Sul Manifesto di sabato 7 marzo 2015, Sarantis Thanopulos, psichiatra psicoanalista napoletano di eccezionale acume, ha pubblicato un bellissimo articolo che trascrivo
Massimo Recalcati ha prospettato, di recente, il tramonto della madre che si sacrifica per accudire i figli, trattenendoli presso di sé con uno scambio tra la sua abnegazione e la loro fedeltà. Il suo posto è preso dalla madre “narciso”, ossessionata dalla propria libertà e dalla propria immagine, che vede nei figli un ostacolo. Nel passato la madre tendeva a uccidere la donna, oggi è la donna che sopprime la madre.
Secondo Chiara Saraceno, che l’ha criticato, Recalcati rischia di ridurre al vecchio aut-aut (la maternità o la carriera) un dilemma complesso: come conciliare il diritto di dare e ricevere cura con il diritto di essere cittadine. Perché, scrive Saraceno, “l’amore materno, a differenza di quello paterno, deve essere a riparo da altre passioni, desideri, attività”?
Le madri possono trattenere i figli (unendoli al proprio destino) o respingerli e i due atteggiamenti, perlopiù inconsci, si alternano. Non lo fanno per compensare il loro sacrificio (dettato da convenzioni morali), né per narcisismo, ma perché sono infelici. Sono ferite nel loro desiderio femminile e si difendono da ciò che può impegnare profondamente la loro voglia di vivere (esponendole al dolore). Nulla è più coinvolgente (e rischioso) del loro bambino, che incarna la vita nella sua forma più pura. Devono tenerlo a bada sul piano dell’intensità dei sentimenti e lo legano a un patto simbiotico: eternamente insieme per difendersi dal mondo. Che siano tenere o dure non cambia molto: la devozione e il cinismo si alleano inconsapevolmente in ogni intesa che dimora nella solitudine.
Il narcisismo è una dimensione psichica che non è in sé negativa, essendo il primo passo nella vita. Non è sufficiente per appropriarsi di un posto nel mondo e, lasciato senza sponda, ripiega su se stesso o annega nella melanconia. Quando la donna appassisse, diventa d’obbligo la domanda: dov’è la sponda? Netta deve essere la risposta: non è nella maternità.
Quando Giasone chiede a Medea il perché del suo misfatto, lei risponde che lui ha tradito il loro letto. Giasone, incredulo, esclama: “Tu per questo hai ucciso i figli!” La risposta di Medea trafigge, attraverso il tempo, le nostre difese (lo sguardo volto altrove): “Credi che sia poca cosa per una donna?”
Non si è compiutamente donne se non si desidera essere madri (non necessariamente facendo figli), ma, più radicalmente, non si può essere madri vere senza essere donne compiute. La maternità nel mondo umano non è un fatto “naturale”, non può essere ridotta alla procreazione e alla conservazione della specie (neppure nel mondo animale). Richiede la socializzazione del desiderio, se con questo si intende il rispetto del soggetto desiderato e non le norme sociali che ingessano la relazione erotica. La maternità è una funzione della “coppia coniugale”, come la paternità.
Non si è madri ma solo figure (efficienti o renitenti) di accudimento, se non è possibile desiderare il proprio bambino ed essere oggetto del suo desiderio. Una donna non può aprire il suo corpo ai figli, consentendo loro di amare la vita, se non è in grado di accoppiarsi eroticamente (in mondo profondo e non in superficie) con suo marito, un altro uomo o una donna.
La passione amorosa non è poca cosa per la donna, sta al centro del suo mondo di essere.
La sua realizzazione come cittadina e lavoratrice non è in contraddizione con questo, ma ne deriva e ciò pone all’arrivismo maschile un argine.
Il nostro strano mondo esige, tuttavia, la trasformazione di una qualità femminile -condizione necessaria della vita- in dovere sociale che annulla la donna come soggetto erotico