne le implicazioni psicologiche?

Ho trovato una risposta a queste domande nella intervista che Pauline Bross ha rilasciato a Franceinfo il 23 gennaio 2022.

Pauline Boss, professoressa emerita all’Università del Minnesota (Stati Uniti). Autrice, tra gli altri, di Une présence teintée d’absence, ha sviluppato alla fine degli anni ’70 il concetto di perdita e di lutto ambigui. Nel suo ultimo libro, Le mythe de la page tournée : les pertes ambiguës en temps de pandémie et de changement ( The Myth of Closure-Ambiguous Loss in a Time of Pandemic and Change, Published by Norton Professional Books ), applica questo concetto ai due anni che abbiamo appena vissuto e tratteggia un quadro interessante per il nostro futuro.

 

Qual è il concetto di “perdita ambigua” di cui parli nel tuo libro?

Pauline Boss: Una perdita ambigua è semplicemente una perdita che non è chiara, che rimane oscura. Ci sono perdite fisiche ambigue, ad esempio persone che scompaiono durante una frana o un’inondazione. Non sei sicuro che la persona sia davvero morta. Hai anche delle perdite psicologiche ambigue, quando una persona è presente, di fronte a te, ma (il suo spirito) la sua mente è assente. Penso in particolare alle persone affette dal morbo di Alzheimer.

Come applichi questo concetto alla pandemia di Covid-19? Quali sono le “perdite ambigue” che abbiamo subito negli ultimi due anni?

Questo concetto, l’ho sperimentato io stessa durante la pandemia. Non riuscivo a vedere mio marito, che è stato ricoverato per un po’ in ospedale, né la mia famiglia. È una forma ambiguadi perdita fisica. Intorno a me, l’intera popolazione stava vivendo la stessa cosa. Non potevamo più vedere i nostri amici né la nostra famiglia, abbracciare i nostri cari. All’inizio della pandemia, le persone non potevano stare con i loro cari malati, dire loro addio prima di morire. È una forma di perdita ambigua, sia fisica che psicologica, che è devastante. Alcune famiglie delle vittime del Covid-19 non sapevano nemmeno dove fossero i corpi, le ceneri dei loro cari…

E poi, la perdita della nostra certezza di avere il controllo sulle nostre vite. Con la pandemia, la più grande perdita ambigua che abbiamo vissuto è questa perdita di certezza, di fiducia che il mondo sia un posto sicuro e prevedibile.

Nel tuo libro spieghi che “la perdita ultima (definitiva)” è questa consapevolezza di tutta l’incertezza che ci circonda dall’inizio della pandemia. Perché è così difficile da vivere?

La maggior parte dei paesi sviluppati è incentrata sulla padronanza, sul controllo delle cose. Pensiamo di poter controllare il nostro destino se lavoriamo abbastanza, se facciamo la cosa giusta. La pandemia di Covid-19 ci ha dimostrato il contrario: possiamo lavorare molto duramente e il virus può malgrado tutto metterci a terra. Non siamo abituati a questo. Ritroviamo sentimenti di paura, di incertezza sul futuro conosciuti durante la seconda guerra mondiale. Abbiamo un problema e non possiamo risolverlo immediatamente.

Quali sono secondo te le conseguenze psicologiche di questa “perdita definitiva”?

Dipende da come reagisci. Se sei una persona che ha costantemente bisogno di lucidità e controllo, c’è il rischio di arrabbiarsi, o addirittura di soffrire di disturbi depressivi. Questo può portare a conflitti familiari, per esempio. Altre persone, al contrario, la prendono con più filosofia. Dicono a se stessi: “Non ho il controllo su ciò che accade, quindi troverò qualcosa che posso, a mia misura, controllare”. Questi pensieri possono renderli più forti. Certo, possono sentirsi tristi o addirittura arrabbiati, ma questa è una reazione normale a una situazione che non lo è.

Secondo te, esiste un impatto diverso sulla nostra salute mentale tra le perdite più “classiche”, tra i lutti che normalmente viviamo e queste perdite e lutti ambigui?

Nel caso di perdite ambigue, il processo di lutto è come congelato. Questo è un processo molto complicato perché non puoi davvero fare il tuo lutto. Ad esempio, non sei sicuro se una persona sia viva o morta, quindi rimani nell’incertezza. Oggi potremmo aver perso una parte della nostra vita precedente. Forse stiamo cercando di fare il lutto per le nostre vite prima dell’arrivo del virus nel 2020.

Il fatto di aver perso contemporaneamente più persone e diversi elementi della nostra vita durante questa pandemia ha anche un impatto psicologico?

L’onere è ancora più pesante quando si ha una serie di perdite e l’accumulo di perdite ambigue è importante in questo momento. In questo caso lo sgomento è maggiore. Il livello di stress è molto alto per tutti noi attualmente. Questo carico di stress è senza precedenti per le generazioni che non hanno vissuto la seconda guerra mondiale.

Come descriveresti il ​​nostro stato psicologico oggi, dopo due anni di crisi sanitaria?

Osservo una certa divisione. La maggior parte delle persone prende le cose con molta filosofia, rimane ottimista e si è adattata. Queste persone possono essere di cattivo umore a causa della situazione, ma riescono a sorriderne. All’inizio pensavamo che questa crisi sarebbe passata in due settimane, poi in un mese o due. La gente diceva: “Mi isolo, rimango confinato, ma so che tutto questo finirà presto e la vita tornerà alla normalità”.

In realtà, la vita non è tornata alla normalità. L’unico modo per uscirne era essere più flessibili, più tolleranti nei confronti dell’ambiguità e dell’incertezza del momento. La maggior parte di noi lo è oggi. Allo stesso tempo, una minoranza rimane oggi molto rigida, nella negazione della scienza. Queste persone pensano che si tratti di uno scherzo, di un falso allarme. Non credono agli scienziati ed è molto pericoloso.

Quali sono, secondo te, i primi passi che possono aiutare a ridurre il nostro livello di stress legato all’incertezza del contesto?

Se ti senti stanco, stanco della situazione, una chiamata a una persona cara, un momento nella natura o nel tempo per ascoltare semplicemente la musica possono già aiutare. Allora avete bisogno di controllo. Abbiamo tutti bisogno di controllo nelle nostre vite. In questo contesto, cerca di trovare qualcosa che puoi ancora controllare, come cucinare per qualche ora. Il semplice atto di riordinare il tuo armadio può fare molto! Soprattutto quando non puoi controllare nient’altro.

Hai questi modi abbastanza passivi di far fronte, ma anche modi più attivi, come essere coinvolti in una causa. Devi fare quelle piccole cose che ti fanno stare bene, perché in questo momento qualcosa di molto più grande sta controllando le nostre vite.

Cosa possiamo imparare da quello che abbiamo passato negli ultimi due anni? Come possiamo superare le prove che abbiamo vissuto negli ultimi due anni?

Si tratta di cercare prima di tutto un senso alle nostre perdite, anche se queste sembrano non avere senso. Ad esempio, i genitori di un bambino che si è suicidato possono aiutare i giovani a prevenire ulteriori suicidi. Non si tratta di voltare pagina. Le persone che vi dicono di andare avanti si sbagliano: è molto difficile uscire completamente dalle perdite ambigue che abbiamo subito. Cercate invece di trovargli un senso. Scrivetele per rendervi conto di cosa avete perso e per vedere quali perdite sono state ambigue, incerte. È del tutto normale provare tristezza in questo contesto. La tristezza è un modo normale di affrontare il dolore, non dovrebbe essere combattuta.

Come superare il lutto in tempo di pandemia?

Molte persone sono già resilienti senza rendersene conto. La resilienza era l’unico modo per far fronte a ciò che ci stava accadendo. Siamo diventati flessibili: abbiamo indossato maschere, abbiamo praticato il distanziamento fisico e siamo rimasti in isolamento più spesso. D’ora in poi dobbiamo provare cose nuove per aumentare la nostra tolleranza per l’incertezza e l’ambiguità. Perdersi volontariamente durante una passeggiata, per esempio. Questee cose senza un piano, questee cose spontanee ti aiuteranno a ridurre lo stress.

Hai sviluppato sei modi per affrontare meglio le perdite ambigue. Quali sono ?

Oltre a cercare di trovare un senso alle nostre perdite, il secondo punto è quello di rivedere il livello di controllo, di padronanza di cui hai bisogno nella tua vita. Cosa posso controllare? Quali sono, invece, gli elementi che non posso controllare? Dopo una perdita o un lutto ambiguo, si pone la questione della ricostruzione della nostra identità. Una donna il cui marito è scomparso da vent’anni si chiederà se è ancora sposata.

Un altro modo per far fronte è normalizzare l’ambivalenza. Tutti abbiamo dei rimpianti, avremmo potuto fare alcune cose meglio o fare cose che non abbiamo fatto. Fa parte della vita, dobbiamo convivere con domande lasciate senza risposta. Si tratta anche di rivedere il proprio attaccamento con le persone che abbiamo perso. Non stai voltando pagina, ma stai ammettendo che se ne sono andate. Avviene una trasformazione: vi ricordate di quelle persone (o cose) perdute, mentre trovate una ragione d’essere, uno scopo per andare avanti senza di loro.

Infine, scoprite nuove speranze. Non possiamo più sperare che la vita torni come prima. Dobbiamo cambiare, adattarci man mano che la vita cambia intorno a noi. Cosa vogliamo per i prossimi decenni? Chi siamo e cosa vogliamo diventare? Il contesto attuale è un buon momento propizio per riflettere sul cambiamento.

Sostenibilità di un marketing dell’intangibile

Tra individualismo crescente e necessità di cooperazione, compartecipazione e condivisione.

Il progresso e la catastrofe sono il diritto e il rovescio della stessa medaglia
(Anna Arendt, 1968)

 

Il XX secolo è stato definito il secolo del progresso scientifico, il XXI sarà ricordato come quello del progredire delle catastrofi”. Sembra privo di speranza il futuro immaginato da Paul Virilio, un filosofo e urbanista francese che ha ideato la mostra “Ce qui arrive” alla Fondazione Cartier per l’arte moderna. A vedere la coda delle persone che attendono il proprio turno per visitarla – e si parla di oltre 20000 visitatori già passati – si direbbe che il desiderio dei molti che si spingono per andare a vedere le immagini catastrofiche e allo stesso tempo macabre (da Bhopal alla navetta Challenger, non trascurando le Twin Towers) è quanto mai indicativo di una certa evoluzione del gusto; che in un certo senso è quello poi dell’automobilista che rallenta per osservare meglio lo spettacolo dell’incidente.

Paul Virilio è uno dei più arguti uomini di pensiero del nostro tempo, una persona che riflette con disincanto sui diversi atteggiamenti intellettuali del mondo contemporaneo e ci mette in guardia – spesso servendosi di testimonianze veramente scioccanti – contro le idee troppo semplicistiche, troppo alla moda, eccessivamente lineari e prive di contraddizioni, che vengono offerte dai “media del tutto e subito” (medias de l’immediat). Quei messaggi che spesso hanno solo stillato il nettare del successo nascondendoci l’amaro calice di eventuali momenti di criticità; evitandoci la prospettiva della precarietà della certezza e la prevedibilità dell’accidente (Ce qui arrive). Un memento mori e un “dovere di memoria” anche presente nel catalogo della mostra, che diventa ineluttabile di fronte a quelle creazioni del progresso che in vario modo hanno scotomizzato il loro inevitabile pendant, gli eventi critici nelle loro varie forme: dall’incidente fino alle catastrofi, il rovescio della medaglia.
Immagini di incidenti aerei, treni deragliati, navi in procinto di essere inghiottite dai flutti; immagini di attentati (che potremmo chiamare incidenti volontari) , pellicole impressionate da irradiazioni, interviste filmate, ma anche opere di artisti che mettono in scena l’instabilità attraverso l’uso di oggetti, suoni, fotografie: segnali di una catastrofe imminente o soltanto possibile.

Se dovessimo definirla dovremmo parlare di una mostra che “mette in guardia”, che non stimola il compiacimento e ci spinge a cercare altrove il senso delle crisi che stiamo vivendo.
Tolstoi o Manzoni ci avrebbero offerto altre immagini. Altri tempi. Nella sostanza però il discorso non cambia. Le trasformazioni dei “mondi” passati, le mutazioni e le contemporanee crisi attuali – talvolta molto profonde – non hanno carattere esclusivamente sociale o economico, esse sono prima di tutto umane e individuali, riguardano le persone e il loro mondo interiore.

Certamente, la paura del domani (del doman non v’è certezza) accompagna l’essere umano sin dall’antichità e l’incertezza non è un fenomeno nuovo; tuttavia essa si inserisce in un contesto diverso rispetto al passato. In qualche modo la globalizzazione ha finito per fare piazza pulita degli ultimi punti di riferimento “sicuri” ed è diventato sempre più evidente quello che già nel Rapporto Censis 1998, ad esempio, era stato definito il disagio dei “piccoli popoli” di produttori e consumatori che hanno come solo destino quello di navigare nel mare dei processi macro di mondializzazione.

Lo smarrimento si registra dappertutto. Mancano o fanno difetto i sistemi importanti, la famiglia, lo stato e la bandiera; un contesto affettivo di vicinato, con i suoi codici fondati sul rispetto per l’autorità e soprattutto sul rispetto della persona. Sembra che tutto sia andato o stia andando in frantumi. Si perde il contatto con i riferimenti morali, sociali, economici, politici… E a differenza del mondo descritto da Tolstoi o da Manzoni, questo nostro ha perduto il suo senso religioso della carità e della comunità. Da una parte ciascuno di noi sente di poter fare a meno del “maestro” e agire in prima persona investendo tutta la sua responsabilità; dall’altra ognuno può accorgersi che quando la individualità (individualismo) trionfa e prende le distanze dal “sociale”, il contesto non gli offre più la cintura di sicurezza di un tempo.

Le cause sono sicuramente importanti, molteplici e di vario ordine, ma a guardar bene la situazione non possiamo trascurare che è avvenuto un forte cambiamento nelle persone e che ciascuno è cambiato di fronte a una forte sproporzione tra le attese individuali e le prospettive del futuro. Si percepisce una lacerante mancanza di prospettiva personale e diventa sempre più larga la sproporzione tra le esigenze di maggiore coinvolgimento nel lavoro e le attese individuali in termini di qualità della vita. Nel caso del lavoro ormai è evidente che non basta più proporre “ponti d’oro” alle persone se esse non hanno più il tempo di vivere; se esse non hanno più un minimo di disponibilità interiore e di serenità (fondamentale per ognuno di noi).

Lo stesso concetto del lavoro definisce una realtà che è molto diversa rispetto a quella degli anni passati, attualmente il lavoro sta assumendo sempre di più gli aspetti della precarietà professionale; siamo nell’era dei lavoratori “mutanti”. A tutto ciò si aggiunge la sensazione che “la festa è finita”, che non torneranno più i begli anni di un tempo e che il sacrosanto progetto di vita personale molto spesso (si potrebbe dire sempre) non rappresenta più un progetto e un’aspettativa individualizzata. Molte persone oggi si occupano soprattutto di sopravvivere allo stress e ciò dimostra con evidenza che – almeno per certuni – il limite è stato ormai raggiunto.

I riferimenti certi si sfilacciano lasciando vuoto lo spazio dei valori e delle speranze; in questa condizione di incertezza mancano le prospettive, i progetti, i sogni di futuro. L’incertezza diventa una realtà tangibile con la quale saremo chiamati a porci in relazione costantemente; ma è proprio a partire dalla gestione efficace delle instabilità che diventeremo capaci di stillare la “qualità” della nostra vita. Negoziando con costanza tra la nostra vita privata e quella professionale, per un equilibrio continuamente instabile.
In realtà la questione riguarderà essenzialmente il nostro mondo relazionale nel quale ciascuno di noi dovrà far fronte al carattere imprevedibile e inatteso del suo interlocutore: marito/moglie, figlia/figlio, del collaboratore o del capo, del cliente o del fornitore, ecc.; comportandosi possibilmente in un modo pro-positivo piuttosto che reattivo.

L’incertezza è più che mai compagna della nostra vita ed è presente nelle nostre prospettive personali e nelle nostre relazioni individuali; inoltre, è legata a un nostro limite percettivo che molto spesso trascuriamo.

Del resto, non siamo stati preparati per affrontare la realtà. A scuola ci hanno trasmesso la cultura della “certezza” e una visione abbastanza rigida del mondo. La nostra educazione, e più tardi il mondo professionale ci ha incoraggiato a fissare la realtà non certa in schemi di probabilità che a lungo andare ci sta abituando a sostituire il “prevedibile” o il “programmato” con la realtà che emerge e che non può essere repertoriata a priori.

Lo smarrimento è una realtà alla quale non si può far fronte con delle tecniche rigide e alla fin fine inadatte alle situazioni che cambiano continuamente. Conviene dunque riprendere in considerazione la persona, anima e corpo (senza dimenticare l’elemento spirituale individuale) e ciò che essa possiede in termini di qualità di adattamento e di comprensione di fronte all’incertezza del cambiamento e dell’emergenza. Comprendere opportunamente che le situazioni sono in costante mutamento e che ogni strategia previsionale dovrà, per forza, confrontarsi con una realtà imprevedibile. E sappiamo bene ormai che la capacità di adattamento delle persone di fronte a una realtà nuova dipende dallo stato d’animo e dalla capacità di esse di integrare i vari aspetti della realtà.
Considerare in modo nuovo, da punti di vista ulteriori, la vita professionale e privata, guidandole consapevolmente tra i flutti dell’incertezza e dell’imprevedibilità.

Un mondo diverso è possibile
Soprattutto per chi sceglierà di affrontare le crisi con umiltà, umanità e umorismo.

 

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta, con lo stesso titolo su MKT, gennaio 2003. Ho l’impressione che l’argomento possa stimolare ancora molte riflessioni

Il benessere delle relazioni

Spesso quando incontro dirigenti o manager, per un parere professionale o anche per un breve scambio di impressioni a margine di un evento, ogni tanto li sento raccontare di “problemi umani” verso i quali provano una legittima difficoltà. A volte la situazione rischia di degenerare miseramente, in altre si corre anche il pericolo di essere oggetto di aggressioni verbali o fisiche. Talora non è infrequente incontrare elementi veramente difficili da gestire, eterni insoddisfatti, persone continuamente scontente che rendono la vita pesante a colleghi e collaboratori.

I miei interlocutori vogliono farmi capire quanto certe volte possa essere complicato, se non impossibile, portare avanti una iniziativa, una attività nuova o un progetto. Svolgere un compito di guida o di coordinamento, mantenere un minimo di agio all’interno di una riunione. Talora si fa molta fatica a organizzare le persone e il gruppo, farle partecipare attivamente, ricondurre le discussioni sul tema all’ordine del giorno, gestire le tensioni e i conflitti. Far fronte ai pensieri negativi, alle frasi killer, al fuoco incrociato per evidenziare tutte le difficoltà e tentare di affossare definitivamente l’idea.

Un collaboratore “problematico” è una spina nel fianco per un capo diretto. Talvolta, lo è anche per i suoi colleghi e spesso questi ultimi fanno pressione sul dirigente affinché egli possa risolvere il problema e faciliti un’atmosfera di lavoro più tranquilla. In alcuni casi la stanza del capo può diventare l’ufficio del pianto (“il mio ufficio è diventato un ufficio reclami …”) di eventuali clienti insoddisfatti o addirittura offesi dal comportamento del dipendente.

Sarà forse perché in azienda si è più interessati alla valutazione delle performance, ai bilanci e ai risultati delle vendite e meno all’interesse per le relazioni tra le persone che lavorano? Senza dubbio i numeri sono fondamentali per la sopravvivenza e il progresso dell’organizzazione aziendale e per la definizione delle strategie future. Tuttavia è necessario considerare che il successo passa anche attraverso un esame approfondito della disposizione mentale dei dipendenti e di quel loro patrimonio di competenze e abilità individuali specificamente umane. Ad esempio, chiedersi chi fa che cosa, come, in quale stato d’animo, è fondamentale per considerare il valore della relazione tra le persone e il loro lavoro.

Le aziende stanno di nuovo lasciando il passo a logiche autoritarie di funzionamento organizzativo. Probabilmente questo è dovuto ai cambiamenti in corso e soprattutto alla pressione del breve termine dovuta agli imperativi dei “numeri”, Ad esempio, è vero che i dirigenti attualmente sono meno numerosi di un tempo, tuttavia non è una spiegazione sufficiente quando alcuni di essi si fanno notare per il loro sbrigativo modo di porsi in relazione con i collaboratori.

Sembra quasi che la cultura manageriale moderna, in fatto di miglioramento dei processi comunicativi interni e di un cambiamento di cultura e di comportamenti nella gestione delle risorse umane, non sia ancora entrata del tutto nelle nostre aziende. Forse c’è una scusante, tenendo conto che i manager vengono valutati più volentieri rispetto alla realizzazione di risultati quantitativi (tassi di produttività, riduzione dei costi, standard di lavoro o quote di vendita) e quasi mai rispetto alle loro capacità di mettere in collegamento idee e persone. È raro che li si giudichi sulla base delle loro abilità di far crescere una equipe o sulla perizia di far crescere i propri collaboratori; ambedue elementi fondamentali per l’evoluzione dell’azienda e la sostenibilità organizzativa.

A loro volta molti i manager affermano che, per loro esperienza, è difficile ottenere i rendimenti desiderati senza esercitare una certa autorità sui dipendenti; che ci si arrabbia perché costoro non prendono iniziative e stanno ad aspettare che gli si dica cosa fare. Vero che si può ottenere, attraverso l’autorità, che i dipendenti eseguano i loro compiti, però … per ottenere di più, occorre farseli alleati, mobilitarli, ma soprattutto tenere conto delle loro attese di riconoscimento e rispetto. Ciò che di solito prelude a una maggiore motivazione.

All’interno delle aziende le difficoltà relative ai problemi tecnici sono abbastanza limitate; è veramente difficile riscontrare lacune nelle competenze specifiche (soprattutto se sono state ben valutate in ingresso). Tuttavia, nei gruppi di lavoro, tra le persone coinvolte in un progetto, talvolta, non è facile coordinare gli elementi e articolare le differenze. Il ruolo di responsabilità spesso richiede ora capacità prima impensate; ad esempio, fluidificare i meccanismi della comunicazione interna, lavorando sull’ascolto, la gestione dello stress e delle emozioni, i problemi relazionali. In azienda diventa sempre più importante “curare” un clima di reciproca fiducia e migliorare la coesione del gruppo dei collaboratori.

Chi dirige una azienda o è responsabile di un settore di essa, deve considerare che l’incremento della produttività e la qualità dei servizi si trova sempre più in relazione con il morale dei collaboratori e il benessere (nei termini di “qualità delle relazioni interpersonali”) nei luoghi di lavoro.

Contribuire alla qualificazione complessiva della comunicazione interna, migliorare il clima organizzativo, significa in sostanza agevolare le transazioni relazionali di chi vi lavora, metterne a punto i relativi meccanismi di regolazione per garantire il successo dell’azienda e dei suoi prodotti/servizi.

Le ricerche scientifiche di Psicologia delle Organizzazioni hanno da tempo dimostrando che chi lavora in un contesto relazionale sano e privo di tensioni, da alle aziende un netto vantaggio sulla concorrenza. Le aziende che investono sul clima interno ne traggono benefici, per il fatto che favoriscono un lavoro di qualità, una più grande creatività e un miglior servizio alla clientela. Riducono il numero dei contenziosi e mantengono un basso tasso di assenteismo. Riescono a far crescere i talenti migliori e fidelizzare le persone più competenti.

Promuovere il benessere delle relazioni che le persone hanno con il proprio lavoro e nei luoghi di lavoro, risolvere i problemi relazionali che intossicano l’atmosfera, è un investimento fondamentale per l’azienda. Soprattutto quando recuperiamo il valore delle persone valutando e, allo stesso tempo, incoraggiando un atteggiamento mentale positivo dei collaboratori.

I rapporti interpersonali, il clima relazionale ed organizzativo nei vari settori dell’azienda, il ruolo dell’emotività e della passione, sono alcuni degli elementi fondamentali costituenti le condizioni favorevoli per “fare squadra”, che scaldano i cuori e le menti delle persone e delle organizzazioni. Non basta mettere in atto una buona idea per renderla realtà operativa e nemmeno è sufficiente che il capo la comprenda perché i collaboratori la mettano in pratica.

La tecnica o le tecniche in questo caso non sono sufficienti. Ecco perché diventa legittima una psicologia delle risorse umane: in termini di opportunità di lettura, di messa a fuoco, necessaria per trovare il bandolo della matassa e avviare un processo di crescita a partire da una situazione critica. Una psicologia come “capacità relazionale”, di “comprensione della psicologia delle persone”, per fornire opportune chiavi di accesso ai problemi di comunicazione e permettere a ciascuno di aprire la porta alla sua personalità e trovare la propria strada, dando prova di intelligenza e autonomia.

Sviluppare capacità collaborative non è facile e tantomeno alla portata di ognuno. I manager tuttavia sono chiamati ad essere all’altezza del compito perché tale risultato è uno dei punti cardine delle loro capacità. Ovvio pertanto che dalla qualità del management dipenderà in gran parte il successo o l’insuccesso dell’organizzazione. Ma come può un manager garantirsi il successo?

È facile perdersi. Se proviamo a metterci nei panni di chi è chiamato a navigare in queste acque, è facile vivere insieme ad essi un senso di smarrimento.

A volte è stato sufficiente svolgere una serie di 8-10 incontri di consulenza, per risolvere in modo soddisfacente situazioni completamente degenerate, frutto di un lungo processo di impoverimento delle relazioni. Spesso i dirigenti, ne sono usciti più forti come persone di fronte alle reazioni emotive che prima li destabilizzavano e, ancora di più, l’apprendimento che ne hanno tratto, è stato acquisito per il resto della vita.

Talora è necessario ricreare una dimensione più umanizzata del lavoro e delle organizzazioni, tenendo conto che le conquiste tecnologiche sono per noi irrinunciabili, per la nostra crescita e il nostro benessere; allo stesso tempo, che le donne e gli uomini fanno la differenza, soprattutto per quanto riguarda il loro valore immateriale.

Dunque, diventa importante per il “capo” essere consapevole delle proprie capacità relazionali, farle emergere e canalizzarle, saper gestire le proprie difficoltà e diventare cosciente del loro funzionamento per aumentare la propria lucidità, per cambiare il proprio modo (legittimamente soggettivo) di vedere gli altri e le proprie relazioni. Apprendere a osservare con obiettività la propria situazione per rafforzare la efficacia delle proprie azioni e i relativi margini di manovra. Formarsi.

La proposta è quella di incentivare un’ecologia del lavoro e delle relazioni umane a tutto vantaggio delle aziende, dei loro clienti e, naturalmente, di chi vi lavora. Insomma, scoprire che si può lavorare e allo stesso tempo si può anche vivere in salute e trarre soddisfazione da ciò che si sta facendo. Questo, va a vantaggio delle persone e delle loro relazioni, ma è anche un’opportunità – in termini di valore aggiunto – per le aziende.

Bisogna ascoltare, fare un uso intelligente delle competenze dei collaboratori e prendere in considerazione (far emergere dalla loro esperienza diretta) ciò che occorre per far crescere l’azienda, in modo da interessare le persone al processo collettivo. A partire dal momento in cui si da la parola ai nostri collaboratori e in cui si prendono in considerazione le loro conoscenze, la qualità delle decisioni che vengono prese da noi è naturalmente migliore. Inoltre, se le persone sono coinvolte nella ricerca di soluzioni, esse saranno anche più motivate a metterle in pratica. E in genere fanno di tutto perché la cosa vada in porto, anche se in partenza esse potrebbero trovarsi in difficoltà.

Vittorio Tripeni
psicologo del lavoro e delle organizzazioni

( pubblicato anche in: https://hei.network/wp-admin/post.php?post=5852&action=edit )

Le influenze naziste sul management moderno

Nel suo libro Libres d’obéir: le management, du nazisme à la RFA, appena pubblicato da Gallimard, lo storico Johann Chapoutot mette in evidenza una certa continuità tra le pratiche organizzative del regime nazista e quelle che ritroviamo oggi oggi nelle nostre aziende.
Una tesi che farà discutere a lungo ma che vale la pena considerare.


Non è la prima volta che Johann Chapoutot, storico tedesco e professore all’Università della Sorbona, avvicina il Terzo Reich al nostro presente. Di libro in libro, si sforza di dimostrare che il nazismo non era una parentesi della storia ma piuttosto un infante della modernità occidentale. Concentrandosi oggi sul mondo del lavoro, mostra come l’approccio manageriale e le tecniche sviluppate dai leader nazisti hanno continuato ad essere utilizzati molto tempo dopo la fine della seconda guerra mondiale. Ed è così ancora oggi.
L’autore, riportando alla luce i trattati dell’organizzazione del lavoro degli alti funzionari del Terzo Reich, fa emerge un “linguaggio che il nostro mondo, la sua organizzazione sociale e la sua economia usano”, come “elasticità”, “performance”, “produttività” , “iniziativa creativa”, “redditività” … Ovviamente Chapoutot non afferma che la Repubblica di Weimar ha inventato il management moderno, ma mostra come i nazisti pensarono di ottimizzare l’organizzazione della forza lavoro, fino a diventare momento “matrice” (pag. 16) della teoria e della pratica del management del dopoguerra.

Attraverso la figura di Reinhard Höhn, al quale dedica gran parte del suo saggio, Chapoutot mostra che gli alti funzionari nazisti hanno riflettuto molto presto sulle questioni relative all’organizzazione del lavoro.
A Reinhard Höhn, un giovane avvocato brillante e funzionario della SS, viene affidato il compito di pensare al modo migliore per amministrare l’immenso territorio del Reich con mezzi ridotti. Il Reich si è ampliato in modi senza precedenti nella storia tedesca, e poiché ci sono sempre più uomini in uniforme, ci sono meno “risorse umane” alle spalle. Si deve dunque pensare alla trasformazione dell’amministrazione, per fare di più con meno. Inoltre, in campo economico, si tratta di produrre quantità assolutamente incredibili di armamenti per conquistare l’Europa, dall’Atlantico agli Urali. È in questo contesto che Reinhard Höhn svilupperà la sua concezione di Menschen-führung, “la guida delle persone”, una parola inventata per parlare di management perché i nazisti rifiutano di usare termini inglesi. Ciò che è interessante è che dopo il 1945 questa concezione continuerà ad alimentare il mondo del lavoro in Germania. Beneficiando delle leggi di amnistia del 1949, Reinhard Höhn sarà assunto da un sindacato dei datori di lavoro e, molto rapidamente, vedersi incaricato di creare una scuola per la formazione dei Quadri. Fu così che nel 1956 fondò l’Accademia di Bad Harzburg, nella quale formò un certo numero di dirigenti di grandi aziende tedesche.

Che si possa affermare con certezza l’esistenza di una matrice nazista del management forse non è possibile e non credo sia un’affermazione decisiva anche per l’autore. Tuttavia Chapoutot convince ricordando che il management, in quanto riflessione sulle modalità ottimali di strutturare una organizzazione produttiva, è in atto prima del nazismo. Fu il francese Henri Fayol, matematico e ingegnere, a gettarne le basi. Ma Fayol fu criticato dai nazisti per essere troppo cartesiano. All’epoca i nazisti criticavano i francesi per essere troppo autoritari nel loro stile di management. All’amministrazione francese, giudicata centralizzatrice, verticale, gerarchica, Reinhard Höhn opporrà la sua visione della Menschen-führung, “la guida delle persone”. Oppone dunque l’amministrazione francese al management alla tedesca che per lui vuole essere molto più liberale. I nazisti avevano capito che per essere in grado di produrre in modo così massiccio, era necessario motivare ciò che veniva chiamato “materiale umano”, che oggi viene chiamato risorsa umana. Ed è per questo che c’è una riflessione sulla gioia nel lavoro. Nel 1933 all’interno del Reich fu creato un gigantesco comitato aziendale, il Kraft durch Freude (KdF), “forza attraverso la gioia”, incaricato di organizzare le attività ricreative dei lavoratori.


Per i nazisti, dice Chapoutot, l’obiettivo era ricostruire la forza lavoro in modo che l’individuo fosse più produttivo. Il termine “performance” è fondamentale nel pensiero nazista, è un termine polisemico che significa allo stesso tempo produttività, prestazione, redditività. E per i nazisti, è molto chiaro che l’individuo non ha un’esistenza in sé, nessun diritto a parte la sua produttività. In altre parole, se non sei in grado di produrre per il Reich, non hai diritto alla vita. Il parallelo che vedo con l’idea contemporanea di rendere felici le persone sul lavoro che sostengono gli Happiness Managers è che essa non ha scopi filantropici. C’è un “progetto di business” dietro.

Buttando giù come una medicina amara le affermazioni di Chapoutot, percepisco l’utilità di questo suo contributo e rimango lucidamente inquieto di fronte al quadro che egli mi mostra. Soprattutto quando mi fa vedere anche come il regime nazista sia riuscito a creare un’organizzazione di lavoro non autoritario con il consenso generale intorno all’immaginario della “libertà germanica”. Un altro punto in comune con le organizzazioni attuali: le nozioni di piacere e svago. Se “non è ancora il momento del calcio balilla, delle lezioni di yoga o dei Chief Happiness Officers (…) il principio e lo spirito sono gli stessi”, sottolinea lo storico. I lavoratori obbediscono alla Führung, una “forma di potere che impone loro i fini da raggiungere, ma che trasferisce su di loro la responsabilità dei mezzi, perché non è solo nel modo di raggiungere questi obiettivi che sono liberi di agire”.

Johann Chapoutot è professore di storia contemporanea all’Università di Paris-Sorbonne, dopo essersi interessato al regime nazista in opere come Histoire de l’Allemagne (de 1806 à nos jours), pubblicato dal PUF (Que sais-je) nel 2014 o La Révolution culturelle nazie (Gallimard, 2016), ha scritto Libres d’obéir: le management, du nazisme à la RFA (Gallimard, 2020), in cui si concentra particolarmente sui metodi di Menschenführung, che traduce e germanizza il concetto anglosassone di management.

Vogliamo le soluzioni ma evitiamo i problemi. Un punto di vista sul coaching

C’è un’opinione diffusa e molta propensione a pensare che il moloch intelligenza artificiale divorerà l’intelligenza umana. Una prospettiva che preoccupa tanto e allo stesso modo affascina.
Gli studi che riguardano l’impatto della intelligenza artificiale sul mondo del lavoro iniziano a diffondersi e talvolta alimentano la preoccupazione appena accennata. Alcuni mettono in evidenza la complementarietà dei tre tipi di intelligenze che sarà necessario saper combinare nel prossimo futuro: l’intelligenza emotiva, l’intelligenza artificiale e l’intelligenza collettiva. All’interno di questa prospettiva si sta aprendo un notevole spazio evolutivo per le attività di consulenza organizzativa. In particolare, per il counseling e il coaching.

Le aziende sono fatte principalmente di persone, non di procedure, e spesso non basta un “programma” (o, meglio, una “ricetta”) per risolvere le criticità. Di conseguenza, se l’intelligenza di un manager non riuscirà a competere con le vertiginose capacità di memorizzazione, calcolo e diagnosi di una intelligenza artificiale, avrà tuttavia da svolgere un ruolo importante attraverso la sua “intelligenza del cuore”. Perché saranno necessarie le abilità socio emotive che il leader dovrà sviluppare nella sua organizzazione per completare il lavoro delle tecnologie intelligenti.
Ad esempio, le competenze relazionali sono ormai diventate essenziali perché son inaccessibili (per ora) all’IA. Di conseguenza, là dove sarà necessario dar prova di intuizione, creatività, immaginazione, pensiero concettuale e buon senso, l’Umano dovrà svolgere il suo pieno ruolo a fianco delle macchine.
La sfida del leader del prossimo futuro sarà triplice. Dovrà governare i cambiamenti organizzativi e culturali generati dall’IA, organizzare la collaborazione uomo-macchina e accelerare lo sviluppo di nuove abilità emotive e cognitive per aggiungere valore alle attività automatizzate. Per questo, dovrà sapere come tenere insieme le tre forme di intelligenza.
Da parte mia, nel corso di oltre tre decenni di consulenza manageriale da un lato e psicologia clinica e del lavoro dall’altro (come counselor, ricercatore, terapeuta, didatta) ho svolto attività di coaching accompagnando manager e team di ogni genere e ho svolto varie attività di supporto per la riconfigurazione e lo sviluppo dell’intelligenza collettiva in diverse situazioni. Negli anni ho avuto modo di seguire le trasformazioni dell’attività del manager, che da una pedissequa applicazione dei principi di Henry Fayol, vale a dire la pianificazione degli obiettivi, l’organizzazione dei compiti e delle responsabilità, la gestione delle persone e il controllo delle attività, ha via via compreso la necessità di acquisire competenze “non tecniche” opportune per migliorare la loro missione. Vestendo in questo modo – dopo un’adeguata formazione – i panni del manager-coach.

Una forma di elicitazione legata al “saper fare” e al “saper essere”
Di fonte al susseguirsi di domande nuove e complesse che le organizzazioni aziendali si trovano ad affrontare, il coaching diventa non soltanto un nuovo stile di management ma soprattutto una necessità per gestire in modo efficace le risorse umane e raggiungere una coerenza interna con le politiche gestionali e con gli obiettivi e le strategie dell’azienda. Esso è una forma di accompagnamento che ha come obiettivo lo sviluppo delle attitudini, il miglioramento della performance, l’adattamento a situazioni nuove e costituisce un valido supporto per la presa di decisioni quando le condizioni sono difficili o complicate. È una forma di elicitazione legata al “saper fare” e al “saper essere” riguardanti il modo di governare la propria attività, di organizzarla, di attivare la sfera relazionale e la comunicazione; mira allo sviluppo dell’identità professionale, dell’autonomia e della responsabilità, non alla riproduzione di modelli. Apporta una nuova chiarezza (introduce ulteriori punti di vista) sulle situazioni reali, ricercando evoluzioni significative in materia di comportamenti e di performance. È un volano di facilitazione dell’adattamento (attivo, non passivo) ai cambiamenti intensi sia in ambito organizzativo che sociale.

Il coaching come attività specializzata di consulenza
Per quanto riguarda la formazione appena accennata in precedenza, quella che un tempo era definita “executive coaching” e che attualmente è nota come “coaching manageriale”, è un approccio di coaching professionale incentrato sullo sviluppo di competenze relative a una posizione attuale o futura. Si basa su un processo in cui la fase di preparazione è importante quanto la fase di sviluppo stessa ed esistono diversi modelli di intervento che possono guidare la pratica del coaching. L’importante per il coach è determinare e spiegare il modello o i modelli che guidano il suo intervento, tenendo presente che il coaching manageriale può essere utilizzato in molti contesti in cui obiettivi e target differiscono.
Tra le varie definizioni di coaching manageriale, voglio considerare quella di Douglas e Morley (2000) del Center for Creative Leadership, poiché mi sembra la più operativa e completa. “Il coaching manageriale è un processo finalizzato a fornire agli individui gli strumenti, le conoscenze e le opportunità di cui hanno bisogno per crescere e diventare più efficaci […]. Implica l’insegnamento di abilità in un contesto di relazione personalizzata con il cliente, fornendogli feedback sulle sue capacità e relazioni interpersonali […]. Una serie di attività su misura finalizzate alle problematiche attuali o rilevanti incontrate dall’individuo che sono prese in considerazione insieme al coach, al fine di aiutare il primo a mantenere un’attenzione costante e rivolta all’integrazione delle sue forze e la gestione dei suoi punti deboli […].”
In realtà il processo del coaching è molto più complesso, in quanto si configura come un’attività specializzata di consulenza tipicamente individuale e squisitamente di carattere psicologico. Esso si differenzia nettamente da ogni forma ed indirizzo di psicoterapia e, d’altro canto, non appare affatto corretto identificarlo semplicisticamente come un’attività di formazione. Il coachee è il più delle volte una risorsa sulla quale l’organizzazione sta puntando nel contesto di un percorso di sviluppo o di riposizionamento mirato; in altre casi si tratta di soggetti che hanno necessità di un supporto esperto per direzionarsi o per utilizzare al meglio le proprie capacità. In ogni caso, il cliente del coaching è quasi sempre un soggetto che ha alle spalle una certa esperienza di lavoro e/o che ricopre ruoli di responsabilità.

Il problema del riconoscimento
A differenza degli psicologi, la cui acquisizione di competenze legate alla pratica della psicologia deve soddisfare gli standard specifici di un ordine professionale, la formazione dei coach non è ancora normata. Alcune associazioni offrono formazione in coaching manageriale che danno accesso a un accreditamento gestito da esse. Tuttavia, questi corsi di formazione rimangono opzionali, poiché l’esercizio del coaching non è limitato a coloro che sono stati accreditati. Pertanto, ad oggi, chiunque desideri dichiararsi un coach e offrire i propri servizi a un’organizzazione può farlo. In altre parole, significa che i profili di competenze dei coach possono essere molto variabili. Di conseguenza, le organizzazioni di riferimento dovrebbero attuare un rigoroso processo di selezione per i coach e, in attesa della professionalizzazione del coaching, spetterebbe alle organizzazioni di riferimento (in realtà alcune lo stanno facendo) creare il proprio quadro etico in cui il coaching manageriale potrà esprimere tutte le proprie potenzialità, conoscenze e valori. Ciò non è solo possibile ma necessario.