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Grazie, signora Anneliese!

Lo sviluppo sostenibile non è una trovata degli economisti, perché la signora Anneliese, donna parsimoniosa ma non taccagna, lo pratica con solerzia e del tutto inconsapevolmente da quando era bambina.

Me ne ha mostrato la tangibile utilità durante un soggiorno in montagna,  una valle alpina ove è ancora possibile stare in contatto profondo con la natura e le persone.

Nella vita di tutti i giorni, segue una forma di “responsabilità sociale” che nella sua semplicità mostra alcuni comportamenti molto consonanti con lo spirito dell’economia ecologica.

Ad esempio, soddisfare i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future a rispondere ai loro; agire in modo che gli effetti della propria azione siano compatibili con il manifestarsi di una vita autenticamente umana sulla terra. Che, d’altra parte rappresenta anche l’applicazione pratica del principio di responsabilità del filosofo Hans Jonas.

La signora economizza l’acqua. Preferisce fare una rapida doccia al posto del bagno, chiude l’acqua del rubinetto quando si lava i denti o le mani, è riuscita addirittura a fare installare dei riduttori di flusso per limitare il consumo; ha infilato nella cassetta dello scarico una bottiglia piena di sabbia, così può risparmiare un litro di acqua ad ogni rilascio.

Risparmia energia. Mette in funzione la lavatrice e la lavapiatti soltanto quanto sono a pieno carico, oppure quando è il caso, utilizza il programma. Sbrina il frigo periodicamente per evitare un consumo maggiore; usa gli apparecchi elettrici solo per il tempo necessario, misura con pignoleria la temperatura delle sue stanze, utilizza lampade a basso consumo. Utilizza al massimo la luce naturale; le sue attività di solito passano vicino la finestra della cucina, del soggiorno (quando ricama); sogna una casa costruita secondo i canoni del “naturale”, con materiali e sistemi di illuminazione e riscaldamento che rispettino l’ambiente circostante.

Esegue la raccolta differenziata. Seleziona con meticolosità gli scarti degli usi domestici (piccoli imballaggi, bottiglie di plastica, vetro, carta, metalli vari) tenendo conto dei suggerimenti dati dalla pubblica amministrazione e, se la raccolta diversificata non ha un deposito proprio vicino alla sua casa, prende le sue raccolte e le trasporta nella “discarica” più vicina. Sta molto attenta anche a tenere da parte i resti dei prodotti chimici che usa per il suo bricolage e l’olio utilizzato per le sue ottime fritture. Mi ha riferito che un litro di olio può ricoprire una superfici d’acqua di circa mille metri quadrati, impedendo la ossigenazione della flora e della fauna del lago. Porta nel contenitore della farmacia i medicinali inutilizzati e quelli scaduti.

Ha un rispetto religioso della quiete. E’ stata molto scrupolosa a garantire una ottima qualità acustica nel suo appartamento, usando con molto garbo tende di vario colore, in accordo con i pavimenti in legno e i quadri alle pareti. Ha posto i feltrini sotto le sedie e le poltrone provvedendo anche a porre dei tappetini antivibrazioni sotto gli elettrodomestici. In quella casa si può parlare tranquillamente a voce bassa anche quando c’è un disco che sta suonando.

Una volta mi è capitato di accompagnarla a fare la spesa e mi ha lasciato portare il cesto di vimini che usa d’abitudine, evita borse di plastica e soprattutto non ama l’accumulo di sacchetti. Sceglie con cura i prodotti, leggendo attentamente le etichette, acquista solamente prodotti biologici o biodinamici; mi dice che il maggior costo lo sente come un ottimo investimento per la sua salute e quella della sua famiglia. Sta molto attenta alla qualità degli alimenti ed evita di acquistare prodotti freschi che non siano stati coltivati nella sua zona. Per i prodotti di uso domestico e per la cura della persona preferisce evitare gli “usa e getta” ed è pronta a dirmi quanto sia importante mantenere questo comportamento.

Ha piantato dei nuovi alberi nel suo giardino, due peri e un ciliegio che faranno compagnia alle altre piante ed arbusti da frutto; dice che così potrà contribuire anche lei alla lotta contro l’effetto serra. Allo stesso tempo, e del tutto inconsapevolmente, perpetua una abitudine dei contadini di un tempo, che piantavano nuovi alberi di ulivo e di fico di cui non avrebbero mai visto i frutti, ma lo facevano pensando alle generazione future, e ciò senza esservi tenuti da alcuna legge, ma semplicemente perché i loro genitori, i loro nonni e tutti quelli che li avevano preceduti avevano fatto lo stesso.

Innaffia il giardino la sera quando la evaporazione dell’acqua è ridotta; mi spiega con una certa enfasi che in questo modo riesce ad economizzare sull’uso, in media di circa il 50%, ottenendo gli stessi risultati.

Utilizza tutta una serie di piccoli trucchi: il rilascio goccia a goccia, il recupero delle acque piovane; mantiene sotto le piante e le siepi uno strato di erba secca oppure una pacciamatura di frammenti di legno, per mantenere l’umidità al suolo. Utilizza esclusivamente prodotti naturali per la manutenzione del terreno. Il concime è fornito dal “cumulo biodinamico” un ingegnoso sistema che permette di compostare i rifiuti umidi della casa e le parti verdi che durante la manutenzione del giardino vengono rimosse. Evita di utilizzare pesticidi o concimi inorganici perché sono dannosi per la salute e allo stesso tempo contribuiscono all’inquinamento della falda acquifera. Per combattere i parassiti utilizza delle piante odorose che li allontanano, cipolla, aglio, basilico, ed altre essenze aromatiche. Ma anche frammenti di sigarette, con le quali prepara un’acqua speciale da spargere sulle foglie, oppure la cenere del suo camino.

Non bisogna giudicare troppo unilateralmente la mia amica. I più frettolosi penserebbero a una simpatica ingenua piena di tic o di manie, amante della natura e tutta immersa in una atmosfera new age. Si tratta invece di una signora di sessantaquattro anni, professionista affermata con autorevole studio professionale di consulenza aziendale in città, donna di nerbo e notevole competenza in campo. I suoi collaboratori, tutti amici rispettosi delle sue qualità, talvolta la prendono bonariamente un po’ in giro per queste sue abitudini; alcune volte mi associo a loro con molto affetto. Il suo stile impronta anche l’ufficio.

La carta utilizzata per una stampa che non è più necessaria, viene riutilizzata come fogli per appunti oppure per stampe da utilizzare nel lavoro di routine; raccolta differenziata per rifiuti dell’ufficio che vengono così riciclati: carta, cartucce per le stampanti, contenitori di cartone, ecc. Attenzione al consumo superfluo della energia elettrica perché, lei dice, gli uffici sono i luoghi dove è più facile sprecare energia. Utilizzo intelligente e funzionale della luce del giorno; le scrivanie sono strategicamente poste vicino le grandi finestre delle stanze.

Spesso, quando non vi sono impegni particolari, si raggiunge il lavoro prendendo una unica autovettura, quella della signora che passa a raccogliere gli altri ad un’ora stabilita; tutti sentono l’impegno di evitare inutili sprechi e soprattutto di contribuire a diminuire i danni dovuti al traffico automobilistico.

Dulcis in fundo, ciascuno dei professionisti e praticanti dell’ufficio, sono chiamati a rispettare alcune elementari regole di vita comune che essi stessi hanno stabilito e che rappresentano un riferimento di vita comunitaria e di deontologia professionale. In ciascuna stanza esse stanno in bella vista sulla parete di fronte al tavolo di lavoro.

Certo, per salvare il pianeta e assicurare un futuro accettabile ai nostri figli, occorrerebbero decisioni molto più importanti …. Ma l’esempio di una signora che ci aiuta a riflettere su questi problemi è comunque molto incoraggiante.

Grazie, signora Anneliese!

Sembra che Brexit abbia aumentato il consumo di antidepressivi della popolazione inglese

Secondo uno studio fondato sulla osservazione scientifica del fenomeno, pubblicato sul Journal of Epidemiology and Community Health, risulta che il periodo successivo al referendum sull’uscita dall’Unione europea avrebbe portato a un aumento della prescrizione di farmaci antidepressivi in Inghilterra.

Tale comportamento “ potrebbe essere spinto da un aumento dell’incertezza vissuta da alcuni settori della popolazione in seguito al voto” ha dichiarato Sotiris Vandoros, del King’s College di Londra e della Harvard T.H. Chan School of Public Health di Boston, primo autore dello studio.

I ricercatori hanno confrontato i dati delle prescrizioni mensili ufficiali degli antidepressivi in Inghilterra con quelli per altre classi di farmaci tra cui gli specifici per anemia da carenza di ferro, gotta, insulina, problemi alla tiroide, glicemia e grassi nel sangue e miorilassanti.

Gli schemi di prescrizione sono stati valutati in modo specifico relativamente al mese di luglio per ogni anno tra il 2011 e il 2016, con lo scopo di verificare le conseguenze immediate del risultato del referendum, e poi per ognuno di quegli anni per valutare eventuali tendenze visibili, ed è stata calcolata una dose definita giornaliera (DDD) quantificando il numero di milligrammi prescritto.

La DDD prescritta è stata quindi divisa per la popolazione di ciascuna zona di voto per stimare i livelli medi di prescrizione pro capite e questi dati sono stati combinati con i risultati del referendum per ogni area.

L’analisi ha mostrato che prima del referendum la DDD per gli antidepressivi è aumentata durante il mese di luglio di anno in anno, e questo succedeva anche per insulina, farmaci per la gotta, anemia da carenza di ferro e grassi del sangue e glucosio.
Nel mese successivo al referendum, però, la DDD per gli antidepressivi ha continuato a crescere, anche se a ritmo più lento, ma quella per gli altri farmaci è diminuita.

In definitiva, i ricercatori hanno ipotizzato che dopo il referendum il volume di antidepressivi prescritto sia aumentato del 13,4% rispetto alle altre classi di farmaci studiati. Chiaramente questi risultati non possono essere interpretati come segno che l’umore sia peggiorato in tutta l’Inghilterra, né possono escludere che l’umore sia effettivamente migliorato. Tuttavia è evidente che la notizia della “disruption” ha avuto un impatto significativo sulla popolazione.

J Epidemiol Community Health 2018. doi: 10.1136/jech-2018-210637 
https://jech.bmj.com/content/early/2018/11/07/jech-2018-210637

Il fattore umano e lo spirito del lavoro

Esiste, quindi, un legame tra tecnologia ben fatta e un lavoro ben fatto, tra un ambiente tecnologico di qualità e un lavoro di qualità e tra il beneficio di strumenti appropriati e il benessere dei loro utilizzatori?

Esiste. Ne ero convinto da tempo ed è arrivata una conferma “corale” dalla visione del film documentario di Giacomo Gatti “Il fattore umano – lo spirito del lavoro”. In esso si da conto di un viaggio attraverso l’Italia alla scoperta di quindici realtà aziendali distribuite sul territorio nazionale, con proprie prerogative economiche e produttive, culturali e sociali, ma unite da una visione comune, quella della “azienda socialmente sostenibile” e, contemporaneamente, quello della creazione del “senso” del loro agire.

Quelle aziende, raccontate dalle persone intervistate, quelle organizzazioni socio-tecniche, sono animate da un identico principio, da un comune denominatore che ispira la visione imprenditoriale: l’impresa non è solo profitto ma è soprattutto capacità di sviluppare risorse materiali e immateriali per il raggiungimento di un fine non solo finanziario. E’ cultura, è creatività, è un futuro da costruire insieme, innanzitutto nel rispetto dell’umanità e dignità dell’essere di ogni persona. Le donne e quegli uomini, che sono gli attori protagonisti dell’impresa, con i loro sogni, le loro abilità professionali, il loro impegno, la loro fedeltà, realizzano l’impresa e la trasformano ogni giorno in realtà produttiva di beni materiali e immateriali attraverso il loro atto creativo.

Dai viticoltori del Trentino agli operai della catena di montaggio, dai giovani sviluppatori di start-up ai medici che testano mani robotiche, dalle strisce di pasta di Gragnano alle frese di alta tecnologia, queste ed altre storie ancora, raccontano che il lavoro è elemento integrale ed integrante della persona nella società. Le imprese, le aziende, le istituzioni, dovrebbero rimanere i luoghi dove, mentre si costruiscono possibilità di espressione dei singoli, in cui le persone danno un senso alla propria attività, si cerca attraverso l’organizzazione, il raggiungimento di finalità economiche e sociali che vanno al di là del puro tornaconto finanziario.

Accomunate dalla bellezza del fare, come quel meccanico che si compiace per la qualità della saldatura che sta osservando. E’ un lavoro apparentemente banale che come tutti gli altri all’interno della catena di produzione, hanno un “senso” e una bellezza intrinseca (quando il lavoro è ben fatto) che nutre il cuore e la mente di chi lavora e restituisce dignità alla sua stessa opera. Ancora di più oggi, in un’epoca in cui la finanza e la tecnologia rischiano di trasformare le persone in robot e i robot in persone.

Ma è proprio l’umanità a fare la differenza. E’ il “fattore umano” lo spirito del lavoro. Sono le donne e gli uomini che fanno l’impresa e che investendo le loro peculiari caratteristiche individuali (non solo le competenze tecniche) si pongono in relazione con i piani, i progetti, le procedure, i prodotti, le attrezzature, gli ambienti di lavoro, le persone con le quali lavorano, i conflitti, le criticità ed anche gli insuccessi. Sono le persone, in ragione di quanto accennato che, allo stesso tempo richiamano attenzione, rispetto e riconoscimento.

Se penso a quante volte si è parlato di ecologia per il mondo vegetale, animale, delle acque e della terra, mi piace sottolineare che ci occupiamo poco di ecologia delle relazioni umane. E’ la qualità delle relazioni umane che alimenta lo spirito del lavoro. Con ciò vorrei anche considerare che stare bene all’interno dell’organizzazione di un’azienda, lavorare bene in un ambiente gradevole con un clima interpersonale favorevole, rende moltissimo.
Frutta in termini di ritorni economici materiali e soprattutto in termini di valore aggiunto (cultura, immagine, stili di vita, ecc.); giova ai collaboratori che sono più soddisfatti, ritenendosi riconosciuti e quindi maggiormente motivati; ha evidenza sul piano dell’engagement e della responsabilità sociale; produce qualità nel rapporto con il cliente e influisce direttamente sulla soddisfazione di quest’ultimo.

Nel momento in cui scrivo queste brevi annotazioni sul film di Giacomo Gatti, non posso fare a meno di ricordare che è passato oltre un secolo dalla prima formulazione del costrutto “fattore umano”. Fu Agostino Gemelli, che nel 1909 venne incaricato di svolgere alla Settimana sociale dei cattolici italiani una relazione dal titolo “Il fattore umano del lavoro”, su invito di G. Toniolo. Voglio anche segnalare che, nonostante si parli da circa un secolo di fattore umano e relazioni umane al lavoro, sembra che il riconoscimento di questi “valori” sociali ed economici non appartenga ancora alla piena consapevolezza di moltissime persone .

Roncadin, una storia di operosità silenziosa, solidarietà, efficienza. La fabbrica rinata sulle sue ceneri

Un incendio devastante che distrugge lo stabilimento, quattro linee produttive su sei, molte delle strutture di servizio. Un anno dopo: ricostruzione quasi completa, una nuova, efficientissima linea già in funzione, il fatturato difeso fino all’ultimo euro, neppure un posto di lavoro bruciato.

Nell’Italia dei cantieri eterni e della burocrazia infinita quella della Roncadin di Meduno, provincia di Pordenone, profondo Nord-Est, è una storia fuori dall’ordinario.

Una storia di operosità silenziosa, solidarietà, efficienza. Qui, ai piedi delle Dolomiti friulane, il senso del dovere è qualcosa che non ha bisogno di essere invocato, è un cromosoma nel patrimonio genetico della gente, è così sacro che l’han fatto santo: San Scugnì. In lingua friulana, il senso del dovere, appunto.

La Roncadin, fondata all’inizio degli anni 90 dalla famiglia di Fiume Veneto, 40 chilometri più a Sud, produce pizze surgelate per la grande distribuzione. Cinquecento dipendenti, 100 milioni di fatturato, il 70% all’estero: Germania, Gran Bretagna, Stati Uniti. Venduta al gruppo Arena, finita nelle mani di uno speculatore spregiudicato, poi ricomprata agonizzante dalla famiglia e affidata al figlio di Edoardo, Dario Roncadin, all’epoca trentenne: da 9 milioni di fatturato a 100 in dieci anni.

La cronologia degli ultimi dodici mesi parla da sola: il 22 settembre 2017, un venerdì alle otto di sera, un terribile incendio distrugge gran parte dell’area produttiva. I vigili del fuoco sono ancora al lavoro e già nella portineria è insediata l’unità di crisi. Il sabato e la domenica la conta dei danni e la strategia per scongiurare il blocco della produzione, probabilmente mortale.

Già sabato l’azienda rivoluziona gli orari di lavoro: dai tre turni di sei ore per cinque giorni la settimana si passa al ciclo continuo, sette ore per turno, sette giorni su sette. La cassa integrazione, pure concordata con i sindacati, non sarà mai utilizzata, neppure per un’ora.

Il lunedì 25 le prove di funzionamento delle due linee sopravvissute. Martedì 26, a tre giorni dalla catastrofe, le pizze riprendono a scorrere sui nastri: 238 mila “margherita”, surgelate e inscatolate, escono dalle linee 5 e 6. A fine settembre Roncadin stanzia 35 milioni per la costruzione di due nuove linee entro il 2019.

A un mese dall’incendio cominciano le opere di demolizione dei capannoni danneggiati. A novembre, per premiare lo sforzo prodotto dai dipendenti, Roncadin riconosce il 100 per cento di maggiorazione (anziché il 50) per i giorni festivi lavorati e assegna una gratifica di 300 euro in busta paga a ciascuno.

A metà 2018 il Tribunale archivia il procedimento penale, escludendo il dolo. Considerati i tempi medi della giustizia è un mezzo miracolo. Italiana Assicurazioni sblocca — in tempi inusualmente celeri — i quasi 40 milioni di risarcimento. Il 13 agosto nel capannone quasi completamente ricostruito entra in funzione la nuova linea 7, assai più performante di quelle distrutte. Dario Roncadin lancia i nuovi obiettivi: con altre due nuove linee (una tra pochi mesi, l’altra nel 2019) un milione di pizze al giorno e raddoppio del fatturato entro cinque anni.

Com’è stato possibile, in un anno, questo miracolo? Il senso del dovere, l’operosità friulana già sperimentata negli anni del post-terremoto. Ma non solo.

«Fin da quando abbiamo ripreso in mano l’azienda, all’epoca praticamente fallita — spiega Dario Roncadin — abbiamo impostato un lavoro sulle persone, e nella circostanza più drammatica abbiamo raccolto i frutti. Non abbiamo avuto bisogno di chiedere nulla: tutti i dipendenti (in gran parte donne) si sono messi a disposizione, hanno cambiato i ritmi delle proprie vite per assecondare i nuovi turni, si sono fatti in quattro per salvare tutto quello che poteva essere salvato.

Hanno capito che il nostro progetto non è accumulare profitti, in dieci anni li abbiamo sempre reinvestiti. Ma dare lavoro e opportunità a una terra dura, dalla quale molti sono scappati». Non per caso alla straordinaria prova di fedeltà dei dipendenti si è accompagnata la solidarietà di questo angolo di Friuli: le istituzioni locali e tutti coloro che nel tempo hanno costruito solide relazioni con l’azienda: dall’impresa di trasporti (Tavano) che ha messo a disposizione i mezzi per salvare le materie prime, all’azienda (Zerbinati) di verdure fresche che ha regalato le prime forniture; dalla Henkel, che ha dilazionato i pagamenti della colla per gli astucci delle pizze, ai molti produttori locali che hanno agevolato (anche ospitando nelle loro celle le merci che Roncadin non era in grado di conservare) l’organizzazione del lavoro.

E poi ancora gli operai, i muratori, gli artigiani, i tecnici — una sessantina di imprese, molte del territorio — che hanno lavorato nel cantiere in tempi serratissimi. «Un grande lavoro di squadra — dice Roncadin — per salvaguardare ciò che l’azienda rappresenta, nella zona pedemontana, in termini di sviluppo e occupazione».

Fonte: Repubblica, 4 ottobre 2018

Sviluppare capacità collaborative

Sviluppare capacità collaborative non è facile e tantomeno alla portata di ognuno. I manager tuttavia e “in ogni caso” sono chiamati ad essere all’altezza del compito perché tale performance è uno dei punti cardine delle loro capacità. È ovvio pertanto che dalla qualità del management dipenderà in gran parte il successo o l’insuccesso dell’organizzazione. Ma come può un manager garantirsi il successo?

L’argomento è stato affrontato da ogni angolatura, con diversi approcci e altrettanti risultati, a volte viene detto con una certa enfasi che “il management è una disciplina e un’arte ove regna molta anarchia, tanto nella teoria che nella pratica”. La situazione è soprattutto intricata dal fatto che le persone sono, per loro natura, complicate anche se di solito si bada a selezionarle, formarle, incentivarle, ecc. Questo vale naturalmente sia per i “capi” che per i collaboratori e varrebbe la pena intanto evitare inutili tecnicismi per recuperare il buon senso e il gusto delle parole semplici; dare un volto preciso e un significato a termini quali management, manager, risorse umane, ecc.

L’impressione, molto spesso, è che queste parole siano del tutto vacue, (nel senso che ormai vivono soltanto) come contenitori di significati diversissimi tra loro e variabili in dipendenza delle situazioni aziendali; con il rischio che passino dal piano degli “ideali” a quello della “ideologia”.

Si pensi alla somma disparata dei concetti chiave del management come: gestione del cambiamento, management delle competenze, valutazione della performance, remunerazione per obiettivi, knowledge management, empowerment, e-learning, management proattivo e quant’altro. Per non parlare delle risorse umane: gestione giuridico amministrativa del personale, valutazione, reclutamento, mobilità, formazione, comunicazione interna, motivazione, leadership, ecc. ecc.

È facile perdersi. Se proviamo a metterci nei panni di chi è chiamato a navigare in queste acque, è facile vivere insieme ad essi un senso di smarrimento.

Ho ritrovato su alcune vecchie agende delle annotazioni che trovo ancora interessanti; brevi riflessioni, che credo non banali rispetto al tempo in cui le ho scritte.
Ne ho scelto cinquantadue, risalenti al 2002, 2003 e 2004, con l’intenzione di proporre un motivo di ispirazione settimanale per il corso dell’anno.
Questa è la n. 41: Sviluppare capacità collaborative (2003)