Home

L’antica infiorata di Gerano

Molte persone mi hanno chiesto informazioni sulla Infiorata di Gerano, un piccolo comune della provincia di Roma che mi ha dato i natali.

In questo paese ho vissuto fino all’età di diciotto anni e ho avuto la fortuna di apprendere ed esercitare l’arte dell’infioratore e sono molto legato a questa tradizione, così come i miei figli.

E’ sempre una gioia tornare a Gerano e l’attrazione maggiore è proprio l’infiorata in occasione della festa della Madonna del Cuore. In questi due anni, per le arcinote vicende sanitarie, non è stato possibile ritrovarsi tutti insieme ad ammirare quei lavori.

E proprio per questo motivo abbiamo deciso di mantenere vivo il legame con la “nostra” infiorata e rafforzare le radici e l’affetto che ci legano alla festa e ai geranesi, realizzando ( nel rispetto delle norme sociali e sanitarie vigenti) una microscopica infiorata nel borgo suggestivo di Via Berra a Milano, la zona in cui viviamo attualmente.

 

Le fonti storiche che contengono riferimenti sulla infiorata di Gerano sono molto scarse. Pare che nel 1625, il “soprastante alle masserizie della fabbrica vaticana” Benedetto Drei per la prima volta allestisse, in Vaticano, un mosaico con petali di fiori per ornare la tomba di san Pietro, nell’anniversario della morte. Quest’attività fu continuata da Lorenzo Bernini, che ricoprì lo stesso ruolo, e poi si diffuse tutt’attorno. Gerano, in provincia di Roma, è il paese che, secondo alcune fonti storiche attendibili, può vantare la più antica infiorata d’Italia.
Le cronache raccontano che intorno al 1770 fu chiamato a ricoprire l’incarico, che già fu del Drei e del Bernini, don Giuseppe Lelli, un geranese che presumibilmente insegnò ai compaesani quest’arte. A quella data si fa risalire la prima infiorata in onore della Madonna del Cuore, che già veniva venerata dal 1740. Una data certa è quella del 1789 in cui i geranesi si recarono nella vicina Subiaco ad allestire un’infiorata in omaggio a Papa Pio VI. Da quell’anno pare che Gerano non abbia perduto un appuntamento.

Nel 1867 un cronista anonimo raccontava: “Infrattanto suonano ancora le campane; e al farsi più alta la notte, una scelta di dilettanti del luogo, sulla spaziosa Piazza di S. Lorenzo, s’accampano a tessere un variato tappeto con mille maniere di fiori freschi e natii per quanto lunga e larga è la piazza e con tal preciso gusto, che contemplandolo attentamente nulla da meno vi trovi d’un magistrale tessuto. Ai soli portatori della graziosa macchina è permesso calcare quel meraviglioso conserto d’odorose fraganze; i sodalizi che l’accompagnano, al loro giungere, schieransi di mano in mano in due ali, alla guisa in che sono disposti i cordoni di verdura che ornano i laterali della piazza stessa.”
Oltre alle testimonianze scritte, negli archivi parrocchiali sono custodite le memorie fotografiche di oltre 120 infiorate. Anche in tempo di guerra i geranesi riuscirono a onorare la Madonna del Cuore con questi caratteristici tappeti.

Il piccolo paese del Lazio, gli abitanti non arrivano a 2000, pur vantando una tradizione secolare è oggi oscurato dal più famoso Genzano di Roma, che si fregia del titolo Paese dell’Infiorata. Ma lasciamo queste dispute alle ricostruzioni storiche, ed occupiamoci più a fondo di questa manifestazione di arte popolare molto interessante e poco conosciuta al di fuori dei luoghi dove viene praticata. Essa è, in poche parole, la realizzazione di un tappeto di fiori raffigurante motivi geometrici, persone, paesaggi, scene religiose. Non solo un tappeto effimero che, pur richiedendo molto lavoro di preparazione, dura al più una giornata, ma anche un tappeto sontuoso degno di accogliere una processione solenne.
L’effetto finale è di notevole impatto e comunica in un solo momento la devozione, l’abilità e il desiderio di essere ricordati degli esecutori.


Ma per arrivare al tappeto di fiori occorrono grandi preparativi, ai quali tutto il paese partecipa. Innanzitutto vanno scelti i soggetti tra i tanti bozzetti che vengono presentati dai bambini delle scuole, dai cittadini. Due temi sono fissi il cuore e le iniziali dell’Ave Maria, i restanti sette ogni anno cambiano: ricorrenze speciali, messaggi di pace, crocifissioni, scorci caratteristici della zona questi le raffigurazioni più ricorrenti. Pare che solo dal 1920 si cominciassero a riprodurre figure umane.
Qualche settimana prima del gran giorno si comincia a raccogliere e preparare i fiori. Una volta gli esperti del paese conoscevano a memoria l’ubicazione delle diverse piante nelle colline e nei campi e se la stagione era particolarmente indietro i raccoglitori dovevano spingersi molto lontano verso le zone più assolate e calde. Ora la maggior parte viene acquistata nei vivai, tranne le selvatiche ginestre, la villaggine e le cosiddette palle di neve. Però tutti gli altri preparativi sono rimasti gli stessi. Bisogna dividere i colori, sminuzzare tutte le corolle, togliere le foglie. Intanto la piazza, che è in leggero declivio, viene nuovamente squadrata in sette riquadri, più un rosone iniziale e una lunetta finale. Tutti partecipano, persino i bambini che sono fieri se possono dire: “Io ho aiutato a togliere le foglie!”.

Poi arriva il momento tanto atteso E’ ormai tutto pronto, manca la fase finale della realizzazione vera e propria. Il lavoro è piuttosto complicato. Innanzitutto bisogna riportare con il gesso sull’asfalto il disegno ingrandito del bozzetto. L’operazione non è semplice: gli infioratori si aiutano con lunghe righe di legno per tracciare linee diritte, con corda e chiodo si ottengono i compassi per segnare i cerchi, metri da falegname aiutano nelle misure e con i gessi di tutti i colori i disegni prendono forma lentamente. Una volta quando la piazza non era asfaltata la parte centrale era in terra battuta e i disegni venivano tracciati con un punteruolo e il solco veniva poi riempito con calce bianca.
Qualche particolare del disegno può essere posto in rilievo formandolo con la segatura ben pressata. Quando infine tutto il disegno è stato tracciato si cominciano a portare i fiori, che dopo essere stati tagliati vengono conservati, divisi per colore, in una fresca cantina. Arrivano le scatole e con pazienza, sempre in ginocchio, i minuscoli petali vengono disposti seguendo i contorni e le indicazioni di colore.

E’ da notare che a Gerano si usano solo fiori, mentre in altre località italiane si utilizzano anche fondi di caffè, segatura colorata etc. Del resto i fiori, in caso di pioggia, garantiscono una maggiore tenuta sul terreno e il lavoro non rischia di andare irrimediabilmente perduto.
Durante la notte della preparazione è tutto un rimandare di voci, chi assiste è impaziente, qualche volta si diverte a prendere in giro. I bambini scorazzano, felici di andare a letto tardi una volta tanto. Immancabili i ricordi: quella volta che continuò a piovere e i disegni a gesso venivano cancellati, quell’altra che il tale fece un capolavoro. I “personaggi” non si contano.

Questa è anche l’occasione per molti geranesi che abitano altrove di tornare in paese, e tra questi anche qualcuno che è stato infioratore e che spiega perché un disegno verrà meglio dell’altro, quali arguzie l’esperienza insegna.
In genere il lavoro dei nove gruppi finisce all’alba e già dal primo mattino la popolazione può ammirare lo splendido spettacolo della piazza completamente colorata. Una superficie di 250 mq, con i colori della primavera: ginestre per il giallo, calendula per l’arancione, il bosso per il verde, villagine per il viola, le palle di neve per il bianco, e poi gli iris, i garofani e le rose. Su questo tappeto effimero e profumato passeranno con grande cautela gli otto confratelli che trasportano il quadro della Madonna del Cuore.

Non solo a Gerano si usa “infiorare” le strade. Quest’arte particolare si è diffusa in molte parti dell’Italia centrale, e negli ultimi anni molti paesi ne stanno recuperando la tradizione o ne accolgono la novità come richiamo per i fedeli e i turisti.
E non è una tradizione solo italiana in quanto si è diffusa in altre parti del mondo.

Sostenibilità di un marketing dell’intangibile

Tra individualismo crescente e necessità di cooperazione, compartecipazione e condivisione.

Il progresso e la catastrofe sono il diritto e il rovescio della stessa medaglia
(Anna Arendt, 1968)

 

Il XX secolo è stato definito il secolo del progresso scientifico, il XXI sarà ricordato come quello del progredire delle catastrofi”. Sembra privo di speranza il futuro immaginato da Paul Virilio, un filosofo e urbanista francese che ha ideato la mostra “Ce qui arrive” alla Fondazione Cartier per l’arte moderna. A vedere la coda delle persone che attendono il proprio turno per visitarla – e si parla di oltre 20000 visitatori già passati – si direbbe che il desiderio dei molti che si spingono per andare a vedere le immagini catastrofiche e allo stesso tempo macabre (da Bhopal alla navetta Challenger, non trascurando le Twin Towers) è quanto mai indicativo di una certa evoluzione del gusto; che in un certo senso è quello poi dell’automobilista che rallenta per osservare meglio lo spettacolo dell’incidente.

Paul Virilio è uno dei più arguti uomini di pensiero del nostro tempo, una persona che riflette con disincanto sui diversi atteggiamenti intellettuali del mondo contemporaneo e ci mette in guardia – spesso servendosi di testimonianze veramente scioccanti – contro le idee troppo semplicistiche, troppo alla moda, eccessivamente lineari e prive di contraddizioni, che vengono offerte dai “media del tutto e subito” (medias de l’immediat). Quei messaggi che spesso hanno solo stillato il nettare del successo nascondendoci l’amaro calice di eventuali momenti di criticità; evitandoci la prospettiva della precarietà della certezza e la prevedibilità dell’accidente (Ce qui arrive). Un memento mori e un “dovere di memoria” anche presente nel catalogo della mostra, che diventa ineluttabile di fronte a quelle creazioni del progresso che in vario modo hanno scotomizzato il loro inevitabile pendant, gli eventi critici nelle loro varie forme: dall’incidente fino alle catastrofi, il rovescio della medaglia.
Immagini di incidenti aerei, treni deragliati, navi in procinto di essere inghiottite dai flutti; immagini di attentati (che potremmo chiamare incidenti volontari) , pellicole impressionate da irradiazioni, interviste filmate, ma anche opere di artisti che mettono in scena l’instabilità attraverso l’uso di oggetti, suoni, fotografie: segnali di una catastrofe imminente o soltanto possibile.

Se dovessimo definirla dovremmo parlare di una mostra che “mette in guardia”, che non stimola il compiacimento e ci spinge a cercare altrove il senso delle crisi che stiamo vivendo.
Tolstoi o Manzoni ci avrebbero offerto altre immagini. Altri tempi. Nella sostanza però il discorso non cambia. Le trasformazioni dei “mondi” passati, le mutazioni e le contemporanee crisi attuali – talvolta molto profonde – non hanno carattere esclusivamente sociale o economico, esse sono prima di tutto umane e individuali, riguardano le persone e il loro mondo interiore.

Certamente, la paura del domani (del doman non v’è certezza) accompagna l’essere umano sin dall’antichità e l’incertezza non è un fenomeno nuovo; tuttavia essa si inserisce in un contesto diverso rispetto al passato. In qualche modo la globalizzazione ha finito per fare piazza pulita degli ultimi punti di riferimento “sicuri” ed è diventato sempre più evidente quello che già nel Rapporto Censis 1998, ad esempio, era stato definito il disagio dei “piccoli popoli” di produttori e consumatori che hanno come solo destino quello di navigare nel mare dei processi macro di mondializzazione.

Lo smarrimento si registra dappertutto. Mancano o fanno difetto i sistemi importanti, la famiglia, lo stato e la bandiera; un contesto affettivo di vicinato, con i suoi codici fondati sul rispetto per l’autorità e soprattutto sul rispetto della persona. Sembra che tutto sia andato o stia andando in frantumi. Si perde il contatto con i riferimenti morali, sociali, economici, politici… E a differenza del mondo descritto da Tolstoi o da Manzoni, questo nostro ha perduto il suo senso religioso della carità e della comunità. Da una parte ciascuno di noi sente di poter fare a meno del “maestro” e agire in prima persona investendo tutta la sua responsabilità; dall’altra ognuno può accorgersi che quando la individualità (individualismo) trionfa e prende le distanze dal “sociale”, il contesto non gli offre più la cintura di sicurezza di un tempo.

Le cause sono sicuramente importanti, molteplici e di vario ordine, ma a guardar bene la situazione non possiamo trascurare che è avvenuto un forte cambiamento nelle persone e che ciascuno è cambiato di fronte a una forte sproporzione tra le attese individuali e le prospettive del futuro. Si percepisce una lacerante mancanza di prospettiva personale e diventa sempre più larga la sproporzione tra le esigenze di maggiore coinvolgimento nel lavoro e le attese individuali in termini di qualità della vita. Nel caso del lavoro ormai è evidente che non basta più proporre “ponti d’oro” alle persone se esse non hanno più il tempo di vivere; se esse non hanno più un minimo di disponibilità interiore e di serenità (fondamentale per ognuno di noi).

Lo stesso concetto del lavoro definisce una realtà che è molto diversa rispetto a quella degli anni passati, attualmente il lavoro sta assumendo sempre di più gli aspetti della precarietà professionale; siamo nell’era dei lavoratori “mutanti”. A tutto ciò si aggiunge la sensazione che “la festa è finita”, che non torneranno più i begli anni di un tempo e che il sacrosanto progetto di vita personale molto spesso (si potrebbe dire sempre) non rappresenta più un progetto e un’aspettativa individualizzata. Molte persone oggi si occupano soprattutto di sopravvivere allo stress e ciò dimostra con evidenza che – almeno per certuni – il limite è stato ormai raggiunto.

I riferimenti certi si sfilacciano lasciando vuoto lo spazio dei valori e delle speranze; in questa condizione di incertezza mancano le prospettive, i progetti, i sogni di futuro. L’incertezza diventa una realtà tangibile con la quale saremo chiamati a porci in relazione costantemente; ma è proprio a partire dalla gestione efficace delle instabilità che diventeremo capaci di stillare la “qualità” della nostra vita. Negoziando con costanza tra la nostra vita privata e quella professionale, per un equilibrio continuamente instabile.
In realtà la questione riguarderà essenzialmente il nostro mondo relazionale nel quale ciascuno di noi dovrà far fronte al carattere imprevedibile e inatteso del suo interlocutore: marito/moglie, figlia/figlio, del collaboratore o del capo, del cliente o del fornitore, ecc.; comportandosi possibilmente in un modo pro-positivo piuttosto che reattivo.

L’incertezza è più che mai compagna della nostra vita ed è presente nelle nostre prospettive personali e nelle nostre relazioni individuali; inoltre, è legata a un nostro limite percettivo che molto spesso trascuriamo.

Del resto, non siamo stati preparati per affrontare la realtà. A scuola ci hanno trasmesso la cultura della “certezza” e una visione abbastanza rigida del mondo. La nostra educazione, e più tardi il mondo professionale ci ha incoraggiato a fissare la realtà non certa in schemi di probabilità che a lungo andare ci sta abituando a sostituire il “prevedibile” o il “programmato” con la realtà che emerge e che non può essere repertoriata a priori.

Lo smarrimento è una realtà alla quale non si può far fronte con delle tecniche rigide e alla fin fine inadatte alle situazioni che cambiano continuamente. Conviene dunque riprendere in considerazione la persona, anima e corpo (senza dimenticare l’elemento spirituale individuale) e ciò che essa possiede in termini di qualità di adattamento e di comprensione di fronte all’incertezza del cambiamento e dell’emergenza. Comprendere opportunamente che le situazioni sono in costante mutamento e che ogni strategia previsionale dovrà, per forza, confrontarsi con una realtà imprevedibile. E sappiamo bene ormai che la capacità di adattamento delle persone di fronte a una realtà nuova dipende dallo stato d’animo e dalla capacità di esse di integrare i vari aspetti della realtà.
Considerare in modo nuovo, da punti di vista ulteriori, la vita professionale e privata, guidandole consapevolmente tra i flutti dell’incertezza e dell’imprevedibilità.

Un mondo diverso è possibile
Soprattutto per chi sceglierà di affrontare le crisi con umiltà, umanità e umorismo.

 

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta, con lo stesso titolo su MKT, gennaio 2003. Ho l’impressione che l’argomento possa stimolare ancora molte riflessioni

Essere sé stessi. Non solo sopravvivere o adattarsi.

“Durante una vacanza sul Pacifico, me ne stavo su alcune sporgenze rocciose a guardare le onde infrangersi sugli scogli, notai con sorpresa, su una roccia, qualcosa come dei piccoli fusti di palma, non più alti di 70-80 cm, che ricevevano l’urto del mare. Attraverso il binocolo vidi che si trattava di un certo tipo di alghe costituito da un fusto snello e un ciuffo di foglie posto in cima. Osservandole nell’intervallo fra un’onda e l’altra sembrava evidente che il fusto fragile, eretto, dalla chioma pesante, sarebbe stato completamente schiacciato e spezzato dall’onda successiva. Ma quando l’onda gli si abbatteva sopra, il fusto si piegava paurosamente e le foglie venivano sbattute fino a formare una linea diretta dallo scorrere dell’acqua. Tuttavia, non appena l’onda era passata, ecco di nuovo la pianta diritta, resistente, flessibile. Sembrava incredibile che un’ora dopo l’altra, giorno dopo notte, per settimane e forse per anni, potesse resistere a questo urto incessante, e per tutto il tempo potesse nutrirsi, affondare le proprie radici e riprodursi. In breve, potesse mantenere e migliorare se stessa attraverso un processo che, nel nostro linguaggio, chiamiamo crescita. Con la tenacia e la persistenza della vita, la capacità di resistere in un ambiente incredibilmente ostile, riuscendo non soltanto a sopravvivere, ma ad adattarsi, a svilupparsi, a “essere se stessa.”

Questo breve appunto biografico di C. Rogers aiuta a porre in risalto come, in tutti i regni della natura, la vita sia un processo attivo, non passivo. Portando a considerare che, prescindendo dalla provenienza dello stimolo, dal fatto che l’ambiente possa essere favorevole o sfavorevole, l’organismo tende ad assumere forme adatte a mantenere, migliorare e riprodurre se stesso. Sicuramente questa è una descrizione molto generica del fenomeno, ma rappresenta in modo adeguato (almeno nell’economia di questo scritto) la natura propria del processo, in continuo divenire, chiamato “vita”. Cioè quella tendenza intrinseca negli organismi viventi che è presente in ogni momento della loro esistenza. Infatti, è solamente la evidenza o l’assenza di questo processo che può darci la possibilità di dire se un dato organismo è vivo o morto.

Mi è spontaneo pensare al racconto quando capita di incontrare clienti che vivono la loro situazione definendola molto complicata e difficile. Vogliono cambiare e non sanno come fare, sentendosi schiacciati dai loro fardelli personali. A un esame superficiale le loro storie possono sembrare problematiche, disturbate, sorprendenti. Le condizioni in cui queste persone sono cresciute, hanno vissuto la loro esistenza, di solito non sono state molto agevoli e sicure … eppure, ogni volta che si presenta l’occasione, possono contare su una tendenza profondamente volitiva che alberga in loro.

La chiave per comprendere quel modo di essere è che esse stanno lottando, persone ed anche organizzazioni di persone, con le uniche modalità che sentono di avere a disposizione, per muoversi verso la crescita, verso il divenire: per uscir fuori da quella condizione di sofferenza. A chi in quel momento osserva la scena dall’esterno e non sta vivendo quei problemi, i tentativi possono sembrare inammissibili e inspiegabili ma essi sono i coraggiosi, autentici, tentativi della vita di diventare se stessa. È un modo di essere, una forte tendenza che cerca di affermare un processo di crescita costruttivo.

A partire da queste considerazioni, emerge con evidenza il fatto che quando le circostanze sono favorevoli, l’organismo cerca di superare se stesso, raggiungendo un grado di armonia e di integrazione superiori. E – per esperienza – mi sento di affermare che quell’essere bio-psico-sociale vive una condizione di sviluppo costantemente attivo, in virtù di un processo intrinseco naturale, perché in natura non esiste un processo vitale che giunge definitivamente a completezza e stabilità. Di conseguenza, posso anche rilevare sia gli elementi che favoriscono la crescita e sia le modalità attraverso le quali tale crescita può essere facilitata o incoraggiata.

Le caratteristiche generali degli esseri viventi assumono negli umani forme molto più complesse e singolari. Nelle persone le forze “naturali” appartenenti alla sfera vegetativa e quelle legate alla “istintualità” sono certamente meno attive ed evidenti, essendosi metamorfosate in capacità superiori tipiche dell’umanità. Ciò ha portato la persona a crescere individualmente, ad interiorizzarsi sempre di più, ad evidenziare la unicità e la irripetibilità del prorio Io, in un processo continuo di crescita spirituale. Sottolineando così la diversità e la differenza esistente tra ciascun essere umano.

Tuttavia, per essere “Io” bisogna essere almeno in due. Non è possibile crescere se si è da soli, l’Io si trova in divenire soltanto in rapporto a un Tu, solo nel momento in cui si confronta con l’altro. François de Singly ha sviluppato il tema della costruzione/ricomposizione dell’identità adulta all’interno delle relazioni ed ha evidenziato una struttura a quattro termini: un sé visto da sé stessi e un sé visto dagli altri, sdoppiati a loro volta in un sé intimo, privato, e un sé “sociale”, quello che da statuto a una persona. Mettendo in evidenza che la questione dell’identità che sta alla base della definizione di sé, non è mai compiuta una volta per tutte ma richiede costanti aggiornamenti o riaggiustamenti. Quanto detto aiuta a comprendere anche che la costruzione dell’identità diventa un progressivo svelamento e/o rafforzamento di sfaccettature nascoste di noi stessi, da parte di altre persone significative.

Ecco dunque, che per lo sviluppo spirituale-identitario dell’essere umano “l’ambiente” che può facilitare o ritardare la sua crescita diventa maggiormente complesso e complicato dalla presenza e dalla necessità delle relazioni interpersonali che sono alla base della sua esistenza.

La compassione non sarà sufficiente

A margine della giornata mondiale delle infermiere e degli infermieri che viene celebrata oggi, in coincidenza anche con i 200 anni dalla nascita di Florence Nightignale, fondatrice dell’infermieristca moderna,

credo sia chiaro a tutti noi che sorge o, meglio, rinasce un interesse generale per la sofferenza e il superlavoro del personale ospedaliero e di tutti gli operatori socio-sanitari.

Un interesse sicuramente spinto dalla terribile dall’emergenza della pandemia Covid-19, sollecitato anche dalla comunicazione mediatica che, giustamente, ci invita a prenderci cura di medici e infermieri e a sostenerli.

Sicuramente in molti lo stiamo facendo e in questo particolare momento, fintanto che il virus continua a limitare la presenza fisica, sono ovviamente disponibile ad ascoltare storie a volte terribili con la necessaria attenzione e compassione. Da parte mia, fornendo un supporto professionale che ho affinato nel corso degli anni anche grazie alle esperienze di altri professionisti che in precedenza ho assistito.

Tuttavia, mi rendo conto non sarà sufficiente questo aiuto psicologico e umanitario.

Secondo me non sarà sufficiente perché la maggior parte dei problemi che affrontano quotidianamente gli operatori sanitari, non dipendono dai loro spazi intrapsichici, dal loro inconscio, dai tratti della loro personalità o dalle loro nevrosi.

Certo, emerge in questo momento, in molti casi, una condizione di stress intenso che occorre alleviare attraverso debrifing adeguati o, nei casi più complessi, supportare con interventi più strutturati.

Tuttavia – continuo a credere – se vogliamo prenderci cura del lavoro dei medici e degli operatori sanitari, se vogliamo sostenerli e riconoscere il loro impegno e dare un senso al loro sacrificio,

dovremo prenderci cura delle loro condizioni di lavoro materiali, della carenza di personale, dell’assenza di dispositivi di protezione adeguati, degli orari di lavoro, del razionamento forzato delle risorse sul territorio, del sacrificio individuale che viene costantemente richiesto loro dietro la maschera dell’eroismo.

Ecco perché dico che la compassione non sarà sufficiente. L’eroizzazione del sacrificio degli operatori sanitari ancora meno.

La minaccia e la grazia

Capita di trovarci di fronte a una situazione difficile in cui non sappiamo cosa fare, non abbiamo idea di come affrontarla. Oppure ci mancano gli strumenti necessari per intervenire in modo efficace su di essa. Di conseguenza, non possiamo agire in modo adeguato.
Può essere un evento, un compito o una prova che in quel momento fa emergere il limite delle nostre possibilità ed è da noi vissuto con un certo grado di disagio.

Il segnale della nostra inadeguatezza si esprime attraverso l’ansia che a sua volta sottintende l’entità della nostra fatica psicofisica o del nostro stress. Tutto questo può capitare in modo sporadico. Altre volte, invece si presenta quotidianamente: in famiglia, a scuola, al lavoro, ecc.

Un momento in cui non riusciamo a raggiungere l’obiettivo, a realizzare cioè un compito che abbiamo di fronte, può – in moltissimi casi – tramutarsi in una minaccia nei nostri confronti. Lo viviamo inconsciamente come un attacco alla nostra autostima, uno sconvolgimento della nostra zona di confort.

Tuttavia, quando stiamo vivendo una tale situazione, avremmo la possibilità di dire: “io mi sento minacciato da questa difficoltà e posso lottare, posso far fronte al pericolo incombente per la mia autostima”.

Ad esempio, in linea del tutto schematica, nel caso ci trovassimo nella situazione appena descritta, potremmo renderci conto di quanto sta accadendo in due modi:

Possiamo entrare in contatto con il nostro corpo, attraverso il quale ci “sentiamo” e “comprendiamo” qual è la situazione interiore, valutando così le nostre energie e risorse (bisogna considerare però che tale situazione potremmo viverla anche come minaccia e in questo caso il “sentirci” in tale stato può diventare l’anticamera dello stress).

Abbiamo la capacità di entrare in contatto con l’esterno, verificare e valutare. Per comprendere se il nostro “potere” personale è sufficiente e adeguato per affrontare la situazione. Vivremo pertanto l’evento come sfida e nel momento in cui viviamo qualcosa in termini di competizione, ci attiviamo in modo sicuramente positivo. E’ il modo migliore per affrontare i problemi, anche se, naturalmente, non è sempre possibile interpretare o re-interpretare gli eventi in termini di “superamento di Sè”.

C’è, tuttavia, un rischio incombente, quello di voler vincere ad ogni costo, di superare con ingenuità e entusiasmo sprezzante il limite che si pone come sfida; e allora …
E’ facile rimanere impantanati nelle nostre emozioni.