Sarà capace il nostro paese di adeguare velocemente il suo capitale umano ai nuovi scenari ?

Sarà capace il nostro paese di adeguare velocemente il suo capitale umano ai nuovi scenari ?

Oggi – scrive Salvatore Improta – l’Italia delle imprese improvvisamente scopre che il capitale umano disponibile nel nostro paese non è del tutto qualitativamente sufficiente per affrontare le sfide del prossimo futuro. Chiedendosi e chiedendoci: Sarà sufficiente il capitale umano dell’Italia a fronte delle sfide del terzo millennio?
Sono convinto che per affrontare il futuro e le sfide dell’economia digitalizzata non sarà sufficiente avviare un generico reskilling degli occupati, quanto invece occorrerà concepire (e realizzare) un sistema formativo che, a partire dalla scuola, vada a incoraggiare e coltivare quelle competenze che il WEF ha già indicato come “basilari”. Ma come si fa (solo un piccolissimo esempio) se si è appena azzerata la prospettiva dell’alternanza scuola-lavoro che iniziava a dare già i primi frutti? 
Il contributo di Salvatore Improta, che desidero condividere, è ricco di spunti utili per continuare a riflettere e… tirarsi su le maniche.

Sarà capace il nostro paese di adeguare velocemente il suo capitale umano ai nuovi scenari ? (2. parte)

La soluzione è complessa e va ricercata su tre dimensioni concorrenti, in uno spirito di totale cooperazione di tutti principali attori del sistema Paese.

1. Bisogna rendere più attraente l’istruzione per i nostri giovani

Ispirata dalle nuove prospettive occupazionali, una certa luce si intravede in questa direzione, nei dati delrapporto Anvur : la quota di laureati è cresciuta dal 2007 di 8 punti e negli ultimi tre anni, l’incremento è stato in media di quasi un punto all’anno, anche se concentrato prevalentemente al Nord.

Dopo la discesa negli anni della crisi, dal 2014 le immatricolazioni sono tornate a salire: in rapporto alla popolazione dei diciannovenni, siamo passati dal 46,2 al 50,3 per cento. 

Significativa è anche riduzione degli abbandoni, piaga cronica dell’università italiana che conduce alla laurea appena il 60 per cento degli immatricolati entro otto anni. In particolare, il tasso di rinuncia dopo il primo anno, pari al 16 per cento dieci anni fa, è ora sceso al 12, lasciando presagire un possibile aumento della percentuale di laureati in futuro. 

Rimaniamo però al momento penultimi ,come già detto, in Europa, seguiti solo dalla Romania con un grande gap con paesi quali la Francia (44%), Il regno Unito(52%), l’Irlanda(53,3%), la Svizzera(48,3%), la Svezia(47,3%).

Tra i nostri concorrenti più agguerriti la Germania è quella che ha un tasso di laureati non drammaticamente più alto del nostro (31,3%), ma ben il 37% ha una laurea appartenente all’area Stem contro il nostro 25%.

Noi invece conserviamo il primato dei laureati nelle materie umanistiche, lingue ed arte ( il 23%), pari più del doppio della media Ocse.

Inoltre la Germania ha una formazione terziaria professionalizzante, con università dedicate di pari dignità accademica alle altre, le Fachhochschulen. Da noi esistono solo gli ITS (Istituti Tecnici Superiori), corsi biennali non universitari, con appena 4 mila iscritti ogni anno e di cui i nostri imprenditori non sono completamente soddisfatti.

Le immatricolazioni in area Stem stanno però velocemente salendo (36%) e questo è un segnale nella giusta direzione.

Aumentare i salari di ingresso al mondo del lavoro dei profili più ricercati, sarebbe anche questo un segnale nella giusta direzione.

2. Bisogna incrementare l’investimento in istruzione e formazione.

Le imprese italiane da anni investono molto poco in formazione: secondo dati Eurostat, fra il 2013 e il 2014 solo il 5 per cento ha tenuto corsi di formazione per l’Information Technology, contro il 16 per cento delle imprese tedesche. Cominciare a investire seriamente in formazione tecnica, sia a livello di istruzione scolastica che di formazione sul lavoro, è un passo fondamentale per migliorare le prospettive della nostra economia. I dati Ocse relativi al 2014, riportano una spesa 11500 dollari annui a studente per l’istruzione terzaria che scendono a 7100 se si estrapola il contributo alla ricerca. La media Ocse e superiore di 3900 dollari

Rispetto al 2017, la finanziaria del 2018 prevede risorse per la formazione, sotto forma di un credito d’imposta per le spese di formazione 4.0 sostenute dalle imprese e di un potenziamento degli istituti tecnici superiori. Un timido passo avanti.

Quello che è certo (dati Anvur) che all’università rispetto al 2008 è andato il -20& di risorse economiche in termini reali, ed il numero dei docenti si è ridotto del 13%.
 
3. Bisogna avere una maggiore interazione tra università, istituzioni e industria.

Questa è una direzione fondamentale, una conditio sine qua non.

Bisogna introdurre lauree specifiche professionalizzanti per favorire l’utilizzo immediato ed efficace delle nuove leve. Cercare di ideare sistemi efficaci, sia per l’apprendimento lungo tutto l’arco della vita sia per la formazione sul posto di lavoro, in modo che l’aggiornamento delle competenze possa essere sempre in linea con il rapido ritmo dei cambiamenti tecnologici.
Inoltre dato che la complessità di molte tecnologie emergenti supera le capacità di ricerca anche delle imprese più grandi, si rende necessaria un’ampia gamma di partenariati di ricerca pubblici e privati.
 
La diffusione tecnologica è fondamentale. Specialmente tra le piccole e medie imprese (PMI), una sfida importante consiste nella trasformazione digitale di quelle che non sono native digitali.

La disponibilità alla cooperazione dell’accademia italiana appare al momento limitata.

La maggior parte dei professori dei 96 atenei italiani ritiene che ricerca e didattica sono le sole missioni dell’università e che esse debbano essere svolte in totale autonomia e indipendenza.

L’ università italiana rimane sostanzialmente nella idea, disegnata da Wilhelm von Humboldt in Germania all’inizio del XIX secolo, con la sua unione di didattica e ricerca per il superamento del sapere cristallizzato dei manuali scolastici, un distacco deciso dalla concezione francese della scuola superiore professionale. Dai professori ci si aspettava che portassero avanti i propri compiti di docenti di ricercatori in “solitudine e libertà” . L’”autonomia” era una massima per tutti i membri dell’università.

Forse i tempi sono un poco cambiati. Il sapere dei professori e degli studenti non proviene più dalla ricerca di una singola università, ma è un sapere globalizzato, frutto della ricerca di diversi enti in diverse regioni del mondo, che andrebbe raccolto e trasferito non solo agli studenti ma anche al territorio secondo le esigenze proprie del territorio stesso.

Il successo dell’economia del nostro paese dipenderà in futuro sempre più dall’efficacia di questo trasferimento e molto meno dalla ricerca specifica delle sue università.

Questo vuol dire che tutte le università devono accettare una terza missione : servire la società di cui fanno parte .

Le università dovrebbero anche sentirla importante come le prime due.

Le università dovrebbero instaurare un forte rapporto con il tessuto economico, sociale e culturale che le circonda, a partire dal territorio di appartenenza. Capirne le necessità e le carenze nel medio e lungo termine e agire per quanto di loro competenza e capacità per accrescerne il livello di civiltà e di benessere.

Con in mente questo obbiettivo, le università dovrebbero attingere conoscenze, esperienze ed elementi di cultura da tutto il mondo, produrre eventualmente nuova conoscenza attraverso la ricerca ed in fine tradurre il tutto in insegnamenti pratici per trasferirlo non solo agli studenti attraverso il tradizione processo di didattica ma anche alle imprese, alle istituzioni, ai gruppi sociali del territorio di appartenenza attraverso varie forme di cooperazione .

Occorrerebbe avere una finestra costantemente aperta sul mondo e sul territorio, a partire dalle imprese, con l’obiettivo di aiutarle ad innovare, attraverso collaborazioni di vario tipo, trasferimento di conoscenza, sviluppo di brevetti, avvio di spin-off. e a migliorare e ad aggiornare le competenze del personale, attraverso un processo di apprendimento continuo in cui professori universitari possono avere un ruolo fondamentale. Le università nell’ ambito della terza missione dovrebbero aver un ruolo di interlocutore privilegiato con la Pubblica Amministrazione, con i Comuni e gli Enti locali fornendo e ricevendo linee di indirizzo, servizi di consulenza, formazione al personale. C’è infine la società civile, a cui si può parlare tramite la divulgazione scientifica, le iniziative culturali e formative.

Dell’importanza della terza missione per lo sviluppo e la crescita dell’economia europea, c’è piena coscienza nell’Unione Europea da parecchi anni. Già nel 2009 la commissione europea all’interno del Lifelong Learning programme , affidò ad un pool di università europee un progetto per” promuovere e valutare la terza missione nelle Università Europee (Fostering and Measuring ‘Third Mission’ in Higher Education).

Una buona parte dell’ Università italiane, spinte anche dall’inclusione della valutazione della terza missione nel Ranking Anvur, hanno avviate varie attività in tale ambito. L’analisi dei dati tuttavia mette in rilievo la forte eterogeneità tra le iniziative e la loro incongruenza e incollegabilità.

Le collaborazioni tra alcune università e impresa per quanto non ancora centrali nella crescita del sistema Paese, sono comunque una realtà frammentata ma con forti potenzialità. 

Forse basta solo insistere.

fonte: Salvatore Improta – http://www.quadratodellaradio.it/node/110

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