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Allarme: il lavoro è ormai un’ossessione

Il caso, recente, di A. Horta-Osorio, il Ceo Lloyds Bank al quale le cronache internazionali hanno dedicato ampio spazio, rischia di essere considerato un caso isolato e straordinario, quando invece si tratta dell’esemplificazione di una realtà allarmante, sulla quale è necessario rivolgere maggiore attenzione e responsabilità.

Sicuramente è la prima volta che un manager d’altissimo livello confessa apertamente, e in modo enfatico, di essersi “ammalato di lavoro”. Rischiando addirittura  di passare alla storia come il primo illustre contagiato da una nuova patologia.

Nel comunicare la sua esperienza e le sue scelte, forse ha voluto, saggiamente, dimostrare che se un trader non è in grado di lavorare quando è stressato, ciò potrebbe significare una notevole perdita di ricavato. Così ha fornito un’immagine d’efficientismo a vantaggio della sua banca e a beneficio della sua reputazione professionale.

Gli organi di stampa hanno riportato il parere degli esperti che considerano quella malattia come inability to swich off (ITSO) cioè  “Sindrome dell’incapacità di staccare la spina”, altri hanno parlato di burn-out; in un caso e nell’altro, sono ambedue malattie da stress correlato con il lavoro.

Il problema è noto già tempo e, se ad esempio, consideriamo i dati di recentissime ricerche proprio nel panorama della City londinese, possiamo renderci conto che la fatica e la sofferenza delle persone che lavorano nel mondo della finanza è un fatto accertato. Perché, l’agitazione dei mercati prodotta dalle crisi del debito nell’eurozona ha accresciuto lo stress subito dagli operatori finanziari. Mentre la fatica di raggiungere gli obiettivi di ricavato, la minaccia della disoccupazione e la cultura degli orari “che non finiscono più”, hanno indotto nelle persone e nelle organizzazioni di lavoro un clima da pentola a pressione. Le condizioni assai difficili di trading e la volatilità registrata in questi ultimi quattro anni, hanno portato a livello record di stress e di disturbi psichici gli addetti. Dai dati forniti da uno studio di Health & Safety Executive (HSE), emerge che tra l’ottobre 2010-2011 circa 18 mila operatori finanziari e assicurativi nel Regno Unito sono stati vittime di stress, depressione o crisi di panico in rapporto diretto con il loro lavoro.

Il recente studio realizzato da alcuni ricercatori del Finish Institute of Occupational Health e della Queen Mary University di Londra, mette in risalto che quanti lavorano oltre le 11 ore giornaliere raddoppiano il rischio di incorrere in un episodio depressivo maggiore rispetto ai colleghi che svolgono il lavoro nell’arco di 7-8 ore. Il dato aiuta a comprendere che le giornate di lavoro troppo lunghe non causano solo problemi in ragione delle pressioni interne all’organizzazione e l’intensità del lavoro svolto. Esse comportano un danno aggiuntivo perché chi lavora non ha abbastanza tempo da dedicare a tutte le altre cose di cui ha bisogno per rimanere in buona condizione fisica e mentale, come: dormire adeguatamente, intrattenere delle relazioni e disporre di congrui momenti per riposare e avere del tempo libero. In conclusione, fare ore supplementari può avere un effetto benefico per l’individuo e la società, ma è importante riconoscere che quando si lavora troppo si può incorrere in una depressione grave.

In un periodo storico come l’attuale in cui la sofferenza più avvertita è quella della mancanza di lavoro, sembra del tutto strano parlare di un problema che, invece, è direttamente collegato con il troppo lavoro.

I datori di lavoro e gli stessi lavoratori hanno ancora scarsa familiarità con questo fenomeno, caratterizzato dal fatto che una persona è attiva anche quando la sua salute fisica e mentale non lo permette; come in tutti quei casi di stress cronico che rischiano di diventare, superando la capacità di dissimulazione delle persone, conclamate forme d’esaurimento professionale. D’altra parte, il lavoro in modalità 24/7, come si dice, o l’essere “sempre connessi”, pur capaci di polarizzare le aspirazioni di una comunità o di un’epoca, spingono le persone a mettere in secondo piano la propria vita familiare e sociale. Con il rischio di ritrovarsi “cortocircuitati” o in burn-out.

E’ quello che capita spesso, offrendo un denominatore comune a tutte quelle forme di disagio multifattoriale, definite in vario modo dalla letteratura scientifica: dipendenza da lavoro, workaholism o work-addiction (nei paesi anglosassoni), Arbeitssucht (nella lingua tedesca), Karoshi (Giappone), sisifopatia, ecc. Sindromi accomunate da una componente “ossessiva” e “compulsiva” nei confronti del lavoro. Si tratta in questo caso di una dedizione al lavoro riconosciuta come un’attività lecita e socialmente accettata, che però nel tempo perde il suo valore identitario e si trasforma in una forma di dipendenza che implica l’incapacità di regolare i propri ritmi di lavoro e la continua ricerca di compiti da portare a termine nel minor tempo possibile. Dipendenza, che nella maggior parte dei casi è ego-sintonica, nel senso che chi è coinvolto non percepisce il problema, mentre altri, come ad esempio i familiari, ne fanno direttamente le spese per i disagi derivanti della sua auto-esclusione sociale.

Occorre tener conto anche, che nella “bibbia” dei professionisti della salute mentale, l’arcinoto Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali o DSM, non vi è cenno del burn-out e tantomeno dell’esaurimento professionale. Ciò significa che, sul piano clinico, auspicando un’adeguata esperienza di psicopatologia, in genere s’inquadrerà il caso nei termini di un Disturbo dell’adattamento con umore depresso, o con ansia e umore depresso, oppure con specificazioni ulteriori; che è proprio il quadro psicopatologico corrispondente al burn-out o esaurimento professionale; ciò nonostante, non rendendosi conto del dato eziologico. Tutto questo vuol dire che, tale condizione esistenziale il più delle volte è valutata in maniera non adeguata, a scapito di un puntuale intervento clinico che tenga conto di tutti i fattori in causa, quali ad esempio: le caratteristiche della persona (personalità e stile cognitivo, fattori protettivi, ecc.), le peculiarità del lavoro e dell’organizzazione del lavoro, la rete e il supporto sociale. A questo punto, è fortemente auspicabile un rapporto di stretta collaborazione tra lo psicologo esperto di psicopatologia del lavoro e il medico di base.

Le risorse della Psicologia e i soccorsi sanitari nelle catastrofi

Capita che durante l’estate, quando si ha la possibilità di “staccare” per un breve periodo di vacanza, si possa pensare al dopo, a progettare il futuro – di impegni e di svago – che riprenderà con il nostro lavoro in città. Per alcuni di noi l’anno inizia veramente il primo settembre. Quest’anno, però, a settembre ciascuno di noi ha dovuto rivedere i suoi piani. Per migliaia di americani addirittura la vita è stata interrotta all’improvviso, per altre migliaia è cambiata repentinamente e per milioni sta mantenendo una condizione di instabilità latente.

Eventi come quelli sopraggiunti a New York e Washington l’undici settembre scorso, ci obbligano a riflettere anche sul senso della nostra professione di psicologi e psicoterapeuti. Affinché dopo un primo disorientamento si consideri seriamente, sulla base delle evidenze, la importanza del contributo umanistico e umanitario, oltre che scientifico, della psicologia nell’ambito delle emergenze. In particolare l’impegno di persone professionalmente preparate ed esperte a garanzia di interventi specifici in occasione di incidenti critici o gravi calamità.

Il carattere improvviso, imprevedibile e drammatico, di tali eventi, colpisce fortemente la nostra sicurezza psichica. Gli effetti vanno molto al di là del reale pericolo che è “relativamente” limitato per la sopravvivenza delle persone. E’ soprattutto la nostra fiducia, o meglio il nostro bisogno di contare su un mondo costantemente stabile e prevedibile, a trovarsi fortemente scossa o seriamente incrinata. E questo incrinamento si rispecchia innanzitutto sulla fiducia in se stessi.

Tutto avviene come se i meccanismi e le forze che fino a quel momento hanno mantenuto un certo “ordine” o “equilibrio” naturale, vadano per un’altra via, quella del caos e del disorientamento. Queste condizioni di forti e drammatici cambiamenti richiedono altrettanto forti e veloci adattamenti. Gli stili di risposta delle persone – funzionali o disfunzionali che siano – possono essere molteplici. Nella maggioranza dei casi non hanno gravi conseguenze. Tuttavia nei momenti in cui è faticoso o difficile mettere in atto adeguati processi di coping o quando gli stress sono troppo prolungati, possono emergere problematiche di tipo psicologico tra le quali assume una certa “ridondanza” quella sindrome a tutti nota come PTSD (post traumatic stress disorder). Che tutta via non rappresenta l’unica e più frequente conseguenza psicopatologica dei disastri.

Sullo scenario dell’evento critico o della catastrofe, possiamo così immaginare – e drammaticamente vivere nell’esperienza diretta – la forza altamente sconvolgente degli eventi e il trauma, a vari livelli, delle persone coinvolte. E’ garantito che tutto sarà diverso da prima. Ma, nei momenti di pace, è lecito pensare ad un “prima”, cioè ad un sano e serio lavoro di prevenzione, per limitare i danni derivanti dagli eventi calamitosi. Facendo innanzitutto tesoro della esperienza personale e decidendo di “scambiare” tale nostra esperienza con quella di altri. Per crescere insieme e affrontare insieme i nuovi problemi che ogni emergenza porta con sé.

 

Ecco che allora gli psicologi potrebbero investire o “arrischiare” le loro capacità professionali per rispondere con competenza alle chiamate delle emergenze ed essere all’altezza del compito ad essi richiesto.

Altre categorie professionali lo stanno facendo da tempo ed è giusto che ognuno presti la propria opera e sappia fare bene il proprio lavoro: il medico, l’infermiere, il tecnico, il volontario … e lo psicologo.

Questo è anche quanto sottende l’articolato “Criteri di massima per l’organizzazione dei soccorsi sanitari nelle catastrofi” (suppl. ordinario alla GU n.109 del 12 maggio 2001 – serie generale), sul quale ritorneremo in chiusura.

 

Vale quindi la pena tentare una definizione approssimativa del concetto di psicologia delle emergenze, che a tutta prima è del tutto superfluo ben sapendo che “la psicologia è una sola”. Risulta però utile soprattutto sul piano operativo, perché offre la possibilità di utilizzare una “cornice” e dei riferimenti molto promettenti per la ricerca sul campo e gli interventi diretti.

In questo ambito specifico la nostra disciplina si occupa dei comportamenti e in particolare delle problematiche di tipo psicologico che generalmente si manifestano in situazioni di emergenza. Per ottimizzare gli interventi di aiuto verso le persone coinvolte in incidenti critici e/o gravi calamità e individuare quei sistemi di trattamento più idonei ad evitare nelle persone effetti psichici negativi oppure a ridurne al minimo le possibilità di insorgenza.

Tiene perciò conto del “fattore umano” nel contesto delle emergenze. Studia il comportamento umano prima, durante e dopo un evento critico, in relazione alla personalità, alla motivazione, ai livelli d’ansia e di aggressività, alle dinamiche di gruppo nelle prove collettive. Perché le persone coinvolte sperimentano situazioni psichiche estreme e corrispondenti sensazioni impulsive che non è dato verificare nelle normali situazioni.

 

La psicologia delle emergenze dovrà costituire un corpus di conoscenze sulle attività di intervento sul campo, per migliorare la efficacia delle prestazioni e il benessere delle persone, conoscenze psicologiche che ogni operatore dell’emergenza o della sicurezza dovrebbe avere o utilizzare nella sua interazione con le persone alle quali presta aiuto o assistenza.

Gli interventi della psicologia delle emergenze riguardano anche la selezione del personale, attraverso opportuni interventi rivolti a individuare le attitudini specifiche in vista delle attività e delle aree di applicazione. Sono importati anche per la razionalizzazione dei sistemi di apprendimento e la formazione, attraverso misurazioni del rendimento e delle prestazioni.

In questa prospettiva essa dovrebbe occuparsi anche delle indagini psicosociologiche in vista dei rapporti interpersonali, del comportamento in situazioni eccezionali, della motivazione, delle relazioni tra leadership e consenso, del maggiore o minore adattamento dell’individuo al gruppo dei compagni e al sistema organizzativo. A delle tecniche di cooperazione e di empowerment in ordine allo spirito di collaborazione, alla sopravvivenza, al superamento della sfiducia e delle crisi di angoscia, al ruolo e alle modalità di comunicazione dei mass media in situazioni di emergenza o disastri.

La psicologia delle emergenze coinvolge anche gli psicoterapeuti e li impegna a fornire risposte puntuali alle difficoltà di coping delle persone coinvolte nelle emergenze e intervenire nei casi più gravi per seguire con scienza e coscienza le persone colpite più pesantemente.

Non si può dimenticare però che, se da una parte è la cultura dell’emergenza quella che prevale, dall’altra è completamente trascurata la cultura del rischio cioè quella attenzione rivolta alle capacità di gestione delle eventualità di subire danni, con conseguenze che tutti conosciamo.

 

E’ vero, con l’emergenza siamo istintivamente coinvolti, la gestione del rischio però è un’altra cosa, perché innanzitutto richiede un certo grado di consapevolezza e poi competenza, attenzione, organizzazione, risorse e, soprattutto, implica assunzione di responsabilità e mantenimento della giusta distanza emotiva.

Nel campo delle emergenze la professione e la professionalità dello psicologo possono contribuire sensibilmente alla qualità degli interventi e alla organizzazione dei soccorsi sanitari in occasione di calamità e catastrofi così come possono dare un contributo importante alla valorizzazione (in termini di qualità della relazione e prevenzione dello stress degli operatori) del servizio garantito dalle Centrali Operative 118.

Se si prende in considerazione il provvedimento della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Protezione Civile “Criteri di massima per l’organizzazione dei soccorsi sanitari nelle catastrofi”, pubblicato sul supplemento ordinario alla GU n.109 del 12 maggio 2001 – serie generale possiamo rilevare che esso chiama direttamente in causa la professione dello psicologo. In modo specifico all’art. 1.1 (definizione), all’art. 1.7 (funzione di supporto n.2), all’art. 1.9.2 (eventi attesi); nonché agli artt. 3.2.1 e 3.2.3 (evento catastrofico che travalica le potenzialità di risposta delle strutture locali). Imponendo di occuparsi attivamente del sostegno psicologico delle persone e delle popolazioni (non tenendo però conto del sostegno psicologico ai soccorritori).

 

Entrando nei dettagli, vediamo che già nella Premessa, si parla di “organizzazione dei soccorsi sanitari durante una catastrofe …” coinvolgendo direttamente la psicologia come professione sanitaria (volta cioè a tutelare la salute dell’uomo).

Quando definisce il piano di emergenza (art. 1.1) la norma motiva a tener conto degli aspetti fisici e psicologici al fine di ristabilire le condizioni di vita. Viene infatti detto che (il piano) ” … è lo strumento che consente alle autorità competenti di predisporre e coordinare gli interventi di soccorso a tutela della popolazione e dei beni in un’area a rischio, e di garantire con ogni mezzo il mantenimento del livello di vita “civile” messo in crisi dalla situazione che comporta necessariamente gravi disagi fisici e psicologici”.

Ciò che non è stato scritto, ma può essere legittimamente sostenuto, riguarda la necessità di garantire una condizione e un livello di vita che non favoriscano una traumatizzazione secondaria. Pertanto è del tutto fondato porre l’accento sulla importanza della psicologia anche nella prevenzione, ad esempio, degli stati di PTSD.

All’art. 1.7 , si afferma che le tematiche sanitarie affrontate nella pianificazione dell’emergenza sono varie e molteplici anche se “abbastanza comunemente, il settore viene limitato alla medicina d’urgenza”.

Aggiunge però che “in realtà, l’intervento sanitario in seguito a un disastro deve far fronte ad una complessa rete di problemi che si inquadrano nell’ambito della medicina delle catastrofi e che prevedono la programmazione ed il coordinamento delle seguenti attività: primo soccorso e assistenza sanitaria, interventi di sanità pubblica, attività di assistenza psicologica e di assistenza sociale alla popolazione”. Come si vede, lo psicologo viene chiamato in causa direttamente, essendo la assistenza psicologica peculiare attività degli psicologi. Pertanto, anche quando nello stesso articolo, all’ultimo comma, si dice esplicitamente che la vastità dei compiti “presuppone, soprattutto in fase di pianificazione, il coinvolgimento dei referenti dei vari settori interessati tra cui i rappresentanti di: …. Ordini Professionali di area sanitaria” vengono chiamati in causa gli psicologi e in particolare gli Ordini Regionali e l’Ordine Nazionale degli Psicologi.

 

Anche nel successivo art. 1.8, che riguarda le Centrali operative sanitarie 118, la norma chiama direttamente in causa la nostra professione quando, riconoscendo che la Centrale operativa 118 “costituisce l’interlocutore privilegiato in campo sanitario”, sottolinea che la centrale operativa “dovrà individuare i maggiori rischi sanitari che insistono sul proprio territorio in modo da prevedere un’organizzazione sanitaria in grado di fronteggiare gli eventi catastrofici più probabili”. Individuare i maggiori (inteso come più importanti o prevalenti) rischi sanitari significa anche tener conto della gravità, prevalenza, ricorrenza, di alcuni traumi psichici direttamente correlati con gli eventi catastrofici più probabili. Anzi, ci permettiamo di dire che se si possono definire alcuni degli eventi catastrofici più probabili, si possono anche definire alcuni dei traumi psicologici più probabili.

 

L’art. 1.9.2 – “Eventi attesi”, impone la redazione di un elenco dei rischi che interessano il territorio, sottolineando che “nella valutazione degli eventi attesi sarà utile, ai fini dell’organizzazione del soccorso sanitario, tener conto di alcune ipotesi di rischio associabili ai rischi principali …” Varie conseguenze possono essere valutate già nella pianificazione delle risposte come gli effetti sulle persone (lesioni o morti).

 

Non vi è dubbio che con il termine “lesioni” si faccia riferimento a vari traumi che, per quanto riguarda il campo di attività degli psicoterapeuti, potranno essere differenziati in traumi psichici diretti e indiretti, correlati agli eventi.

Il documento al quale facciamo riferimento risente purtroppo di una formulazione che risale a circa dieci anni fa e pertanto non ha avuto modo di sottolineare quanto sia importante prestare attenzione ai traumi a carico dei soccorritori nonché alla garanzia delle condizioni di salute nei luoghi di lavoro prevista dalla legge 626.

 

Ribadendo (all’art. 3.2.1) la complessità dell’argomento in fatto di coordinamento degli interventi, fa ancora un esplicito riferimento al “sostegno psicologico alle popolazioni sinistrate” non esplicitando minimamente la importanza di un intervento a favore dei soccorritori traumatizzati (traumatizzazione vicaria).

 

All’art. 3.2.2 (valutazione della situazione), quando tratta della valutazione presumibile del numero di (morti e di) lesi, la natura delle lesioni prevalenti, la situazione delle vittime, la situazione dei profughi (da intendersi come: coloro che sono costretti a lasciare il luogo in cui abitualmente vivono) e il loro stato psicologico è chiaro il coinvolgimento della nostra professione, anche se esplicitamente previsto solo verso i profughi. Tutto ciò dovendosi imputare ad una formulazione che probabilmente ha tenuto conto più della situazione medica e meno della situazione psicologica. Anche in considerazione del fatto che, a quell’epoca, i progressi e i contributi scientifici delle realtà estere (USA, Inghilterra, Finlandia, Australia, ecc.) erano ancora sconosciuti o limitati nel nostro paese.

 

In conclusione, l’invito a investire le competenze della psicologia e le esperienze degli psicologi nel vasto e complesso campo delle emergenze è chiaro. Nell’economia di questo scritto ci siamo limitati ad evidenziare soprattutto le emergenze legate alle catastrofi, ma è evidente che gli sconvolgimenti sempre più frequenti – in situazioni e condizioni diverse – sono una chiamata importante e una sfida che è importante raccogliere.

 

titolo: Le risorse della Psicologia e i soccorsi sanitari nelle catastrofi

autore: Vittorio Tripeni

argomento: Psicologia Emergenza e Psicotraumatologia

fonte: Vertici Network

data di pubblicazione: 12/11/2001

 

pubblicato in forma ridotta anche sul notiziario OPL (Ordine degli Psicol della Lombardia), n, 1 gennaio 2002

www.opl.it/allegati/Numero%201%20gennaio%202002.pdf

La vita: un modo di essere

“Durante una vacanza sul Pacifico, me ne stavo su alcune sporgenze rocciose a guardare le onde infrangersi sugli scogli, notai con sorpresa, su una roccia, qualcosa come dei piccoli fusti di palma, non più alti di 70-80 cm, che ricevevano l’urto del mare. Attraverso il binocolo vidi che si trattava di un certo tipo di alghe costituito da un fusto snello e un ciuffo di foglie posto in cima. Osservandole nell’intervallo fra un’onda e l’altra sembrava evidente che il fusto fragile, eretto, dalla chioma pesante, sarebbe stato completamente schiacciato e spezzato dall’onda successiva. Ma quando l’onda gli si abbatteva sopra, il fusto si piegava paurosamente e le foglie venivano sbattute fino a formare una linea diretta dallo scorrere dell’acqua. Tuttavia, non appena l’onda era passata, ecco di nuovo la pianta diritta, resistente, flessibile. Sembrava incredibile che un’ora dopo l’altra, giorno dopo notte, per settimane e forse per anni, potesse resistere a questo urto incessante, e per tutto il tempo potesse nutrirsi, affondare le proprie radici e riprodursi. In breve, potesse mantenere e migliorare se stessa attraverso un processo che, nel nostro linguaggio, chiamiamo crescita. Con la tenacia e la persistenza della vita, la capacità di resistere in un ambiente incredibilmente ostile, riuscendo non soltanto a sopravvivere, ma ad adattarsi, a svilupparsi, a essere se stessa”.

Questo breve appunto biografico di Carl Rogers pone in risalto come, in tutti i regni della natura, la vita sia un processo attivo, non passivo. Portando a considerare che, prescindendo dalla provenienza dello stimolo, dal fatto che l’ambiente possa essere favorevole o sfavorevole, l’organismo tende ad assumere forme adatte a mantenere, migliorare e riprodurre se stesso. Sicuramente questa è una descrizione molto generica del fenomeno, ma rappresenta in modo adeguato (almeno nell’economia di questo scritto) la natura propria del processo, in continuo divenire, chiamato “vita”: quella tendenza intrinseca negli organismi viventi che è presente in ogni momento della loro esistenza. Poiché è solamente l’evidenza o l’assenza di questo processo che può darci la possibilità di dire se un dato organismo è vivo o morto.

Viene spontaneo pensare al racconto quando capita di incontrare clienti che vivono la loro situazione definendola molto complicata e difficile. Vogliono cambiare e non sanno come fare, si sentono schiacciati dai loro fardelli personali. A un esame superficiale le loro storie possono sembrare problematiche, disturbate, sorprendenti. Le condizioni in cui queste persone sono cresciute, hanno vissuto la loro esistenza, di solito non sono state molto facili e sicure … Eppure, ogni volta che si presenta l’occasione, si può contare sulla tendenza proattiva che alberga in loro. La chiave per capire il loro modo d’essere è che esse stanno lottando, persone e/o organizzazioni di persone, con le uniche modalità che sentono di avere a disposizione, per muoversi verso la crescita, verso il divenire: per uscir fuori da quella condizione di sofferenza. A chi in quel momento osserva la scena dall’esterno e non sta vivendo quei problemi, i tentativi possono sembrare inammissibili e inspiegabili ma essi sono i coraggiosi, autentici, tentativi della vita di diventare se stessa. E’ un modo di essere, una forte tendenza che cerca di affermare un processo di crescita costruttivo.

A partire da queste considerazioni, si può azzardare un’affermazione lapalissiana dicendo che, quando le circostanze sono favorevoli, l’organismo cerca di svilupparsi al massimo, per raggiungere un grado di armonia e di integrazione superiori. Tenendo presente che per l’organismo vivente esiste una condizione di sviluppo costantemente attivo in virtù di un processo intrinseco naturale poiché non esiste in natura alcun processo vitale che giunge definitivamente a completezza e stabilità. Tutto ciò può aiutarci ad individuare sia gli elementi che favoriscono la crescita e sia le modalità attraverso le quali tale crescita può essere facilitata o incoraggiata.

Le caratteristiche generali degli esseri viventi assumono nell’uomo forme molto più complesse e singolari. Negli esseri umani le forze “naturali” appartenenti alla sfera vegetativa e quelle legate alla “istintualità” sono certamente meno attive ed evidenti, essendosi metamorfosate in capacità superiori tipiche dell’umanità. Questo ha portato la persona a crescere individualmente, ad interiorizzarsi sempre di più, ad evidenziare la unicità e la irripetibilità del prorio Io, in un processo continuo di crescita spirituale. Sottolineando così la diversità e la differenza esistente tra ciascun essere umano.

Per essere “Io” occorre però essere almeno in due. Non è possibile crescere se si è da soli, l’Io si trova in divenire soltanto in rapporto a un Tu; solo nel momento in cui si confronta con l’altro. François de Singly ha sviluppato il tema della costruzione/ricomposizione dell’identità adulta all’interno delle relazioni ed ha evidenziato una struttura a quattro termini: un sé visto da se stessi e un sé visto dagli altri, sdoppiati a loro volta in un sé intimo, privato, e un sé “sociale”, ciò che consente uno stato definito di persona. Tenuto conto che la questione dell’identità alla base della definizione di sé non è mai compiuta, una volta per tutte, ma richiede costanti aggiornamenti o riaggiustamenti,  ne deduciamo che la costruzione dell’identità diventa un progressivo svelamento e/o rafforzamento – da parte di altre persone significative – di sfaccettature nascoste di noi stessi.

Ecco allora che, per lo sviluppo spirituale-identitario dell’essere umano, “l’ambiente” che può facilitare o ritardare la sua crescita, diventa maggiormente complesso e complicato dalla presenza e dalla necessità dei rapporti interpersonali che sono alla base della sua esistenza.

Potremmo orientare queste brevi riflessioni anche nel contesto del “lavoro” e delle “organizzazioni”, avremmo così modo di renderci conto di come può essere importante la relazione tra le persone e come essa può influire sulla crescita e lo sviluppo del “clima” aziendale e della cultura organizzativa. Le relazioni all’interno dell’organizzazione del lavoro possono facilitare o ritardare la crescita e lo sviluppo delle persone e dell’organismo sociale che esse costituiscono.

Cosa ci fa un uomo nel bosco?

Le allegorie del bosco, attraverso rappresentazioni artistiche e letterarie della “selva oscura”, della foresta selvaggia o della macchia, hanno evidenziato sin dall’antichità fasi critiche dello sviluppo umano. Momenti molto spesso caratterizzati da un profondo disorientamento e vissuti come inquietanti e minacciosi. Situazioni che nelle fiabe sono pure espresse da esseri misteriosi quali streghe, draghi, giganti, gnomi, leoni, orsi, ecc… Raffigurazioni che di solito alludono all’irrazionale, al crepuscolo della coscienza individuale, all’impulso talora acceso e talora oscuro che vive nascosto (inconscio) al mondo esterno e alla piena consapevolezza.
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