Archivio dei tag sviluppo organizzativo

La linea d’ombra nella continuità dell’azienda familiare

Lasciare il timone è un’impresa eroica; il senior che lo cede compie un grande sacrificio. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquisire credito e ispirare fiducia, hanno sostenuto nel tempo gli investimenti d’energie e di capitali; allo stesso tempo hanno reso la sua vita un viaggio interessante ed avventuroso. In futuro sarà tutto diverso per lui.

Chi sarà chiamato a succedergli, ancora prima di assicurare continuità all’azienda e dare inizio ad un nuovo ciclo d’espansione, dovrà attraversare la sua linea d’ombra. Si troverà da una parte a sentirsi in obbligo di garantire la continuità aziendale – perché non è certo utile ad alcuno che l’azienda perda valore – dovendo allo stesso tempo assumersene le responsabilità.

Dall’altra parte proverà sentimenti ed emozioni contrastanti come ha descritto efficacemente in una bella canzone il cantante Jovanotti (cfr. La linea d’ombra, nell’album “l’albero”).

Egli da voce ad un giovane a cui è affidato un incarico di responsabilità e per la prima volta nella vita si trova a considerare quello che lascia e a non sapere immaginare ciò che troverà.
Incaricato di portare una “nave” verso una rotta che nessuno conosce in dettaglio e in un momento di stabilità precaria, egli considera quanto è più facile stare in mare se sono gli altri a far la direzione.

Gli è stato detto “che una nave ha bisogno di un comandante, che la paga è interessante e che il carico è importante”. Il pensiero della responsabilità però è enorme.

Quella del giovane protagonista – narra la canzone – è un’età in cui si sa come si stava e non si sa dove si sta andando e che cosa si sarà. Nella quale la dimensione delle responsabilità che si hanno nei confronti degli esseri umani che ti vivono accanto non è ancora ben chiara. Un’età dove ogni mossa “può cambiare la partita intera e si ha paura di essere mangiato”.

In cui non si sa ancora cos’è il coraggio, “se prendere o mollare tutto, se scegliere la fuga o affrontare questa realtà difficile da interpretare ma bella da esplorare”.

Tuttavia, pur non potendo ancora immaginare cosa avverrà, una volta “attraversato il mare e portato questo carico importante a destinazione”, quel timoniere accetterà un compito così sfidante e dirà che è pronto a partire. Studierà le carte e quando sarà il momento dirà “levate l’ancora diritta, avanti tutta: questa è la rotta, questa è la direzione, questa è la decisione”.

Tornando al passaggio del timone aziendale, dobbiamo riconoscere che in realtà è del tutto assente, nell’agire di molte aziende familiari, la definizione di obiettivi e modalità per raggiungerli e verificarli. Appare spesso inconcepibile, per l’imprenditore che vuole cedere il comando, riflettere sulla opportunità di pianificare una successione sulla base di una ponderata valutazione della strategia aziendale, delle deleghe da assegnare, delle competenze necessarie per raggiungere quegli obiettivi.

In un modo del tutto implicito, un senior si aspetta che anche i successori, da lui immaginati identici per competenze e conoscenze, riusciranno nell’impresa così come lui è riuscito a raggiungere il successo, superando le prove e gli ostacoli insiti nel proprio percorso imprenditoriale.

Quest’implicita riflessione o, meglio, attribuzione di senso e significato, porta il senior ad organizzare per il successore o i successori delle prove di ingresso che riecheggiano quelle alle quali egli è stato sottoposto in giovane età e che ritiene “naturale” far passare anche ai successori. Nell’inconscio tentativo di guidare il destino del figlio/figli, quasi fosse il prolungamento di quello proprio e in una dinamica emotiva, già nota alla psicologia sociale dalla seconda metà del secolo scorso, che Heider (1958) aveva definito con il termine Fundamental Attribution Error.

Ciò rappresenta un elemento di criticità, in quanto pone un insieme di problemi nei rapporti interpersonali e scarsa chiarezza di ruoli. Generando spesso, nella fase del passaggio generazionale e anche successivamente, conflitti a partire dalla omogeneità/eterogeneità degli schemi cognitivi (i cosiddetti assunti di base) delle persone in gioco e delle loro rappresentazioni della realtà e delle evoluzioni future.

Pertanto, non si tratta più semplicemente di un “ricambio” o “passaggio” generazionale quanto di una “integrazione” di generazioni; o, meglio, di una mediazione di punti di vista legittimamente differenti), volta a definire un piano di Sviluppo Generativo Competitivo, capace di creare nuove opportunità e nuove ricchezze per l’azienda e la famiglia.

Lavorare in un futuro digitale: quali sono i rischi per la sicurezza e la salute?

L’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro ha pubblicato i risultati di un importante progetto biennale per anticipare gli effetti della digitalizzazione sulla sicurezza e la salute sul lavoro nell’UE.

Le tendenze indicano che entro il 2025 le tecnologie basate sulle TIC avranno cambiato le attrezzature, gli strumenti e i sistemi utilizzati per organizzare, gestire e fornire prodotti, servizi e conoscenze. Lo studio OSHA analizza i potenziali effetti della digitalizzazione: robotica collaborativa, intelligenza artificiale, Internet of Things, veicoli autonomi, bionica, realtà virtuale e aumentata, tecnologia indossabile, big data, stampa 3D e 4D e piattaforme online.

Per fare questo, sono stati sviluppati quattro scenari di vita professionale nel 2025. Prendono in considerazione il contesto sociale, tecnologico, economico, ambientale e politico. Questi scenari tengono conto anche delle potenziali differenze nell’atteggiamento dei governi e del pubblico rispetto agli sviluppi digitali. Stanno anche esaminando il livello di crescita economica e l’applicazione delle nuove tecnologie nei prossimi anni. Una serie di potenziali impatti che gli sviluppi della tecnologia digitale potrebbero avere su OHS viene esplorata per generare un dibattito informato su come una pianificazione e uno sviluppo di politiche solidi potrebbero plasmare il futuro di OHS in un mondo digitale.

Le sfide e le opportunità OHS sono esaminate individualmente in ogni scenario. Ma vengono anche identificate le domande comuni a tutte e quattro le ipotesi. Alcuni risultati positivi sono attesi: grazie alla robotica e all’automazione, ad esempio, le persone avranno meno probabilità di lavorare in ambienti tradizionalmente pericolosi.

Tuttavia, i fattori psicosociali e organizzativi possono diventare più importanti quando il lavoro digitalizzato porta a cambiamenti, come l’aumento della sorveglianza dei lavoratori, l’assunzione della disponibilità 24 ore su 24, 7 giorni su 7, cambiamenti di lavoro più frequenti e la gestione del lavoro e dei dipendenti mediante algoritmi. Tutto ciò può aumentare il livello di stress dei lavoratori. L’aumento dei rischi ergonomici, causato dalle HMI e dalla crescita del lavoro elettronico e mobile, e l’aumento dei rischi di cybersicurezza, sono identificati anche come probabili esiti di una maggiore digitalizzazione su Internet. il posto di lavoro.

Ulteriori informazioni:

Prospettive in merito ai rischi nuovi ed emergenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro correlati alla digitalizzazione nel periodo fino al 2025

Dai un’occhiata al fumetto “Prevedere i rischi nuovi ed emergenti in materia di SSL connessi alla digitalizzazione entro il 2025

Scopri di più sull’evoluzione delle TIC e sulla digitalizzazione del lavoro


Grazie, signora Anneliese!

Lo sviluppo sostenibile non è una trovata degli economisti, perché la signora Anneliese, donna parsimoniosa ma non taccagna, lo pratica con solerzia e del tutto inconsapevolmente da quando era bambina.

Me ne ha mostrato la tangibile utilità durante un soggiorno in montagna,  una valle alpina ove è ancora possibile stare in contatto profondo con la natura e le persone.

Nella vita di tutti i giorni, segue una forma di “responsabilità sociale” che nella sua semplicità mostra alcuni comportamenti molto consonanti con lo spirito dell’economia ecologica.

Ad esempio, soddisfare i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future a rispondere ai loro; agire in modo che gli effetti della propria azione siano compatibili con il manifestarsi di una vita autenticamente umana sulla terra. Che, d’altra parte rappresenta anche l’applicazione pratica del principio di responsabilità del filosofo Hans Jonas.

La signora economizza l’acqua. Preferisce fare una rapida doccia al posto del bagno, chiude l’acqua del rubinetto quando si lava i denti o le mani, è riuscita addirittura a fare installare dei riduttori di flusso per limitare il consumo; ha infilato nella cassetta dello scarico una bottiglia piena di sabbia, così può risparmiare un litro di acqua ad ogni rilascio.

Risparmia energia. Mette in funzione la lavatrice e la lavapiatti soltanto quanto sono a pieno carico, oppure quando è il caso, utilizza il programma. Sbrina il frigo periodicamente per evitare un consumo maggiore; usa gli apparecchi elettrici solo per il tempo necessario, misura con pignoleria la temperatura delle sue stanze, utilizza lampade a basso consumo. Utilizza al massimo la luce naturale; le sue attività di solito passano vicino la finestra della cucina, del soggiorno (quando ricama); sogna una casa costruita secondo i canoni del “naturale”, con materiali e sistemi di illuminazione e riscaldamento che rispettino l’ambiente circostante.

Esegue la raccolta differenziata. Seleziona con meticolosità gli scarti degli usi domestici (piccoli imballaggi, bottiglie di plastica, vetro, carta, metalli vari) tenendo conto dei suggerimenti dati dalla pubblica amministrazione e, se la raccolta diversificata non ha un deposito proprio vicino alla sua casa, prende le sue raccolte e le trasporta nella “discarica” più vicina. Sta molto attenta anche a tenere da parte i resti dei prodotti chimici che usa per il suo bricolage e l’olio utilizzato per le sue ottime fritture. Mi ha riferito che un litro di olio può ricoprire una superfici d’acqua di circa mille metri quadrati, impedendo la ossigenazione della flora e della fauna del lago. Porta nel contenitore della farmacia i medicinali inutilizzati e quelli scaduti.

Ha un rispetto religioso della quiete. E’ stata molto scrupolosa a garantire una ottima qualità acustica nel suo appartamento, usando con molto garbo tende di vario colore, in accordo con i pavimenti in legno e i quadri alle pareti. Ha posto i feltrini sotto le sedie e le poltrone provvedendo anche a porre dei tappetini antivibrazioni sotto gli elettrodomestici. In quella casa si può parlare tranquillamente a voce bassa anche quando c’è un disco che sta suonando.

Una volta mi è capitato di accompagnarla a fare la spesa e mi ha lasciato portare il cesto di vimini che usa d’abitudine, evita borse di plastica e soprattutto non ama l’accumulo di sacchetti. Sceglie con cura i prodotti, leggendo attentamente le etichette, acquista solamente prodotti biologici o biodinamici; mi dice che il maggior costo lo sente come un ottimo investimento per la sua salute e quella della sua famiglia. Sta molto attenta alla qualità degli alimenti ed evita di acquistare prodotti freschi che non siano stati coltivati nella sua zona. Per i prodotti di uso domestico e per la cura della persona preferisce evitare gli “usa e getta” ed è pronta a dirmi quanto sia importante mantenere questo comportamento.

Ha piantato dei nuovi alberi nel suo giardino, due peri e un ciliegio che faranno compagnia alle altre piante ed arbusti da frutto; dice che così potrà contribuire anche lei alla lotta contro l’effetto serra. Allo stesso tempo, e del tutto inconsapevolmente, perpetua una abitudine dei contadini di un tempo, che piantavano nuovi alberi di ulivo e di fico di cui non avrebbero mai visto i frutti, ma lo facevano pensando alle generazione future, e ciò senza esservi tenuti da alcuna legge, ma semplicemente perché i loro genitori, i loro nonni e tutti quelli che li avevano preceduti avevano fatto lo stesso.

Innaffia il giardino la sera quando la evaporazione dell’acqua è ridotta; mi spiega con una certa enfasi che in questo modo riesce ad economizzare sull’uso, in media di circa il 50%, ottenendo gli stessi risultati.

Utilizza tutta una serie di piccoli trucchi: il rilascio goccia a goccia, il recupero delle acque piovane; mantiene sotto le piante e le siepi uno strato di erba secca oppure una pacciamatura di frammenti di legno, per mantenere l’umidità al suolo. Utilizza esclusivamente prodotti naturali per la manutenzione del terreno. Il concime è fornito dal “cumulo biodinamico” un ingegnoso sistema che permette di compostare i rifiuti umidi della casa e le parti verdi che durante la manutenzione del giardino vengono rimosse. Evita di utilizzare pesticidi o concimi inorganici perché sono dannosi per la salute e allo stesso tempo contribuiscono all’inquinamento della falda acquifera. Per combattere i parassiti utilizza delle piante odorose che li allontanano, cipolla, aglio, basilico, ed altre essenze aromatiche. Ma anche frammenti di sigarette, con le quali prepara un’acqua speciale da spargere sulle foglie, oppure la cenere del suo camino.

Non bisogna giudicare troppo unilateralmente la mia amica. I più frettolosi penserebbero a una simpatica ingenua piena di tic o di manie, amante della natura e tutta immersa in una atmosfera new age. Si tratta invece di una signora di sessantaquattro anni, professionista affermata con autorevole studio professionale di consulenza aziendale in città, donna di nerbo e notevole competenza in campo. I suoi collaboratori, tutti amici rispettosi delle sue qualità, talvolta la prendono bonariamente un po’ in giro per queste sue abitudini; alcune volte mi associo a loro con molto affetto. Il suo stile impronta anche l’ufficio.

La carta utilizzata per una stampa che non è più necessaria, viene riutilizzata come fogli per appunti oppure per stampe da utilizzare nel lavoro di routine; raccolta differenziata per rifiuti dell’ufficio che vengono così riciclati: carta, cartucce per le stampanti, contenitori di cartone, ecc. Attenzione al consumo superfluo della energia elettrica perché, lei dice, gli uffici sono i luoghi dove è più facile sprecare energia. Utilizzo intelligente e funzionale della luce del giorno; le scrivanie sono strategicamente poste vicino le grandi finestre delle stanze.

Spesso, quando non vi sono impegni particolari, si raggiunge il lavoro prendendo una unica autovettura, quella della signora che passa a raccogliere gli altri ad un’ora stabilita; tutti sentono l’impegno di evitare inutili sprechi e soprattutto di contribuire a diminuire i danni dovuti al traffico automobilistico.

Dulcis in fundo, ciascuno dei professionisti e praticanti dell’ufficio, sono chiamati a rispettare alcune elementari regole di vita comune che essi stessi hanno stabilito e che rappresentano un riferimento di vita comunitaria e di deontologia professionale. In ciascuna stanza esse stanno in bella vista sulla parete di fronte al tavolo di lavoro.

Certo, per salvare il pianeta e assicurare un futuro accettabile ai nostri figli, occorrerebbero decisioni molto più importanti …. Ma l’esempio di una signora che ci aiuta a riflettere su questi problemi è comunque molto incoraggiante.

Grazie, signora Anneliese!

Roncadin, una storia di operosità silenziosa, solidarietà, efficienza. La fabbrica rinata sulle sue ceneri

Un incendio devastante che distrugge lo stabilimento, quattro linee produttive su sei, molte delle strutture di servizio. Un anno dopo: ricostruzione quasi completa, una nuova, efficientissima linea già in funzione, il fatturato difeso fino all’ultimo euro, neppure un posto di lavoro bruciato.

Nell’Italia dei cantieri eterni e della burocrazia infinita quella della Roncadin di Meduno, provincia di Pordenone, profondo Nord-Est, è una storia fuori dall’ordinario.

Una storia di operosità silenziosa, solidarietà, efficienza. Qui, ai piedi delle Dolomiti friulane, il senso del dovere è qualcosa che non ha bisogno di essere invocato, è un cromosoma nel patrimonio genetico della gente, è così sacro che l’han fatto santo: San Scugnì. In lingua friulana, il senso del dovere, appunto.

La Roncadin, fondata all’inizio degli anni 90 dalla famiglia di Fiume Veneto, 40 chilometri più a Sud, produce pizze surgelate per la grande distribuzione. Cinquecento dipendenti, 100 milioni di fatturato, il 70% all’estero: Germania, Gran Bretagna, Stati Uniti. Venduta al gruppo Arena, finita nelle mani di uno speculatore spregiudicato, poi ricomprata agonizzante dalla famiglia e affidata al figlio di Edoardo, Dario Roncadin, all’epoca trentenne: da 9 milioni di fatturato a 100 in dieci anni.

La cronologia degli ultimi dodici mesi parla da sola: il 22 settembre 2017, un venerdì alle otto di sera, un terribile incendio distrugge gran parte dell’area produttiva. I vigili del fuoco sono ancora al lavoro e già nella portineria è insediata l’unità di crisi. Il sabato e la domenica la conta dei danni e la strategia per scongiurare il blocco della produzione, probabilmente mortale.

Già sabato l’azienda rivoluziona gli orari di lavoro: dai tre turni di sei ore per cinque giorni la settimana si passa al ciclo continuo, sette ore per turno, sette giorni su sette. La cassa integrazione, pure concordata con i sindacati, non sarà mai utilizzata, neppure per un’ora.

Il lunedì 25 le prove di funzionamento delle due linee sopravvissute. Martedì 26, a tre giorni dalla catastrofe, le pizze riprendono a scorrere sui nastri: 238 mila “margherita”, surgelate e inscatolate, escono dalle linee 5 e 6. A fine settembre Roncadin stanzia 35 milioni per la costruzione di due nuove linee entro il 2019.

A un mese dall’incendio cominciano le opere di demolizione dei capannoni danneggiati. A novembre, per premiare lo sforzo prodotto dai dipendenti, Roncadin riconosce il 100 per cento di maggiorazione (anziché il 50) per i giorni festivi lavorati e assegna una gratifica di 300 euro in busta paga a ciascuno.

A metà 2018 il Tribunale archivia il procedimento penale, escludendo il dolo. Considerati i tempi medi della giustizia è un mezzo miracolo. Italiana Assicurazioni sblocca — in tempi inusualmente celeri — i quasi 40 milioni di risarcimento. Il 13 agosto nel capannone quasi completamente ricostruito entra in funzione la nuova linea 7, assai più performante di quelle distrutte. Dario Roncadin lancia i nuovi obiettivi: con altre due nuove linee (una tra pochi mesi, l’altra nel 2019) un milione di pizze al giorno e raddoppio del fatturato entro cinque anni.

Com’è stato possibile, in un anno, questo miracolo? Il senso del dovere, l’operosità friulana già sperimentata negli anni del post-terremoto. Ma non solo.

«Fin da quando abbiamo ripreso in mano l’azienda, all’epoca praticamente fallita — spiega Dario Roncadin — abbiamo impostato un lavoro sulle persone, e nella circostanza più drammatica abbiamo raccolto i frutti. Non abbiamo avuto bisogno di chiedere nulla: tutti i dipendenti (in gran parte donne) si sono messi a disposizione, hanno cambiato i ritmi delle proprie vite per assecondare i nuovi turni, si sono fatti in quattro per salvare tutto quello che poteva essere salvato.

Hanno capito che il nostro progetto non è accumulare profitti, in dieci anni li abbiamo sempre reinvestiti. Ma dare lavoro e opportunità a una terra dura, dalla quale molti sono scappati». Non per caso alla straordinaria prova di fedeltà dei dipendenti si è accompagnata la solidarietà di questo angolo di Friuli: le istituzioni locali e tutti coloro che nel tempo hanno costruito solide relazioni con l’azienda: dall’impresa di trasporti (Tavano) che ha messo a disposizione i mezzi per salvare le materie prime, all’azienda (Zerbinati) di verdure fresche che ha regalato le prime forniture; dalla Henkel, che ha dilazionato i pagamenti della colla per gli astucci delle pizze, ai molti produttori locali che hanno agevolato (anche ospitando nelle loro celle le merci che Roncadin non era in grado di conservare) l’organizzazione del lavoro.

E poi ancora gli operai, i muratori, gli artigiani, i tecnici — una sessantina di imprese, molte del territorio — che hanno lavorato nel cantiere in tempi serratissimi. «Un grande lavoro di squadra — dice Roncadin — per salvaguardare ciò che l’azienda rappresenta, nella zona pedemontana, in termini di sviluppo e occupazione».

Fonte: Repubblica, 4 ottobre 2018

Sarà capace il nostro paese di adeguare velocemente il suo capitale umano ai nuovi scenari ?

Oggi – scrive Salvatore Improta – l’Italia delle imprese improvvisamente scopre che il capitale umano disponibile nel nostro paese non è del tutto qualitativamente sufficiente per affrontare le sfide del prossimo futuro. Chiedendosi e chiedendoci: Sarà sufficiente il capitale umano dell’Italia a fronte delle sfide del terzo millennio?
Sono convinto che per affrontare il futuro e le sfide dell’economia digitalizzata non sarà sufficiente avviare un generico reskilling degli occupati, quanto invece occorrerà concepire (e realizzare) un sistema formativo che, a partire dalla scuola, vada a incoraggiare e coltivare quelle competenze che il WEF ha già indicato come “basilari”. Ma come si fa (solo un piccolissimo esempio) se si è appena azzerata la prospettiva dell’alternanza scuola-lavoro che iniziava a dare già i primi frutti? 
Il contributo di Salvatore Improta, che desidero condividere, è ricco di spunti utili per continuare a riflettere e… tirarsi su le maniche.

Sarà capace il nostro paese di adeguare velocemente il suo capitale umano ai nuovi scenari ? (2. parte)

La soluzione è complessa e va ricercata su tre dimensioni concorrenti, in uno spirito di totale cooperazione di tutti principali attori del sistema Paese.

1. Bisogna rendere più attraente l’istruzione per i nostri giovani

Ispirata dalle nuove prospettive occupazionali, una certa luce si intravede in questa direzione, nei dati delrapporto Anvur : la quota di laureati è cresciuta dal 2007 di 8 punti e negli ultimi tre anni, l’incremento è stato in media di quasi un punto all’anno, anche se concentrato prevalentemente al Nord.

Dopo la discesa negli anni della crisi, dal 2014 le immatricolazioni sono tornate a salire: in rapporto alla popolazione dei diciannovenni, siamo passati dal 46,2 al 50,3 per cento. 

Significativa è anche riduzione degli abbandoni, piaga cronica dell’università italiana che conduce alla laurea appena il 60 per cento degli immatricolati entro otto anni. In particolare, il tasso di rinuncia dopo il primo anno, pari al 16 per cento dieci anni fa, è ora sceso al 12, lasciando presagire un possibile aumento della percentuale di laureati in futuro. 

Rimaniamo però al momento penultimi ,come già detto, in Europa, seguiti solo dalla Romania con un grande gap con paesi quali la Francia (44%), Il regno Unito(52%), l’Irlanda(53,3%), la Svizzera(48,3%), la Svezia(47,3%).

Tra i nostri concorrenti più agguerriti la Germania è quella che ha un tasso di laureati non drammaticamente più alto del nostro (31,3%), ma ben il 37% ha una laurea appartenente all’area Stem contro il nostro 25%.

Noi invece conserviamo il primato dei laureati nelle materie umanistiche, lingue ed arte ( il 23%), pari più del doppio della media Ocse.

Inoltre la Germania ha una formazione terziaria professionalizzante, con università dedicate di pari dignità accademica alle altre, le Fachhochschulen. Da noi esistono solo gli ITS (Istituti Tecnici Superiori), corsi biennali non universitari, con appena 4 mila iscritti ogni anno e di cui i nostri imprenditori non sono completamente soddisfatti.

Le immatricolazioni in area Stem stanno però velocemente salendo (36%) e questo è un segnale nella giusta direzione.

Aumentare i salari di ingresso al mondo del lavoro dei profili più ricercati, sarebbe anche questo un segnale nella giusta direzione.

2. Bisogna incrementare l’investimento in istruzione e formazione.

Le imprese italiane da anni investono molto poco in formazione: secondo dati Eurostat, fra il 2013 e il 2014 solo il 5 per cento ha tenuto corsi di formazione per l’Information Technology, contro il 16 per cento delle imprese tedesche. Cominciare a investire seriamente in formazione tecnica, sia a livello di istruzione scolastica che di formazione sul lavoro, è un passo fondamentale per migliorare le prospettive della nostra economia. I dati Ocse relativi al 2014, riportano una spesa 11500 dollari annui a studente per l’istruzione terzaria che scendono a 7100 se si estrapola il contributo alla ricerca. La media Ocse e superiore di 3900 dollari

Rispetto al 2017, la finanziaria del 2018 prevede risorse per la formazione, sotto forma di un credito d’imposta per le spese di formazione 4.0 sostenute dalle imprese e di un potenziamento degli istituti tecnici superiori. Un timido passo avanti.

Quello che è certo (dati Anvur) che all’università rispetto al 2008 è andato il -20& di risorse economiche in termini reali, ed il numero dei docenti si è ridotto del 13%.
 
3. Bisogna avere una maggiore interazione tra università, istituzioni e industria.

Questa è una direzione fondamentale, una conditio sine qua non.

Bisogna introdurre lauree specifiche professionalizzanti per favorire l’utilizzo immediato ed efficace delle nuove leve. Cercare di ideare sistemi efficaci, sia per l’apprendimento lungo tutto l’arco della vita sia per la formazione sul posto di lavoro, in modo che l’aggiornamento delle competenze possa essere sempre in linea con il rapido ritmo dei cambiamenti tecnologici.
Inoltre dato che la complessità di molte tecnologie emergenti supera le capacità di ricerca anche delle imprese più grandi, si rende necessaria un’ampia gamma di partenariati di ricerca pubblici e privati.
 
La diffusione tecnologica è fondamentale. Specialmente tra le piccole e medie imprese (PMI), una sfida importante consiste nella trasformazione digitale di quelle che non sono native digitali.

La disponibilità alla cooperazione dell’accademia italiana appare al momento limitata.

La maggior parte dei professori dei 96 atenei italiani ritiene che ricerca e didattica sono le sole missioni dell’università e che esse debbano essere svolte in totale autonomia e indipendenza.

L’ università italiana rimane sostanzialmente nella idea, disegnata da Wilhelm von Humboldt in Germania all’inizio del XIX secolo, con la sua unione di didattica e ricerca per il superamento del sapere cristallizzato dei manuali scolastici, un distacco deciso dalla concezione francese della scuola superiore professionale. Dai professori ci si aspettava che portassero avanti i propri compiti di docenti di ricercatori in “solitudine e libertà” . L’”autonomia” era una massima per tutti i membri dell’università.

Forse i tempi sono un poco cambiati. Il sapere dei professori e degli studenti non proviene più dalla ricerca di una singola università, ma è un sapere globalizzato, frutto della ricerca di diversi enti in diverse regioni del mondo, che andrebbe raccolto e trasferito non solo agli studenti ma anche al territorio secondo le esigenze proprie del territorio stesso.

Il successo dell’economia del nostro paese dipenderà in futuro sempre più dall’efficacia di questo trasferimento e molto meno dalla ricerca specifica delle sue università.

Questo vuol dire che tutte le università devono accettare una terza missione : servire la società di cui fanno parte .

Le università dovrebbero anche sentirla importante come le prime due.

Le università dovrebbero instaurare un forte rapporto con il tessuto economico, sociale e culturale che le circonda, a partire dal territorio di appartenenza. Capirne le necessità e le carenze nel medio e lungo termine e agire per quanto di loro competenza e capacità per accrescerne il livello di civiltà e di benessere.

Con in mente questo obbiettivo, le università dovrebbero attingere conoscenze, esperienze ed elementi di cultura da tutto il mondo, produrre eventualmente nuova conoscenza attraverso la ricerca ed in fine tradurre il tutto in insegnamenti pratici per trasferirlo non solo agli studenti attraverso il tradizione processo di didattica ma anche alle imprese, alle istituzioni, ai gruppi sociali del territorio di appartenenza attraverso varie forme di cooperazione .

Occorrerebbe avere una finestra costantemente aperta sul mondo e sul territorio, a partire dalle imprese, con l’obiettivo di aiutarle ad innovare, attraverso collaborazioni di vario tipo, trasferimento di conoscenza, sviluppo di brevetti, avvio di spin-off. e a migliorare e ad aggiornare le competenze del personale, attraverso un processo di apprendimento continuo in cui professori universitari possono avere un ruolo fondamentale. Le università nell’ ambito della terza missione dovrebbero aver un ruolo di interlocutore privilegiato con la Pubblica Amministrazione, con i Comuni e gli Enti locali fornendo e ricevendo linee di indirizzo, servizi di consulenza, formazione al personale. C’è infine la società civile, a cui si può parlare tramite la divulgazione scientifica, le iniziative culturali e formative.

Dell’importanza della terza missione per lo sviluppo e la crescita dell’economia europea, c’è piena coscienza nell’Unione Europea da parecchi anni. Già nel 2009 la commissione europea all’interno del Lifelong Learning programme , affidò ad un pool di università europee un progetto per” promuovere e valutare la terza missione nelle Università Europee (Fostering and Measuring ‘Third Mission’ in Higher Education).

Una buona parte dell’ Università italiane, spinte anche dall’inclusione della valutazione della terza missione nel Ranking Anvur, hanno avviate varie attività in tale ambito. L’analisi dei dati tuttavia mette in rilievo la forte eterogeneità tra le iniziative e la loro incongruenza e incollegabilità.

Le collaborazioni tra alcune università e impresa per quanto non ancora centrali nella crescita del sistema Paese, sono comunque una realtà frammentata ma con forti potenzialità. 

Forse basta solo insistere.

fonte: Salvatore Improta – http://www.quadratodellaradio.it/node/110