Dilbert per meditare

Dilbert per meditare

Perché un personaggio come Dilbert, così triste, mediocre, pigro, angariato, frustrato, sottomesso nella giungla della World Company incontra un tale successo di pubblico? La domanda ascoltata di rimbalzo durante un viaggio in treno ha alimentato molta curiosità e altrettante suggestioni.

Si stava naturalmente parlando dell’ultimo Dilbert in traduzione italiana, quello che negli Stati Uniti è comparso con il titolo “Dilbert and the Way of the Weasel” (Dilbert e la tattica della faina) e da noi si trova in commercio come “Dilbert e la strategia del fur(b)etto” nelle edizioni Garzanti. Che sia in forma di parola stampata o di fumetto, il personaggio inventato da Scott Adams nel lontano 1989, rappresenta un fenomeno editoriale che contende le classifiche anche ai grandi guru della letteratura manageriale mondiale. Perché un personaggio incontra un tale successo?

La risposta viene fornita dallo stesso autore e possiamo rintracciarla tra le pagine di questa sua “compilation” di aneddoti. È in virtù del principio di identificazione che milioni di persone si ritrovano a vivere queste storie, riconoscendosi nelle situazioni rappresentate dall’autore. Dilbert, quel personaggio disperatamente moderno, somiglia in modo molto crudele a tutte quelle “persone qualunque” che quotidianamente cercano di sopravvivere nel mondo del lavoro.

L’autore, che è persona molto intelligente e spiritosa, questo lo sa molto bene. Perché prima di essere autore di successo, Scott Adams ha fatto diciassette anni di carriera ordinaria in una serie di società in cui, secondo lui, non è mai rimasto abbastanza per diventare realmente competente. Ha proprio vissuto la esistenza di Dilbert, egli è Dilbert e lo rivendica appena può. A suo dire, pretendeva di essere ingegnere, senza averne le capacità; esattamente come i suoi personaggi, che sono degli impostori e per i quali l’essenziale nella vita professionale consiste nel nascondere accuratamente tale incapacità.

La “nuova teoria” sviluppata in questo suo ultimo libro d’altra parte fa emergere in tutta la sua evidenza tale idea. Postulato di base: “le persone sono faine”. O, se si preferisce, furbacchioni, maligni, manipolatori. Solo i furbi possono del resto sopravvivere per molti anni in un ambiente di lavoro che molto spesso – in un modo o nell’altro – è simile proprio a una giungla. Ove, per sfuggire il più possibile alle manovre subdole dei propri colleghi, bisogna imparare a pensare come un furbo, proprio come si propone di insegnarci Scott Adams attraverso questa nuova storia.

Con questa nuova irresistibile incursione nel mondo del lavoro, il nostro autore esplora quell’area del comportamento umano che si trova tra l’atteggiamento moralmente corretto e la condotta criminale: insomma, la zona grigia abitata da capi, direttori generali, direttori del personale, esperti di risorse umane, tagliatori di teste, venditori, ecc.

È un’opera di grande qualità e mi piace considerarla un “trattato” sulle relazioni di lavoro disfunzionali in cui osservare molti degli atteggiamenti che di solito le persone mettono in atto per comunicare in modo ambivalente o non comunicare affatto i loro pensieri e i loro sentimenti, al costo di continue “incomprensioni”, conflitti e falsificazioni.


Questa è la n. 28: Dilbert per meditare (2003) 


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