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Emergenze, eventi critici e situazioni di disagio

Le situazioni nelle quali le persone si ritrovano a confronto di eventi critici, sono molteplici e possono presentarsi in modo diverso, secondo gli agenti scatenanti il fatto e le conseguenze dirette e indirette. Sia nel caso si tratti di un processo di “vittimizzazione primaria”, in cui le persone si trovano loro malgrado a subire conseguenze dirette, sia che riguardi un “coinvolgimento di servizio” in qualità di operatori del soccorso o dell’emergenza. In ambedue i casi concorrono diversi elementi comuni:
– il contenuto emotivo/affettivo dell’esperienza;
– la percezione e la valutazione del rischio;
– la gestione della comunicazione e l’elaborazione delle informazioni, in stretta relazione con la “presa della decisione” e la “motivazione” delle persone coinvolte.

In ogni caso influiscono anche le caratteristiche ambientali, perché freddo, caldo, altitudine, umidità, ecc., possono avere conseguenze fisiopatologiche che, oltre a comportare eventuali patologie specifiche, interferiscono in ogni caso con le condizioni psicologiche e sociali delle persone coinvolte.

1. Gli eventi naturali
Per quanto riguarda il coinvolgimento della popolazione, in genere gli eventi critici possono essere classificati come attesi e non attesi. Ad esempio, chi si confronta con il rischio e il pericolo in modo continuativo (pensiamo a tutti gli sport cosiddetti “estremi”) sa che può aspettarsi da un momento all’altro di rimanere coinvolto in una situazione critica. Invece chi, ad esempio, si trova coinvolto in un terremoto non ha certo previsto ciò che gli sarebbe capitato.
Su un altro versante, vi sono quelli che si confrontano con i rischi in quanto “implicati per scelta”. Come nel caso del personale dei servizi di soccorso e emergenza, oppure le forze dell’ordine. Che sebbene abbiano accettato di correre dei rischi scegliendo quella professione, possono trovarsi di fronte a situazioni che non hanno provocato, né alimentato o sostenuto e tantomeno auspicato.
Oltre alle diverse modalità di far fronte all’evento, teniamo conto anche della distinzione tra evento critico d’origine naturale ed evento critico di origine umana (accidentale o volontaria). Che segna anche il punto di svolta indispensabile per una efficace comprensione dei fenomeni fisiopatologici, eziopatogenetici e clinici correlati con l’evento o gli eventi.

Quali sono i fattori di maggiore nocività degli eventi critici d’origine naturale?
Il pericolo, talvolta l’isolamento (inteso anche come mancanza di informazioni), la condizione di profugo degli sfollati e degli evacuati, le condizioni di vita dei soccorritori nel corso di missioni di lunga durata. Queste sono alcune variabili che influiscono più o meno a lungo termine sulle persone coinvolte.
La eventuale aggressività fisica delle vittime e talvolta dei soccorritori, potrebbe avere relazione con l’aggressività derivante dagli effetti patogeni dell’evento traumatico, soprattutto presso le persone con una non sufficiente capacità di coping .
Nel contesto sociale possono emergere delle manifestazioni comportamentali, legate al panico ad esempio, ma anche esordi psicopatologici, come nel caso della nevrosi traumatica. Tutto ciò avrà degli effetti anche sugli operatori che, indipendentemente dalla gestione iniziale della situazione, rischiano di ritrovarsi a confronto con ulteriori eventi di cui essi potrebbero essere contemporaneamente i gestori, i soccorritori, ma anche gli attori passivi e le vittime.

Le catastrofi e gli incidenti
Il termine catastrofe è attualmente inteso nel senso di situazione accidentale grave, collettiva, che ha origine naturale e/o artificiale. La catastrofe si definisce essenzialmente come un evento che risulta dannoso per la collettività umana che la subisce.
Sono molteplici gli elementi caratterizzanti una catastrofe:
coinvolge la collettività;
– ha caratteristiche di brutalità, di accadimento inaspettato;
– è un evento non abituale;
– provoca danni e distruzioni di massa.
Louis Crocq, uno dei massimi esponenti della psicotraumatologia, nel 1987 ha aggiunto a questa descrizione la nozione di perturbazione sociale, di alterazione dei sistemi sociali funzionali (evidenziando in questo modo le caratteristiche della “criticità”).
Gli eventi critici classificati come “catastrofe naturale”, citati dalla letteratura scientifica, possono essere raggruppati:
– in rapporto con gli elementi geologici: eruzione vulcanica, frana, sisma, erosione, straripamento;
– in rapporto agli elementi climatici: tempeste, trombe d’aria, uragani, cicloni, maremoti, inondazioni, siccità, variazioni termiche, ecc.
– in relazione alla popolazione: malattie endemiche, epidemie, sovrappopolazione, carestie, ecc.
– invasioni animali: cavallette, termiti, topi, ecc.

2. Gli eventi di origine antropica
Sono direttamente dipendenti dal fattore umano e i loro effetti psicopatologici sulle vittime dirette e le “professioni a rischio” si presenteranno in modo diversi dai precedenti. Dal momento che, il fattore (umano) scatenante, diretto o indiretto, volontario o involontario, orienterà il pensiero delle persone direttamente e/o indirettamente coinvolte, a una logica fondata su un’opposizione radicale di vero e falso, bene e male (o bianco o nero) e alla loro moralistica opinione personale sul caso.
Ad esempio:
– “ non è possibile che un essere umano faccia una cosa simile! ”
– “ io non sarei capace di arrivare fino a quel punto! ”
– “ perché non ci difendiamo da tali comportamenti? ”

In generale, è possibile raccogliere schematicamente in due gruppi gli eventi critici imputabili all’uomo:

1. Quelli non voluti direttamente, risultanti dalla civiltà industriale e in relazione con:
– la terra: rottura di dighe, negligenze di natura ambientale, contaminazione radioattiva, ecc.;
– l’aria: piogge acide, esplosioni, nubi radioattive, smog;
– il fuoco: origine elettrica, chimica, vapori pericolosi, combustioni spontanee;
– l’acqua: contaminazione delle falde, marea nera, siccità, ecc.;
– la popolazione: incidenti di lavoro, incidenti causati dalla folla durante le partite di calcio, sommosse, incidenti marittimi, ferroviari, aerei.

2. Quelli voluti direttamente: il cui effetto psicologico avrà intense ripercussioni nel momento in cui le persone coinvolte e il “professionista” prendono coscienza del potenziale aggressivo e distruttivo dell’azione posta in essere:
– che chiamano in causa un numero limitato di individui: ingorghi, aggressioni urbane, presa di ostaggi, attentati, dirottamento di aerei, incendi, estorsioni criminali attraverso l’uso di virus o di veleni, violenze familiari;
– coinvolgenti un numero elevato di individui che agiscono contemporaneamente: guerre, guerriglie, guerre civili, terrorismo di stato, sommosse scatenate volontariamente da agitatori con l’obiettivo di destabilizzazione sociale, deportazioni, genocidi.

3. I fattori che possono innescare effetti dannosi

Il pericolo
Le persone coinvolte da un evento critico di particolare gravità si confrontano con il pericolo a diversi livelli e in diverse situazioni, sia di origine naturale che antropica. In tutti i casi, la risposta al pericolo corrisponde a una mobilitazione della vigilanza, che nelle persone ben adattate o ben preparate, comporterà conseguenze fisiche o psichiche minori.
Ciò che si dovrà temere, nel lungo periodo, è l’esaurimento delle risposte adattive in possesso di ciascun individuo (e diverse da individuo a individuo), un esaurimento contemporaneamente psichico, neurosensoriale e fisico, che porta ad abbandonare la lotta e cadere nella depressione.

L’isolamento
Parola diversa da “solitudine”, può ingenerare comportamenti aggressivi o depressivi. I professionisti impegnati in particolari interventi di soccorso possono essere a confronto con questa particolare situazione. Quella di ritrovarsi isolati, cioè vivere durante un lasso di tempo lontano dal mondo abituale e delle proprie radici. Ad esempio in occasione di un soccorso in montagna, in ambienti ostili, in occasione di grandi catastrofi (terremoti, eruzioni) i nostri operatori, anche se sono in gruppo, possono incontrare situazione di stress direttamente legate a questo isolamento, che viene ad aggiungersi agli altri parametri relativi alle criticità.
Le frustrazioni affettive, sociali, la perdita del contesto abituale di vita, delle relazioni amicali, familiari, del confort di vita elementare, la rottura dei ritmi circadiani rappresentano una pressione reale. La mancanza di stimoli abituali può innescare un rimuginio di idee e di problemi non risolti.
Situazioni simili si presentano nel corso di una prolungata assenza di informazioni che restituiscano un quadro comprensibile della situazione in cui si è direttamente coinvolti.

Il confinamento
Riguarda soprattutto le operazioni di soccorso di lunga durata, il confinamento può favorire l’emergenza di conflitti interpersonali con formazione di sottogruppi di opposizione.
Un argomento specifico o una critica diventano l’oggetto di sviluppi immaginativi poco razionali che traggono il loro alimento e la loro crescita da essi stessi, finché un qualche stimolo esterno non viene a cambiare il motivo di interesse.
Talvolta mal tollerato a livello individuale e fonte di manifestazioni patologiche, il confinamento può essere anche mal sopportato a livello di gruppo, il quale cessa di essere operativo oppure si rivolta contro il leader o contro l’autorità lontana dalla quale dipende (Bluth, 1979; Rivolier, 1979).
Del resto, è frequente, nelle condizioni estreme, che il dialogo risulti difficile per incomprensione reciproca tra il campo delle operazioni e i lontani responsabili.
Anche in questo caso la mancanza o la scarsità di informazione, comunicazione e relazione, con chi “ha in mano” il punto della situazione, risulta fonte di confinamento e di stress.

Le specifiche attività
Se lo stress originato dalla situazione differisce enormemente secondo i casi configurati, non è da meno il fatto che l’ambito lavorativo è all’origine di scariche aggressive che esprimono le difficoltà di adattamento della persona: il materiale non va bene o non è adatto, il procedimento non è idoneo, l’impiego del tempo è impossibile da rispettare, ecc. Spesso (e talvolta superficialmente) si è tentati di dare un’interpretazione psicopatologica realistica rispetto al momento. Ma non è raro appurare che la rivendicazione espressa in quella circostanza si fondi sulla realtà incombente.

Grazie, signora Anneliese!

Lo sviluppo sostenibile non è una trovata degli economisti, perché la signora Anneliese, donna parsimoniosa ma non taccagna, lo pratica con solerzia e del tutto inconsapevolmente da quando era bambina.

Me ne ha mostrato la tangibile utilità durante un soggiorno in montagna,  una valle alpina ove è ancora possibile stare in contatto profondo con la natura e le persone.

Nella vita di tutti i giorni, segue una forma di “responsabilità sociale” che nella sua semplicità mostra alcuni comportamenti molto consonanti con lo spirito dell’economia ecologica.

Ad esempio, soddisfare i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future a rispondere ai loro; agire in modo che gli effetti della propria azione siano compatibili con il manifestarsi di una vita autenticamente umana sulla terra. Che, d’altra parte rappresenta anche l’applicazione pratica del principio di responsabilità del filosofo Hans Jonas.

La signora economizza l’acqua. Preferisce fare una rapida doccia al posto del bagno, chiude l’acqua del rubinetto quando si lava i denti o le mani, è riuscita addirittura a fare installare dei riduttori di flusso per limitare il consumo; ha infilato nella cassetta dello scarico una bottiglia piena di sabbia, così può risparmiare un litro di acqua ad ogni rilascio.

Risparmia energia. Mette in funzione la lavatrice e la lavapiatti soltanto quanto sono a pieno carico, oppure quando è il caso, utilizza il programma. Sbrina il frigo periodicamente per evitare un consumo maggiore; usa gli apparecchi elettrici solo per il tempo necessario, misura con pignoleria la temperatura delle sue stanze, utilizza lampade a basso consumo. Utilizza al massimo la luce naturale; le sue attività di solito passano vicino la finestra della cucina, del soggiorno (quando ricama); sogna una casa costruita secondo i canoni del “naturale”, con materiali e sistemi di illuminazione e riscaldamento che rispettino l’ambiente circostante.

Esegue la raccolta differenziata. Seleziona con meticolosità gli scarti degli usi domestici (piccoli imballaggi, bottiglie di plastica, vetro, carta, metalli vari) tenendo conto dei suggerimenti dati dalla pubblica amministrazione e, se la raccolta diversificata non ha un deposito proprio vicino alla sua casa, prende le sue raccolte e le trasporta nella “discarica” più vicina. Sta molto attenta anche a tenere da parte i resti dei prodotti chimici che usa per il suo bricolage e l’olio utilizzato per le sue ottime fritture. Mi ha riferito che un litro di olio può ricoprire una superfici d’acqua di circa mille metri quadrati, impedendo la ossigenazione della flora e della fauna del lago. Porta nel contenitore della farmacia i medicinali inutilizzati e quelli scaduti.

Ha un rispetto religioso della quiete. E’ stata molto scrupolosa a garantire una ottima qualità acustica nel suo appartamento, usando con molto garbo tende di vario colore, in accordo con i pavimenti in legno e i quadri alle pareti. Ha posto i feltrini sotto le sedie e le poltrone provvedendo anche a porre dei tappetini antivibrazioni sotto gli elettrodomestici. In quella casa si può parlare tranquillamente a voce bassa anche quando c’è un disco che sta suonando.

Una volta mi è capitato di accompagnarla a fare la spesa e mi ha lasciato portare il cesto di vimini che usa d’abitudine, evita borse di plastica e soprattutto non ama l’accumulo di sacchetti. Sceglie con cura i prodotti, leggendo attentamente le etichette, acquista solamente prodotti biologici o biodinamici; mi dice che il maggior costo lo sente come un ottimo investimento per la sua salute e quella della sua famiglia. Sta molto attenta alla qualità degli alimenti ed evita di acquistare prodotti freschi che non siano stati coltivati nella sua zona. Per i prodotti di uso domestico e per la cura della persona preferisce evitare gli “usa e getta” ed è pronta a dirmi quanto sia importante mantenere questo comportamento.

Ha piantato dei nuovi alberi nel suo giardino, due peri e un ciliegio che faranno compagnia alle altre piante ed arbusti da frutto; dice che così potrà contribuire anche lei alla lotta contro l’effetto serra. Allo stesso tempo, e del tutto inconsapevolmente, perpetua una abitudine dei contadini di un tempo, che piantavano nuovi alberi di ulivo e di fico di cui non avrebbero mai visto i frutti, ma lo facevano pensando alle generazione future, e ciò senza esservi tenuti da alcuna legge, ma semplicemente perché i loro genitori, i loro nonni e tutti quelli che li avevano preceduti avevano fatto lo stesso.

Innaffia il giardino la sera quando la evaporazione dell’acqua è ridotta; mi spiega con una certa enfasi che in questo modo riesce ad economizzare sull’uso, in media di circa il 50%, ottenendo gli stessi risultati.

Utilizza tutta una serie di piccoli trucchi: il rilascio goccia a goccia, il recupero delle acque piovane; mantiene sotto le piante e le siepi uno strato di erba secca oppure una pacciamatura di frammenti di legno, per mantenere l’umidità al suolo. Utilizza esclusivamente prodotti naturali per la manutenzione del terreno. Il concime è fornito dal “cumulo biodinamico” un ingegnoso sistema che permette di compostare i rifiuti umidi della casa e le parti verdi che durante la manutenzione del giardino vengono rimosse. Evita di utilizzare pesticidi o concimi inorganici perché sono dannosi per la salute e allo stesso tempo contribuiscono all’inquinamento della falda acquifera. Per combattere i parassiti utilizza delle piante odorose che li allontanano, cipolla, aglio, basilico, ed altre essenze aromatiche. Ma anche frammenti di sigarette, con le quali prepara un’acqua speciale da spargere sulle foglie, oppure la cenere del suo camino.

Non bisogna giudicare troppo unilateralmente la mia amica. I più frettolosi penserebbero a una simpatica ingenua piena di tic o di manie, amante della natura e tutta immersa in una atmosfera new age. Si tratta invece di una signora di sessantaquattro anni, professionista affermata con autorevole studio professionale di consulenza aziendale in città, donna di nerbo e notevole competenza in campo. I suoi collaboratori, tutti amici rispettosi delle sue qualità, talvolta la prendono bonariamente un po’ in giro per queste sue abitudini; alcune volte mi associo a loro con molto affetto. Il suo stile impronta anche l’ufficio.

La carta utilizzata per una stampa che non è più necessaria, viene riutilizzata come fogli per appunti oppure per stampe da utilizzare nel lavoro di routine; raccolta differenziata per rifiuti dell’ufficio che vengono così riciclati: carta, cartucce per le stampanti, contenitori di cartone, ecc. Attenzione al consumo superfluo della energia elettrica perché, lei dice, gli uffici sono i luoghi dove è più facile sprecare energia. Utilizzo intelligente e funzionale della luce del giorno; le scrivanie sono strategicamente poste vicino le grandi finestre delle stanze.

Spesso, quando non vi sono impegni particolari, si raggiunge il lavoro prendendo una unica autovettura, quella della signora che passa a raccogliere gli altri ad un’ora stabilita; tutti sentono l’impegno di evitare inutili sprechi e soprattutto di contribuire a diminuire i danni dovuti al traffico automobilistico.

Dulcis in fundo, ciascuno dei professionisti e praticanti dell’ufficio, sono chiamati a rispettare alcune elementari regole di vita comune che essi stessi hanno stabilito e che rappresentano un riferimento di vita comunitaria e di deontologia professionale. In ciascuna stanza esse stanno in bella vista sulla parete di fronte al tavolo di lavoro.

Certo, per salvare il pianeta e assicurare un futuro accettabile ai nostri figli, occorrerebbero decisioni molto più importanti …. Ma l’esempio di una signora che ci aiuta a riflettere su questi problemi è comunque molto incoraggiante.

Grazie, signora Anneliese!

Subire bullismo e violenza sul lavoro aumenterebbe il rischio di malattie cardiovascolari

Le vittime di bullismo o violenza sul posto di lavoro hanno un rischio più elevato di problemi cardiovascolari e cerebrali, secondo il più ampio studio presentato fin ora sull’argomento e pubblicato sull’European Heart Journal.

I ricercatori guidati da Tianwei Xu, della University of Copenhagen, in Danimarca, hanno esaminato i dati di 79.201 lavoratori di entrambi i sessi in Danimarca e Svezia, di età compresa tra 18 e 65 anni e senza storia di malattia cardiovascolare, che avevano preso parte a tre studi iniziati tra il 1995 e il 2011.

All’inizio di ciascuno studio, ai partecipanti erano state chieste informazioni sul bullismo e sulla violenza sul posto di lavoro e sulla frequenza con cui avessero vissuto ciascuno di essi. Il 9% dei partecipanti ha riferito di essere stato vittima di bullismo sul lavoro e il 13% ha riferito di aver subito violenze o minacce di violenza sul lavoro nell’ultimo anno. Dopo aver aggiustato l’analisi tenendo conto dell’età, del sesso, del paese di nascita, dello stato civile e del livello di istruzione, i ricercatori hanno rilevato che coloro che erano stati vittime di bullismo o violenza sul posto di lavoro avevano un rischio più elevato rispettivamente del 59% e del 25% di malattie cardiovascolari rispetto a persone che non erano state esposte al bullismo o alla violenza.

Maggiore è stato il livello di bullismo o violenza, più è salito il rischio di malattia cardiovascolare. In particolare, rispetto alle persone che non hanno subito episodi di bullismo, le persone che hanno riferito di essere vittime di bullismo frequente nei 12 mesi precedenti avevano il 120% in più di rischio di malattia cardiovascolare, mentre quelli che erano esposti più frequentemente alla violenza sul posto di lavoro un rischio del 36% più alto di malattia cerebro-vascolare, ma non un corrispondente aumento del rischio di malattie cardiache.

Si suppone che l’aumento della pressione sanguigna sotto stress, ansia e depressione con conseguente consumo eccessivo di alcol siano meccanismi alla base di questo aumento del rischio. «Questi risultati richiedono un’attenta interpretazione e una replica indipendente» frena però in un editoriale di accompagnamento Christoph Herrmann-Lingen, dello University of Göttingen Medical Center, in Germania.

Per approfondire:
Eur Heart J. 2018. doi: 10.1093/eurheartj/ehy683
Eur Heart J. 2018. doi: 10.1093/eurheartj/ehy728

fonte: Doctor33

Il fattore umano e lo spirito del lavoro

Esiste, quindi, un legame tra tecnologia ben fatta e un lavoro ben fatto, tra un ambiente tecnologico di qualità e un lavoro di qualità e tra il beneficio di strumenti appropriati e il benessere dei loro utilizzatori?

Esiste. Ne ero convinto da tempo ed è arrivata una conferma “corale” dalla visione del film documentario di Giacomo Gatti “Il fattore umano – lo spirito del lavoro”. In esso si da conto di un viaggio attraverso l’Italia alla scoperta di quindici realtà aziendali distribuite sul territorio nazionale, con proprie prerogative economiche e produttive, culturali e sociali, ma unite da una visione comune, quella della “azienda socialmente sostenibile” e, contemporaneamente, quello della creazione del “senso” del loro agire.

Quelle aziende, raccontate dalle persone intervistate, quelle organizzazioni socio-tecniche, sono animate da un identico principio, da un comune denominatore che ispira la visione imprenditoriale: l’impresa non è solo profitto ma è soprattutto capacità di sviluppare risorse materiali e immateriali per il raggiungimento di un fine non solo finanziario. E’ cultura, è creatività, è un futuro da costruire insieme, innanzitutto nel rispetto dell’umanità e dignità dell’essere di ogni persona. Le donne e quegli uomini, che sono gli attori protagonisti dell’impresa, con i loro sogni, le loro abilità professionali, il loro impegno, la loro fedeltà, realizzano l’impresa e la trasformano ogni giorno in realtà produttiva di beni materiali e immateriali attraverso il loro atto creativo.

Dai viticoltori del Trentino agli operai della catena di montaggio, dai giovani sviluppatori di start-up ai medici che testano mani robotiche, dalle strisce di pasta di Gragnano alle frese di alta tecnologia, queste ed altre storie ancora, raccontano che il lavoro è elemento integrale ed integrante della persona nella società. Le imprese, le aziende, le istituzioni, dovrebbero rimanere i luoghi dove, mentre si costruiscono possibilità di espressione dei singoli, in cui le persone danno un senso alla propria attività, si cerca attraverso l’organizzazione, il raggiungimento di finalità economiche e sociali che vanno al di là del puro tornaconto finanziario.

Accomunate dalla bellezza del fare, come quel meccanico che si compiace per la qualità della saldatura che sta osservando. E’ un lavoro apparentemente banale che come tutti gli altri all’interno della catena di produzione, hanno un “senso” e una bellezza intrinseca (quando il lavoro è ben fatto) che nutre il cuore e la mente di chi lavora e restituisce dignità alla sua stessa opera. Ancora di più oggi, in un’epoca in cui la finanza e la tecnologia rischiano di trasformare le persone in robot e i robot in persone.

Ma è proprio l’umanità a fare la differenza. E’ il “fattore umano” lo spirito del lavoro. Sono le donne e gli uomini che fanno l’impresa e che investendo le loro peculiari caratteristiche individuali (non solo le competenze tecniche) si pongono in relazione con i piani, i progetti, le procedure, i prodotti, le attrezzature, gli ambienti di lavoro, le persone con le quali lavorano, i conflitti, le criticità ed anche gli insuccessi. Sono le persone, in ragione di quanto accennato che, allo stesso tempo richiamano attenzione, rispetto e riconoscimento.

Se penso a quante volte si è parlato di ecologia per il mondo vegetale, animale, delle acque e della terra, mi piace sottolineare che ci occupiamo poco di ecologia delle relazioni umane. E’ la qualità delle relazioni umane che alimenta lo spirito del lavoro. Con ciò vorrei anche considerare che stare bene all’interno dell’organizzazione di un’azienda, lavorare bene in un ambiente gradevole con un clima interpersonale favorevole, rende moltissimo.
Frutta in termini di ritorni economici materiali e soprattutto in termini di valore aggiunto (cultura, immagine, stili di vita, ecc.); giova ai collaboratori che sono più soddisfatti, ritenendosi riconosciuti e quindi maggiormente motivati; ha evidenza sul piano dell’engagement e della responsabilità sociale; produce qualità nel rapporto con il cliente e influisce direttamente sulla soddisfazione di quest’ultimo.

Nel momento in cui scrivo queste brevi annotazioni sul film di Giacomo Gatti, non posso fare a meno di ricordare che è passato oltre un secolo dalla prima formulazione del costrutto “fattore umano”. Fu Agostino Gemelli, che nel 1909 venne incaricato di svolgere alla Settimana sociale dei cattolici italiani una relazione dal titolo “Il fattore umano del lavoro”, su invito di G. Toniolo. Voglio anche segnalare che, nonostante si parli da circa un secolo di fattore umano e relazioni umane al lavoro, sembra che il riconoscimento di questi “valori” sociali ed economici non appartenga ancora alla piena consapevolezza di moltissime persone .

Sviluppare capacità collaborative

Sviluppare capacità collaborative non è facile e tantomeno alla portata di ognuno. I manager tuttavia e “in ogni caso” sono chiamati ad essere all’altezza del compito perché tale performance è uno dei punti cardine delle loro capacità. È ovvio pertanto che dalla qualità del management dipenderà in gran parte il successo o l’insuccesso dell’organizzazione. Ma come può un manager garantirsi il successo?

L’argomento è stato affrontato da ogni angolatura, con diversi approcci e altrettanti risultati, a volte viene detto con una certa enfasi che “il management è una disciplina e un’arte ove regna molta anarchia, tanto nella teoria che nella pratica”. La situazione è soprattutto intricata dal fatto che le persone sono, per loro natura, complicate anche se di solito si bada a selezionarle, formarle, incentivarle, ecc. Questo vale naturalmente sia per i “capi” che per i collaboratori e varrebbe la pena intanto evitare inutili tecnicismi per recuperare il buon senso e il gusto delle parole semplici; dare un volto preciso e un significato a termini quali management, manager, risorse umane, ecc.

L’impressione, molto spesso, è che queste parole siano del tutto vacue, (nel senso che ormai vivono soltanto) come contenitori di significati diversissimi tra loro e variabili in dipendenza delle situazioni aziendali; con il rischio che passino dal piano degli “ideali” a quello della “ideologia”.

Si pensi alla somma disparata dei concetti chiave del management come: gestione del cambiamento, management delle competenze, valutazione della performance, remunerazione per obiettivi, knowledge management, empowerment, e-learning, management proattivo e quant’altro. Per non parlare delle risorse umane: gestione giuridico amministrativa del personale, valutazione, reclutamento, mobilità, formazione, comunicazione interna, motivazione, leadership, ecc. ecc.

È facile perdersi. Se proviamo a metterci nei panni di chi è chiamato a navigare in queste acque, è facile vivere insieme ad essi un senso di smarrimento.

Ho ritrovato su alcune vecchie agende delle annotazioni che trovo ancora interessanti; brevi riflessioni, che credo non banali rispetto al tempo in cui le ho scritte.
Ne ho scelto cinquantadue, risalenti al 2002, 2003 e 2004, con l’intenzione di proporre un motivo di ispirazione settimanale per il corso dell’anno.
Questa è la n. 41: Sviluppare capacità collaborative (2003)