L’educazione all’attenzione è la nostra grande sfida

L’educazione all’attenzione è la nostra grande sfida

 

Paolo Legrenzi, docente emerito di psicologia a Venezia, ha scritto, da esperto dell’argomento, un dottissimo articolo che voglio condividere

Nella vita di tutti i giorni ci accorgiamo di essere più o meno coscienti di quello che succede intorno a noi, non foss’altro perché alle volte dormiamo, e non siamo consapevoli di nulla, e talvolta siamo distratti, e le cose ci sfuggono. Le ricerche mostrano che, per la maggior parte del tempo, se nessuno ci interrompe, noi non ci concentriamo su qualcosa, ma lasciamo che la mente vaghi formando lunghe catene di associazioni libere, quasi sognassimo un po’ anche di giorno. Concentrarsi su qualcosa è faticoso, e avviene di rado.

Benché si sia consapevoli del fatto che la nostra mente in momenti diversi funziona con livelli di attenzione differenti, noi non ci siamo mai posti il problema di misurare il livello di efficienza della coscienza. Le persone sono inclini a pensare che, se vogliamo, siamo in grado di sfruttare l’attenzione al massimo grado. Purtroppo le cose non stanno proprio così. Se ne accorse la prima volta, nel 1796, l’assistente dell’astronomo reale dell’osservatorio di Greenwich che venne licenziato dal suo capo, Lord Maskelyne. Quest’ultimo pensava che tutte le persone, quando stanne attente, sono capaci di rilevare con precisione il momento esatto in cui una stella passa in un determinato punto della volta celeste. Dato che le prestazioni dell’assistente erano sistematicamente diverse dalle sue, Lord Maskelyne lo licenziò, avendolo giudicato sbadato.

L’assistente, che si credeva scrupolosissimo, cadde nella disperazione, tornò al suo paesello e poco dopo morì.
Questo fu l’atto di nascita ufficiale della misurazione della coscienza. Successe infatti che, pochi anni dopo, un astronomo tedesco, Bessel, venne a sapere di questo episodio e si stupì. Come mai i tempi dell’assistente erano sistematicamente diversi da quelli del capo? Si mise a fare misure sistematiche e scoprì quella che venne chiamata la “equazione personale”, e cioè una sorta di algoritmo che descrive le capacità di ogni persona nel prestare attenzione a quello che succede nell’ambiente.

Questa scoperta ebbe sempre più applicazioni quando, con il progresso delle tecnologie, l’uomo dovette interagire con macchine di precisione, nelle fabbriche, e, purtroppo anche nelle guerre, essendo le armi sempre più sofisticate. Non solo si scoprì che la nostra attenzione può venire misurata, ma che può anche venire addestrata, come sanno bene i cacciatori e gli sportivi. Dato che dobbiamo tenere conto della disattenzione delle persone, si cercò sempre più di sostituire gli uomini con sistemi artificiali, in modo da eliminare gli errori dovuti a sbadataggini.

E tuttavia, tanto più si è cercato di eliminare l’uomo, tanto più le cose sono diventate pericolose. Il meccanismo è quello descritto bene nel film “Il dottor Stranamore”, con Peter Sellers. In quel film si racconta che, ai tempi della guerra fredda, proprio per eliminare le sbadataggini, l’operatore umano era stato escluso dalle decisioni di avviare rappresaglie nucleari contro il nemico. E così quando un pilota pazzerello decide di bombardare la Russia, non si riesce a disinnescare la controffensiva automatica.

Anche noi, nella vita di tutti i giorni, funzioniamo così. Per prestare attenzione a stimoli nuovi dobbiamo bloccare gli automatismi. Questo diventa sempre più difficile via via che l’intrusione di vari messaggi provenienti dalle fonti più diverse non ci lascia l’animo in pace.

Noi siamo stati progettati per terminare un’attività quando l’abbiamo iniziata e quindi il dover saltabeccare qua e là con la nostra attenzione non solo danneggia le sue prestazioni ma, oltre un certo limite, crea ansia e stress. Ma questa è un’altra storia.

courtesy: Repubblica 28.1.15

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