Tecnicamente, no. Eppure, in alcuni casi, svolgono anche questo ruolo.
Ho trovato sempre eccessiva l’enfasi e lo sbalordimento alla notizia che un “carabiniere” o un “poliziotto”, solo o insieme ad altri colleghi, abbia deciso di pagare la cifra corrispondente al prezzo della merce sottratta, dallo sventurato o dalla malcapitata, indigenti, per necessità di sopravvivenza.
Allo stesso tempo, non mi meraviglio se, per dare serenità ai bambini, vittime indirette di un delitto da parte del padre nei confronti della madre, i carabinieri li abbiano accolti in caserma dando loro conforto.
Trovo queste azioni in perfetta sintonia con il mandato del loro lavoro. Anche se, più di una volta, ho sentito dire, dai diretti interessati o dai loro sindacalisti, che i poliziotti “non sono assistenti sociali”.
È vero che i poliziotti e le forze dell’ordine in generale non rientrano per definizione e requisiti di formazione nel profilo professionale degli “operatori sociali” (secondo la definizione proposta dal Ministero dell’Interno nel 1984), tuttavia essi agiscono “nell’ambito del sistema organizzato delle risorse messe a disposizione dalla comunità, a favore d’individui, gruppi e famiglie, per prevenire e risolvere situazioni di bisogno”. Agiscono in questa direzione tutti i giorni, in modo diverso, autonomamente o in sinergia con altri enti e servizi, per finalità di sicurezza sociale, protezione civile e salute pubblica. Poi, svolgono anche compiti di repressione dei comportamenti delittuosi e delle trasgressioni di norme amministrative.
La “polizia” appartiene (ed è essa stessa) ad un sistema integrato di persone, competenze, relazioni civiche e istituzionali, che fanno rete per garantire la sicurezza e il benessere di donne, uomini e ambiente.
Nel lavoro di polizia – e ancor di più in quello della polizia locale – possono presentarsi relazioni “psico-socio-educative”, come quelle che gli educatori hanno con bambini e adolescenti; oppure, “relazioni di cura”, come quelle che di solito si prestano ai pazienti; “relazioni amministrative” simili a quelle degli operatori agli sportelli pubblici, ecc. In aggiunta a quelle che i poliziotti svolgono su un terreno più complesso, cioè quelle “relazioni civiche” di sorveglianza, prevenzione, protezione, repressione, con diversi interlocutori (vittime, aggressori, testimoni) e partnership diverse (ad es.: giudici, pubblici ministeri, vigili del fuoco, operatori sanitari, ecc.).
In questo modo, vorrei rispondere anche a un sindacalista forse poco attento alla realtà attuale del servizio che una volta affermò: “I vigili non possono essere la panacea di tutti i mali e neanche formati come se fossero assistenti sociali, perché in caso di reato hanno il dovere di intervenire.” Giusto. Hanno il dovere di intervenire adeguatamente in occasione di un reato e nelle circostanze in cui è necessario prevenire o risolvere situazioni di bisogno. Com’è stato sempre fatto. Rendendosi consapevoli di questa parità di merito.
Secondo me, si tratta di una sfida molto importante che occorre accettare; resa più evidente dai notevoli cambiamenti sociali in corso, che impattano sulla cultura del servizio delle polizie locali sul territorio nazionale e soprattutto sull’identità sociale e professionale degli operatori.
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