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Egoismo e responsabilità

Vi è nella responsabilità un “dovere” di risposta coniugato ad una “libertà” di scelta che si risolve in ambito giuridico, nella “imputabilità” al singolo delle azioni e delle sue conseguenze, in ambito morale in un obbligo di valutazione correlato agli altri del proprio agire.

Max Weber a fronte della tragedia della Grande Guerra parla di una “etica della responsabilità”, dell’agire tenendo conto degli effetti delle proprie azioni, contrapponendola a quella che lui chiama l’ “etica della convinzione”, in cui si giudica sulla base dell’intenzione fornendo un giudizio morale sul movente e non sugli effetti.

Nell’impossibilità di sostenere un “libero arbitrio assoluto” senza la presenza di alcun determinismo si deve introdurre una “responsabilità della riflessione”, ossia la necessità della presenza di una valutazione adeguata alle conseguenze, di un controllo razionale dei mezzi impiegati e delle loro conseguenze in cui i “valori” costituiscono premessa e coordinate dell’agire.

Questa etica della responsabilità è da Hans Jonas estesa anche a coloro che non sono ancora nati fino a ricomprendere l’intera biosfera, infatti vi è un dovere per chi ha potere di agire per il bene di coloro che da lui dipendono, un dovere essere fatto che nel proiettarsi supera la semplice rendicontazione di ciò che è stato fatto, in questo completando e saldandosi con la “sostituzione vicaria” richiamata da Bonhoeffer, nella quale vi è attraverso l’assunzione di responsabilità nei confronti degli altri il tratto distintivo dell’uomo rispetto agli altri esseri animati, tuttavia questo può risolversi in arbitrio senza il riconoscimento delle altre responsabilità proprie dell’uomo.

Ne discende una particolare responsabilità per il politico il quale deve agire “per” anziché “su” gli amministrati, con una responsabilità che investe ogni aspetto dell’esistenza in una costante continuità nel tempo tale da rinsaldare l’identità collettiva.

In quest’opera nasce l’esigenza per il politico di sviluppare le potenzialità dell’uomo anziché renderlo un semplice lacchè o automa, ma tale necessità può realizzarsi solo creandone le condizioni, ossia l’ambiente idoneo per la collettività futura, ciò non può accadere tuttavia in senso deterministico attraverso una precisa consequenzialità di atti predeterminati, ma sarà la responsabilità per gli effetti dei singoli atti a dare luogo al complesso imprevedibile del futuro, si passa pertanto da un’etica kantiana individuale ad una collettiva politica nella quale il tempo, quale tensione verso il futuro, assume una propria autonoma dimensione.

La necessità del valutare la collettività dell’essere umano proiettata nel futuro evidenzia il tessuto della comunicazione linguistica quale substrato nella

relazione intersoggettiva ( Habermas), da cui ne deriva una “comunità ideale di comunicazione” quale misura di responsabilità e moralità sulla natura consensuale delle norme che devono guidare l’agire pratico anche sulla valutazione dell’impatto tecnologico ( Apel), ma proprio la complessità delle valutazioni fa sì che tale “comunità ideale” non sia che una galassia di un insieme di comunità ideali differenziate tra loro, nel quale solo una comunicazione politica può costituire l’interconnessione.

In questo processo, sebbene Sartre assolutizzi la responsabilità di ciascun individuo, Derrida nega la possibilità di una “imputabilità” giuridica assoluta per il singolo se non ci si riferisce al contesto del suo agire, tuttavia bisogna evitare di giungere ad automatismi comportamentali in cui venga archiviato quello che Arendt definisce il “gesto del pensare”, anticamera per una deresponsabilizzazione che giustifichi qualsiasi arbitrio derivante dalla manipolazione delle coscienze, infatti solo dalla “facoltà di giudizio” può provenire quel nesso tra morale e diritto che costituisce la responsabilità personale giuridica da calarsi nella più ampia “etica della responsabilità” descritta da Jonas.

La “libertà” di giudizio che appare alla base della “facoltà” di giudizio sembra premettere a sua volta una “volontà” di giudizio che Nietzsche interpreta come inclinazione al comando, volontà di potenza al di là del semplice desiderio, che viene a risolversi in un piacere di comando e arbitrio, un surplus di forza rimesso all’esclusivo giudizio kantiano del singolo, vi è insito in questo un potenziale difetto di giudizio che aleggia semplicemente su tutti i campi umani del sapere, un errore sempre in agguato anche in qualsiasi norma o regola imposta dall’esterno al comportamento umano ( Arendt).

Solo il principio di una “etica della responsabilità” può essere parametro di giudizio, contraltare all’eccessivo ideologico individualismo sociale (Dumont) tratto comune nella modernità con l’ universalismo (Simmel), una differenza individuale propria delle differenziazioni culturali ed economiche insite nella crescita della società moderna, la quale giustifica sé stessa sulla crescente qualità della forma di vita sociale, ne consegue che l’individualismo deve sfociare nella cooperazione strategica in presenza di obiettivi sociali comuni in un’alternarsi di cooperazione/conflitto, contrapposto alla mera ed esclusiva egoistica competizione di tipo atomistico (Genovese).

Nell’evoluzione vi è la ricerca di una giusta combinazione fra selezione del gene e selezione di gruppo al fine di una continua adattabilità all’ambiente che l’uomo stesso in buona parte ha creato, in questa strategia mista intervengono i “geni culturali” quale eredità culturale nel definire il rapporto ottimale del campo da gioco (Lunsden- Wilson) ; al bagaglio genetico del comportamento si sovrappongono le condizioni generali determinate dai meccanismi della selezione di gruppo, sì ché ad una strategia pura singola di primo livello si aggiunge ed interseca una strategia mista di secondo livello nella quale il gioco è visto nella sua interezza ( Mérò ), anche se vi è sempre uno stato d’animo in qualsiasi ragionamento, un portare all’eccesso un rapporto, un sistema non solo per fini utilitaristici ma quale gioco in cui sfidare ed esaltare il proprio sé contro gli altri, quale volontà di potenza.

Scrive Huizinga, “Il guastafeste è tutt’ altra cosa che un baro. Quest’ ultimo finge di giocare il gioco. In apparenza continua a riconoscere il cerchio magico del gioco. I partecipanti al gioco gli perdonano la sua colpa più facilmente che al guastafeste, perché quest’ultimo infrange il loro stesso mondo…. Perciò egli deve essere annientato; giacché minaccia l’esistenza della comunità “giocante”…. Anche nel mondo della grave serietà, i bari, gli ipocriti, i mistificatori hanno sempre incontrato più facilitazioni dei guastafeste: cioè gli apostati, gli eretici, gli innovatori e i prigionieri della propria coscienza”.” ( p. 15 Homo ludens, Einaudi 1973).

 

Sabetta Sergio, Egoismo e Responsabilità. Alla ricerca della qualità

Pubblicato in Sociologia e Psicologia del diritto

http://www.diritto.it/docs/33428-egoismo-e-responsabilit?page=2

 

Bibliografia

  1. Weber, L’etica della responsabilità, La Nuova Italia 2000;
  2. Furiosi, Uomo e natura nel pensiero di Hans Jonas, Vita e Pensiero 2003;
  3. Vergini, Jacques Deridda, Bruno Mondadori 2000;
  4. Arendt, responsabilità e giudizio, Einaudi 2004;
  5. Dumont, saggi sull’individualismo, Adelphi 1993;
  6. Adorno, La crisi dell’individuo, Diabasis 2010;
  7. Simmel, Sociologia, Edizioni di Comunità 1989;
  8. Genovese, Com’è possibile un individualismo sociale ? , 2011 – web. Kainos-prtale.com;
  9. Abbagnano, Storia della filosofia, Vol. III, Utet 1974;
  10. Mérò, Calcoli umani. Teoria dei giochi, logica e fragilità umana, Dedalo ed. 2005;
  11. J. Lumsden – E.O. Wilson, Genes, Mind and Culture, Harvard University Press 1981.

Codice di condotta degli appartenenti alle forze di Polizia

Quando ne faccio cenno con i diretti interessati, essi di solito mi guardano straniti, come se stessi parlando di mondi alieni. Eppure il Codice di condotta degli appartenenti alle forze di Polizia (approvato dall’Assemblea Generale ONU, il 17 dicembre 1979) è realtà.

 

Articolo 1

Gli appartenenti alle forze di polizia assolveranno in ogni momento i compiti loro affidati dalla legge, servendo la comunità e proteggendo ogni singolo individuo contro ogni atto illecito, coerentemente con l’alto grado di responsabilità richiesto dalla loro professione.

Commentario:

a) Il termine “appartenente alle forze di polizia” indica ogni funzionario, sia nominato sia eletto, che esercita i poteri di polizia, in particolare il potere di fermo o arresto.

b) Nei paesi in cui i poteri di polizia sono esercitati da autorità militari, sia in uniforme sia in civile, o da servizi di sicurezza statali il termine “appartenente alle forze di polizia” va esteso ai funzionari di quei corpi e servizi.

c) Si intende in particolare che il servizio alla comunità deve includere l’assistenza a quei membri della comunità che a causa di emergenze personali, economiche, sociali o di altro tipo hanno bisogno di aiuto immediato.

d) Questa norma tende a coprire non solo tutti gli atti violenti, predatori o dannosi, ma si estende a tutta la gamma dei divieti sanciti dalle leggi penali. Si estende alle persone incapaci dal punto di vista della responsabilità penale.

I commentari forniscono informazioni utili a facilitare l’uso del codice nell’ambito delle legislazioni e prassi nazionali. Inoltre dei commentari nazionali o regionali, destinati a promuovere l’applicazione del codice, dovrebbero identificare le particolarità dei sistemi e prassi legali di ogni stato o area continentale.

Articolo 2

Nello svolgimento dei doveri d’ufficio, gli appartenenti alle forze di polizia rispetteranno e proteggeranno la dignità umana e sosterranno e rinforzeranno i diritti dell’uomo.

Commentario:

a) I diritti dell’uomo in questione sono quelli identificati e protetti dalla legge domestica e internazionale. Fra i maggiori strumenti internazionali si citano: la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, la Dichiarazione per proteggere tutti gli individui dall’essere sottoposti a tortura e ad altre forme di trattamento o pena crudeli, inumane o degradanti, la Dichiarazione dell’ONU sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, la Convenzione internazionale sulla soppressione e punizione del crimine di apartheid, la Convenzione sulla prevenzione e punizione del crimine di genocidio, le Regole minime per il trattamento dei detenuti e la Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari.

b) I commentari nazionali a questa norma debbono indicare le normative domestiche e regionali che identificano e proteggono questi diritti.

Articolo 3

Gli appartenenti alle forze di polizia possono fare uso della forza solo in caso di stretta necessità e solo nei limiti richiesti dal compimento del proprio dovere.

Commentario:

a) La norma rileva che l’uso della forza da parte degli appartenenti alle forze di polizia deve essere un fatto eccezionale; infatti, mentre implica che gli appartenenti alle forze di polizia possono essere autorizzati ad usare la forza, quando questo è ragionevolmente necessario per prevenire un crimine o per arrestare o partecipare all’arresto di criminali o sospetti, il testo sottolinea che non si può mai usare la forza al di là di tali limiti.

b) Le leggi domestiche normalmente impongono limiti all’uso della forza da parte degli appartenenti alle forze di polizia, facendo ricorso a un principio di proporzionalità. Tale principio va rispettato nell’interpretare questa norma, che non si può in alcun caso interpretare come un’autorizzazione all’uso in modo non proporzionato ai legittimi obiettivi da raggiungere.

c) L’uso delle armi da fuoco va considerato una misura estrema e occorre fare ogni sforzo per evitarlo, specialmente contro i minorenni. In generale, le armi da fuoco dovrebbero essere usate solo quando un autore di reato offre resistenza armata o pone in qualche altro modo a rischio la vita degli altri e non esistono misure meno estreme capaci di contenerlo e fermarlo. In ogni caso in cui si sia usata un’arma da fuoco, occorre fare un immediato rapporto all’autorità competente.

Articolo 4

Gli appartenenti alle forze di polizia non devono rendere note informazioni di natura confidenziale in loro possesso a meno che il dovere d’ufficio o la necessità della giustizia non richiedano assolutamente di farlo.

Commentario:

Proprio per la natura della loro professione, gli appartenenti alle forze di polizia vengono a conoscere fatti riguardanti la vita privata di altri o potenzialmente dannosi per i loro interessi, e ancor più per la loro reputazione. Essi devono usare ogni cura e precauzione per salvaguardare tali informazioni e renderle note solamente se necessario per svolgere doveri d’ufficio o servire le necessità della giustizia. Renderle pubbliche per qualunque altro motivo è una grave mancanza.

Articolo 5

Nessun appartenente alle forze di polizia infliggerà, istigherà o tollererà atti di tortura o altri tipi di trattamento o pena crudeli, inumani o degradanti, né potrà invocare attenuanti come ordini superiori o circostanze eccezionali – come lo stato di guerra o il pericolo di guerra imminente, le minacce alla sicurezza nazionale, l’instabilità politica o ogni altro tipo di emergenza pubblica – come giustificazioni della tortura o di altri tipi di trattamento o pena crudeli, inumani a degradanti.

Commentario:

a) Questo divieto discende dalla Dichiarazione per proteggere tutti gli individui dall’essere sottoposti a tortura e ad altre forme di trattamento o pena crudeli, inumane o degradanti, adottata all’Assemblea Generale, secondo cui: “Un tale atto è un’offesa alla dignità umana e deve essere condannata come un rifiuto degli scopi dello Statuto delle Nazioni Unite e una violazione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali proclamate dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (e dagli altri strumenti internazionali) sui diritti dell’uomo”.

b) La Dichiarazione definisce il termine “tortura” come: “… ogni atto con cui un pubblico ufficiale intenzionalmente infligge, o istiga un altro ad infliggere, un grave dolore o sofferenza, sia fisici sia mentali, ad un individuo allo scopo di ottenere da lui o da altri un’informazione o una confessione, di punirlo per un atto che ha commesso o è sospettato di aver commesso, o di intimidire lui o altri. Non include il dolore o la sofferenza che derivano esclusivamente, per ragioni intrinseche o accidentali, da sanzioni legittime in linea con i principi delle Regole minime per il  trattamento dei detenuti”.

c) Il significato di “trattamento a pena crudeli, inumani o degradanti” non è stato definito dall’Assemblea Generale, ma deve essere interpretato nel modo più estensivo possibile in modo da fornire protezione contro ogni abuso sia fisico sia mentale.

Commentario:

a) Il Codice avrà valore coercitivo non appena incorporato nella legislazione o prassi domestica. Se queste comprendano norme più rigorose, andranno osservate queste ultime.

b) L’articolo cerca di preservare un giusto equilibrio fra la necessità di disciplina interna nell’agenzia dalla quale dipende in larga misura la sicurezza pubblica e la necessità di intervenire contro le violazioni dei diritti dell’uomo. Gli appartenenti alle forze di polizia denunceranno le violazioni attraverso la catena di comando e intraprenderanno altre prassi legali al di fuori di questa, solo se non sarà disponibile o non avrà effetto alcun altro rimedio. È chiaro che, per avere denunciato una violazione o una tentata violazione del Codice, gli appartenenti alle forze di polizia non devono subire alcuna sanzione amministrativa o d’altro tipo.

c) La frase “apposite autorità od organismi con potere di controllo e di intervento” si riferisce a qualunque autorità o organismo istituiti dalla legge domestica, sia interni o esterni alle forze di polizia, con potere statutario, consuetudinario o di altro tipo, di esaminare reclami e denunce relativi alle violazioni del Codice.

d) In alcuni paesi, i mezzi di comunicazione di massa possono svolgere un ruolo di controllo dei reclami simile a quello delle istituzioni citate nel paragrafo c. Gli appartenenti alle forze di polizia possono essere quindi giustificati se, come estremo rimedio, secondo la legge e i costumi del proprio paese e nel rispetto dell’articolo 4 di questo Codice, richiamano l’attenzione dell’opinione pubblica su una violazione attraverso i mezzi di comunicazione di massa.

e) Gli appartenenti alle forze di polizia che operano secondo le norme di questo Codice meritano il rispetto, pieno supporto e cooperazione sia della comunità e dell’istituzione in cui servono, sia di tutte le forze di polizia.

Articolo 6

Gli appartenenti alle forze di polizia garantiranno la totale protezione della salute delle persone in loro custodia. In particolare, essi prenderanno immediate misure per assicurare le cure mediche quando necessario.

Commentario:

a) La frase “cure mediche” indica i servizi forniti da ogni tipo di personale sanitario – compresi medici e paramedici – che devono essere assicurati ogni volta che siano necessari o vengano richiesti.

b) È probabile che nei ruoli della polizia sia inserito del personale medico, del cui parere i funzionari devono tenere conto quando richiedono di fornire a una persona sotto custodia un trattamento attraverso, o in consulto con personale medico esterno.

c) Si capisce che gli appartenenti alle forze di polizia devono procurare le cure mediche anche per le vittime di reati o d’incidenti scaturiti dalla commissione di un reato.

Articolo 7

Gli appartenenti alle forze di polizia non dovranno mai essere coinvolti in atti di corruzione. Anzi si opporranno rigorosamente alla corruzione e la combatteranno.

Commentario:

a) Ogni atto di corruzione, come ogni altra forma di abuso di autorità, è incompatibile con la professione di funzionario di polizia. Occorre prendere i dovuti provvedimenti di legge contro qualunque appartenente alle forze di polizia colpevole di corruzione con estremo rigore, poiché uno stato non può applicare la legge sui propri cittadini, se non può, o non vuole, applicarla sui propri funzionari e all’interno delle amministrazioni pubbliche.

b) La completa definizione di corruzione è fornita dalle legislazioni domestiche; ma essa include in ogni caso la commissione o omissione di un atto nello svolgimento dei propri doveri, in cambio di doni, promesse o incentivi richiesti o accettati, o illecita accettazione di tali favori dopo avere commesso o omesso un atto.

c) L’espressione “atto di corruzione” sopra citata va interpretata come inclusiva di “tentata corruzione”.

Articolo 8

Gli appartenenti alle forze di polizia rispetteranno la legge e questo Codice e si opporranno, con tutte le loro forze e estremo rigore, ad ogni violazione contro le loro norme.

Gli appartenenti alle forze di polizia che avranno motivo di credere che una violazione del Codice sia avvenuta o stia per avvenire, denunceranno il fatto ai propri superiori e, se necessario, ad altre apposite autorità od organismi con potere di controllo e intervento.

Commentario:

a) Il Codice avrà valore coercitivo non appena incorporato nella legislazione o prassi domestica. Se queste comprendono norme più rigorose, andranno osservate queste ultime.

b) L’articolo cerca di preservare un giusto equilibrio fra la necessità di disciplina interna nell’agenzia dalla quale dipende in larga misura la sicurezza pubblica e la necessità di intervenire contro le violazioni dei diritti dell’uomo. Gli appartenenti alle forze di polizia denunceranno le violazioni attraverso la catena di comando e intraprenderanno altri passi legali al di fuori di questa solo se non sarà disponibile o non avrà effetto alcun altro rimedio. È chiaro che, per avere denunciato una violazione o una tentata violazione del Codice, gli appartenenti alle forze di polizia non devono subire alcuna sanzione amministrativa o d’altro tipo.

c) La frase “apposite autorità od organismi con potere di controllo e intervento” si riferisce a qualunque autorità o organismo istituiti dalla legge domestica, sia interni o esterni alle forze di polizia, con potere statutario, consuetudinario o di altro tipo, di esaminare reclami e denunce relativi alle violazioni del Codice.

d) In alcuni paesi, i mezzi di comunicazione di massa possono svolgere, un ruolo di controllo dei reclami simile a quello delle istituzioni citate nel paragrafo c. Gli appartenenti alle forze di polizia possono essere quindi giustificati se, come estremo rimedio, secondo la legge ed i costumi del proprio paese e nel rispetto dell’articolo 4 di questo Codice, richiamano l’attenzione dell’opinione pubblica su una violazione attraverso i mezzi di comunicazione di massa.

Gli appartenenti alle forze di polizia che operano secondo le norme di questo Codice meritano il rispetto, pieno supporto e cooperazione sia della comunità e dell’istituzione in cui servono, sia di tutte le forze di polizia.

La evoluzione del concetto di “prossimità”

Da un intervento di Mauro Famigli, Comandante della Polizia Locale di Torino, al IV Forum della Polizia Locale, (24.10.2011). Titolo originale: La Polizia di prossimità

 

Parlo della polizia di prossimità, non nascondendo che c’è una certa stanchezza sul termine “prossimità”, che nel corso degli anni è diventato una parola, come spesso capita in altri casi, svuotata di senso. Se provassimo a distribuire un questionario, chiedendo che cosa si intende per prossimità, salterebbero fuori duecento o trecento definizioni, l’una diversa dall’altra. Le definizioni sono, per loro natura, molto soggettive, ma quando si parla di una attività di polizia credo che sarebbe necessario un minimo di glossario, perché altrimenti va a finire che c’è chi parla di una cosa ma l’altro ha in testa un altro concetto e si finisce per non capirsi. Nel corso del tempo sono state date 40.000 definizioni di prossimità, a partire da quella francese iniziale. L’ultima che ho sentito, che mi ha fatto molto piacere, definiva la prossimità come una filosofia. Manca solo, nell’elenco delle definizioni di prossimità, che sia anche un’inclinazione sessuale e poi c’è tutto!

 

Continuo a ritenere, almeno per quanto riguarda noi, che la “prossimità” sia semplicemente un modo di fare polizia, un modo di esercitare il mestiere di polizia, che ha due o tre caratteristiche fondamentali, che poi proverò a declinare; soprattutto un modo di fare polizia per risolvere problemi. Io credo (anche in questo caso senza inventare nulla di nuovo) che una definizione generale dell’attività di polizia è quella di una funzione di servizio, per risolvere alcuni problemi di oggi. Quindi nel concetto di polizia, soprattutto quello di prossimità, è contenuto lo stimolo per non cadere nella tenaglia o nella tentazione autoreferenziale, quella di continuare a fare sempre quello che si è fatto. Una caratteristica fondamentale è quella di essere disponibili al cambiamento, perché se cambiano i bisogni, i problemi da risolvere, occorre cambiare anche il modo di agire, le strategie, le azioni messe in campo …

Questa è una prima condizione per risolvere problemi, se la prossimità è una funzione della credibilità e dell’affidabilità della forza di Polizia che è chiamata a farlo.

 

Sì, è vero quello che è stato detto; sulla affidabilità, sulla credibilità qualche problema c’è. Credo che un male fondamentale sia (a parte, non bisogna nasconderlo, qualche errore interno, ma non è determinante) secondo me la campagna nazionale, con le punte più accese di città in città, che identifica l’attività della Polizia municipale, locale e dei Vigili come quella che serve per fare cassa. Non contano niente tutte le attività, tutti i servizi di Polizia giudiziaria, più o meno qualificati, di Polizia commerciale, tutto quello che ogni Polizia Locale fa in tutta la città. L’unica cosa che si sente dire è che noi lavoriamo per fare cassa. Io penso sia offensivo per tutti quelli, fra noi, che lavorano tutto il giorno per il rispetto della legalità, per l’applicazione di alcune regole, per risolvere i problemi. È un discorso ingigantito dai media, dai giornali, dalle tv, che in questo modo fanno un pessimo servizio al bene comune, perché più si fa decrescere l’affidabilità di una forza di Polizia, più ci rimettono tutti. Così non si risolvono i problemi, perché viene a cadere la credibilità, nessuno crede che noi siamo in grado di fare cose giuste, perché facciamo solo multe, perché lavoriamo solo per fare soldi.

Un’altra considerazione è che, purtroppo, siamo più o meno rimasti l’unico Corpo di Polizia che mette le mani in tasca ai cittadini e, soprattutto di questi tempi non è una cosa che piaccia, che porti consensi.

 

Per la prossimità, intesa come modo di fare di Polizia, i punti fondamentali, i punti cardine sono due o tre, ormai ampiamente accettati da tutta la dottrina, perfino dai Ministeri. Il centro dell’attività di Polizia non è soltanto il contrasto al crimine, ma, soprattutto per quel che guarda noi, il lavoro per migliorare la qualità della vita. Tutti sappiamo – cerco di riannodare alcuni concetti ampiamente conosciuti – che sulla qualità della vita non incide soltanto il reato. Le indagini infatti hanno dimostrato che in parecchi contesti, in presenza della diminuzione degli indici di criminalità, dei reati, a volte aumenta il senso di allarme, il senso di paura, che è determinato non soltanto dai reati, ma anche da come si vive in un determinato contesto. Sulla percezione della sicurezza incide molto il senso di allarme, la paura.

 

Il capo della Polizia di Stato, qualche anno fa, disse – e io sono convinto che abbia centrato il punto – che uno dei compiti più importanti, forse uno di quelli principali dell’attività di Polizia, sia quello di garantire alle persone la libertà dalla paura. È un bell’impegno, perché la paura è determinata da tante cose, dai fatti della vita quotidiana che conosciamo tutti, che capitano frequentemente. Questo è, credo, sulla qualità della vita, sui disturbi, sul degrado, su tutto quello che compone la filiera dell’attività nostra, lo spazio più o meno esclusivo in capo alla Polizia Locale.

Un’altra caratteristica, pure ampiamente discussa e accettata, è relativa non più e non soltanto all’oggettività, ma alla percezione soggettiva. Anche qui si scopre l’acqua calda, credo che una delle caratteristiche fondamentali dell’attività di prossimità, variamente denominata, sia quella di prendere in considerazione le persone, di agire sulla metà del problema della sicurezza relativo alla rassicurazione. Io ritengo che sia ovvio che ognuno di noi quando ha un problema, se qualcuno è disposto ad ascoltarlo, a prendere in considerazione le sue lamentele, in quel momento, si sente meglio, anche se si tratta di una cosa che non finirà mai nelle statistiche criminologiche. Io credo che in questo modo una buona metà del problema della sicurezza sia risolto, perché tutti noi amiamo essere presi in considerazione, ci sentiamo vivi, stiamo meglio, se qualcuno ci ascolta, soprattutto se abbiamo un problema, dalle malattie a tutto resto.

 

È importante ascoltare, questo è l’inizio, sono le prime esperienze di prossimità.

Ricordiamo il Vigile di quartiere, con l’enfatizzazione che ne è stata data, anche in riferimento al Poliziotto di quartiere e al Carabiniere di quartiere; come dice Franco, oltre alla pattuglia che girava a piedi, un po’ più discosto c’era sempre un altro agente con la telecamera che riprendeva. Questa era una sua battuta! È importante ascoltare, raccogliere le segnalazioni. Ascoltare il negoziante che racconta il suo problema magari con i mendicanti o con i ragazzi indisciplinati, è una delle prime cose da fare. Se ti fermi soltanto ad ascoltare, rischi di diventare, dopo poco tempo, inutile. È vero che la prima volta funziona, perché magari prima nessuno lo ascoltava e allora diventa importante quello che fai. Infatti se qualcuno ha un problema e arriva una persona in divisa con la quale può parlare delle vicende sue, questa presenza è importante. Se però tutto si ferma all’ascolto e alla rassicurazione, si rischia di diventare in breve tempo una terapia inutile. Dopo un po’ una persona si sente troppo ascoltata ma il problema rimane, allora si sente presa in giro.

Questo per ragionare sempre sulla teoria antica, che però io credo sia ancora attuale per l’attività di Polizia, del problem solving, ovvero: c’è un problema, ti ascolto e ti rassicuro, ti prendo in considerazione, agisco sulla tua percezione soggettiva. Se però sotto casa tua continua il disagio dovuto al gruppo dei ragazzi che non ti fanno dormire da tre mesi, ti avrò anche ascoltato 15 volte, ma non ti ho risolto il problema.

Io vedo che da molte parti, compresa la città in cui lavoro, si è cercato di fare un passo avanti, di concentrare l’attività sul fare le cose: va bene ascoltare, però bisogna anche fare. Adesso è un po’ diversa, l’attività di prossimità, al puto tale che non so se sia possibile chiamarla ancora in questo modo, ma tanto ormai è invalso l’uso. Se in un’organizzazione di Polizia Locale non c’è la parola prossimità, se non c’è qualcosa che faccia prossimità, questo è politicamente scorretto e non va bene.

 

Io ho vissuto parecchie esperienze, compresa la mia, molto diverse dall’iniziale Vigile di quartiere, dalla raccolta di segnalazioni, di problemi, dal portare in giro la divisa, dal farsi vedere, dall’ascoltare la gente così via. Adesso stiamo cercando di lavorare su alcune direttrici di specializzazione, quindi il nostro è diventato – almeno nella mia esperienza, come in quella di altre città – un nucleo ad alta specializzazione, che fa alcune cose di alta qualità e con grande specializzazione. Quali cose? Io credo che questo nucleo, questa attività di prossimità sia quella più esposta al cambiamento, perché ritengo che debba specializzarsi ed intervenire sui problemi di quell’area di problematica, sulla convivenza civile, sulla qualità urbana di un contesto che magari a Torino è in un modo, a Verona in un altro, a Frosinone in un altro ancora, su quelli che sono prioritari momento per momento. Se tutti noi continuiamo a fare le stesse cose – nelle attività di Polizia c’è una forte tendenza al conservatorismo – a fare oggi quello che facevamo ieri, non va bene.

Questa è una difesa personale, è una sicurezza personale malintesa, perché se continuo a fare quello che facevo ieri, so come si fa, sono tranquillissimo e sicuro. Se devo fare delle cose nuove, invece, il cambiamento diventa un po’ difficile, ti chiedi se saprai farlo oppure no, devi inventarti qualcosa di nuovo. Io penso faccia parte di una matrice fondamentale dell’attività della Polizia urbana, o dei Vigili urbani: imparare sul campo, essere continuamente stiracchiati per la giacchetta, una delle tante che portiamo in giro, e doversi inventare sul lavoro, direttamente sul posto, una soluzione, una professionalità. Questo non ci ha mai spaventato.

 

Adesso vedo, anche con strumenti comuni, due o tre aree di specializzazione abbastanza diffuse in tutte le città, che si prestano molto bene. Una è quella delle aggregazioni giovanili, del bullismo, delle baby gang e così via, la seconda è l’attività dello stalking, allargata a tutti i maltrattamenti in famiglia, la terza è quella dei conflitti di caseggiato, di condominio, che sono un una miriade ovunque. In questi campi possono essere messe in piedi moltissime attività di collegamento, ad esempio protocolli d’intesa con le Procure: nella mia città, come in altre, questo è stato fatto. Sui maltrattamenti in famiglia è possibile, perché ho visto che c’è disponibilità, fare protocolli d’intesa con la comunità di riferimento: ci si impegna a fare qualcosa anche loro. Noi abbiamo sottoscritto un protocollo con una comunità ortodossa, perché capita questo: sarà malamente inteso un mediatore culturale, però è vero che sui maltrattamenti in famiglia la

pensiamo da italiani. Nell’ambiente può essere, molto spesso, che gli stranieri non capiscano, perché non si tratta di maltrattamenti, per loro è un modello educativo un po’ tirato, un sistema di relazioni familiari, fra coniugi, un pochino tirato, e stiamo parlando di botte. Il fatto oggettivo è che si tratta di botte. Allora, con l’intervento della comunità di riferimento, io credo che si possa intervenire in maniera migliore, perché se sono i loro referenti a spiegare che non va bene picchiare il figlio o la moglie, forse vengono ascoltati.

Se, invece, questo viene spiegato loro da uno dei miei vigili, quest’ultimo diventa il cattivo della situazione.

 

Un’ultimissima cosa: non so se serva una modifica legislativa, io credo che potrebbe essere fatta anche come indirizzo operativo, mi riferisco allo stalking, con un ammonimento del Questore. Tutti ci si interessa, giustamente, della vittima del reato, ma dello stalker non si interessa nessuno: verrà condannato, verrà ammonito eccetera, ma se non si interviene su di lui, c’è un’altissima probabilità che lo rifaccia. Per quale motivo non pensare che nell’ammonimento si possa inserire la prescrizione? So che esistono già esperienze di questo tipo fuori dall’Italia, purtroppo: si tratta di obbligare lo stalker a frequentare dei momenti rieducativi, che in qualche maniera – è meglio di niente, sicuramente – possono contribuire a migliorare la situazione. Lo stalker deve frequentare un corso, questa è una prescrizione dell’ammonimento.

Io credo che tutte le cose che ho detto, in maniera confusa, oggi siano il significato più concreto e reale di una parola, prossimità, che sennò rischia di rimanere solamente una bandiera e basta.

 

A margine dell’assemblea sindacale di una Polizia Locale

I tragici fatti di questi ultimi giorni e la nostra sofferenza ad essi connessa, esortano a prestare la necessaria attenzione su un argomento verso il quale non possiamo più rimanere indifferenti: il disagio costante degli operatori di PL, che ogni giorno vivono realistiche tensioni esistenziali legate innanzitutto alla impossibilità di sapere a cosa andranno incontro nel corso del loro servizio quotidiano.

Si pongono di fronte all’imprevedibile, non potendo prevedere in anticipo ciò che potrà accadere, e allo stesso tempo sfidano l’imprevisto, ovvero quanto potrà capitare al di fuori della loro capacità di “immaginare” il potenziale rischio correlato alla loro specifica attività di lavoro.

A tutto ciò si aggiungono le situazioni straordinarie e drammatiche che possono intervenire in servizio e in particolari eventi critici; ma pure in quei casi in cui ci si sente esposti al pericolo di perdere la vita, vivendo contemporaneamente un sentimento d’estrema impotenza e di massima vulnerabilità.

Inoltre, essere minacciati o vedere un collega ferito o ucciso, trovarsi in situazioni di violenza in cui sono coinvolti dei bambini o persone deboli, sono tutti momenti particolarmente shoccanti che mettono a dura prova la stabilità delle persone.

In questi casi, l’impatto degli eventi supera i limiti che gli operatori sono abituati ad affrontare ed è l’essere umano, la persona, che ne subisce le conseguenze; non l’agente (e ciò che rappresenta) in servizio.

Allora, qualunque sia la preparazione professionale, l’età e l’esperienza sul campo dell’operatore, l’entrare in contatto con situazioni che possono generare angoscia, dolore, violenza, morte, può sfociare inevitabilmente in profonde e importanti reazioni sul piano emotivo che, in casi estremi, possono addirittura sfociare in patologie gravi e tentativi di suicidio.

In modo del tutto superficiale si crede che la sofferenza sia appannaggio delle persone fragili e indifese. In realtà il fenomeno colpisce tutti, anche quelle categorie di lavoratori che almeno nell’immaginario collettivo ne sarebbero esenti. Chi soffre, non necessariamente è malato. Tuttavia, la difficoltà di poter ”confidare” aspetti che riguardano la sofferenza esistenziale, seppur circoscritta al momento, nel timore di incorrere in giudizi negativi che possano pregiudicare il proprio percorso professionale, costringe le persone a rimanere chiuse nel loro disagio e, di conseguenza, essere meno perforanti.

Il contesto sociale e culturale nel quale è nato il “vigile” si è completamente trasformato e non è un caso se oggi non siamo più vigili urbani ma Agenti di Polizia Locale, alle prese con nuove forme di delinquenza, sempre più dure, verso le quali non sono adeguatamente preparati. Occorrerebbe rivedere la formazione sul piano psicologico, lavorando di più sulla conoscenza di se, il modo in cui si reagisce alle situazioni di violenza, ma anche sulle rappresentazioni dei delinquenti che si incontrano.

Le ricerche internazionali, sull’organizzazione del lavoro in polizia locale, segnalano la necessità di tener conto del “fattore umano” come elemento fondante la qualità di resa del servizio espletato dagli agenti e come fondamento imprescindibile dell’efficienza degli operatori.

Vi auguro buon lavoro, con molta stima e riconoscenza

Allarme: il lavoro è ormai un’ossessione

Il caso, recente, di A. Horta-Osorio, il Ceo Lloyds Bank al quale le cronache internazionali hanno dedicato ampio spazio, rischia di essere considerato un caso isolato e straordinario, quando invece si tratta dell’esemplificazione di una realtà allarmante, sulla quale è necessario rivolgere maggiore attenzione e responsabilità.

Sicuramente è la prima volta che un manager d’altissimo livello confessa apertamente, e in modo enfatico, di essersi “ammalato di lavoro”. Rischiando addirittura  di passare alla storia come il primo illustre contagiato da una nuova patologia.

Nel comunicare la sua esperienza e le sue scelte, forse ha voluto, saggiamente, dimostrare che se un trader non è in grado di lavorare quando è stressato, ciò potrebbe significare una notevole perdita di ricavato. Così ha fornito un’immagine d’efficientismo a vantaggio della sua banca e a beneficio della sua reputazione professionale.

Gli organi di stampa hanno riportato il parere degli esperti che considerano quella malattia come inability to swich off (ITSO) cioè  “Sindrome dell’incapacità di staccare la spina”, altri hanno parlato di burn-out; in un caso e nell’altro, sono ambedue malattie da stress correlato con il lavoro.

Il problema è noto già tempo e, se ad esempio, consideriamo i dati di recentissime ricerche proprio nel panorama della City londinese, possiamo renderci conto che la fatica e la sofferenza delle persone che lavorano nel mondo della finanza è un fatto accertato. Perché, l’agitazione dei mercati prodotta dalle crisi del debito nell’eurozona ha accresciuto lo stress subito dagli operatori finanziari. Mentre la fatica di raggiungere gli obiettivi di ricavato, la minaccia della disoccupazione e la cultura degli orari “che non finiscono più”, hanno indotto nelle persone e nelle organizzazioni di lavoro un clima da pentola a pressione. Le condizioni assai difficili di trading e la volatilità registrata in questi ultimi quattro anni, hanno portato a livello record di stress e di disturbi psichici gli addetti. Dai dati forniti da uno studio di Health & Safety Executive (HSE), emerge che tra l’ottobre 2010-2011 circa 18 mila operatori finanziari e assicurativi nel Regno Unito sono stati vittime di stress, depressione o crisi di panico in rapporto diretto con il loro lavoro.

Il recente studio realizzato da alcuni ricercatori del Finish Institute of Occupational Health e della Queen Mary University di Londra, mette in risalto che quanti lavorano oltre le 11 ore giornaliere raddoppiano il rischio di incorrere in un episodio depressivo maggiore rispetto ai colleghi che svolgono il lavoro nell’arco di 7-8 ore. Il dato aiuta a comprendere che le giornate di lavoro troppo lunghe non causano solo problemi in ragione delle pressioni interne all’organizzazione e l’intensità del lavoro svolto. Esse comportano un danno aggiuntivo perché chi lavora non ha abbastanza tempo da dedicare a tutte le altre cose di cui ha bisogno per rimanere in buona condizione fisica e mentale, come: dormire adeguatamente, intrattenere delle relazioni e disporre di congrui momenti per riposare e avere del tempo libero. In conclusione, fare ore supplementari può avere un effetto benefico per l’individuo e la società, ma è importante riconoscere che quando si lavora troppo si può incorrere in una depressione grave.

In un periodo storico come l’attuale in cui la sofferenza più avvertita è quella della mancanza di lavoro, sembra del tutto strano parlare di un problema che, invece, è direttamente collegato con il troppo lavoro.

I datori di lavoro e gli stessi lavoratori hanno ancora scarsa familiarità con questo fenomeno, caratterizzato dal fatto che una persona è attiva anche quando la sua salute fisica e mentale non lo permette; come in tutti quei casi di stress cronico che rischiano di diventare, superando la capacità di dissimulazione delle persone, conclamate forme d’esaurimento professionale. D’altra parte, il lavoro in modalità 24/7, come si dice, o l’essere “sempre connessi”, pur capaci di polarizzare le aspirazioni di una comunità o di un’epoca, spingono le persone a mettere in secondo piano la propria vita familiare e sociale. Con il rischio di ritrovarsi “cortocircuitati” o in burn-out.

E’ quello che capita spesso, offrendo un denominatore comune a tutte quelle forme di disagio multifattoriale, definite in vario modo dalla letteratura scientifica: dipendenza da lavoro, workaholism o work-addiction (nei paesi anglosassoni), Arbeitssucht (nella lingua tedesca), Karoshi (Giappone), sisifopatia, ecc. Sindromi accomunate da una componente “ossessiva” e “compulsiva” nei confronti del lavoro. Si tratta in questo caso di una dedizione al lavoro riconosciuta come un’attività lecita e socialmente accettata, che però nel tempo perde il suo valore identitario e si trasforma in una forma di dipendenza che implica l’incapacità di regolare i propri ritmi di lavoro e la continua ricerca di compiti da portare a termine nel minor tempo possibile. Dipendenza, che nella maggior parte dei casi è ego-sintonica, nel senso che chi è coinvolto non percepisce il problema, mentre altri, come ad esempio i familiari, ne fanno direttamente le spese per i disagi derivanti della sua auto-esclusione sociale.

Occorre tener conto anche, che nella “bibbia” dei professionisti della salute mentale, l’arcinoto Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali o DSM, non vi è cenno del burn-out e tantomeno dell’esaurimento professionale. Ciò significa che, sul piano clinico, auspicando un’adeguata esperienza di psicopatologia, in genere s’inquadrerà il caso nei termini di un Disturbo dell’adattamento con umore depresso, o con ansia e umore depresso, oppure con specificazioni ulteriori; che è proprio il quadro psicopatologico corrispondente al burn-out o esaurimento professionale; ciò nonostante, non rendendosi conto del dato eziologico. Tutto questo vuol dire che, tale condizione esistenziale il più delle volte è valutata in maniera non adeguata, a scapito di un puntuale intervento clinico che tenga conto di tutti i fattori in causa, quali ad esempio: le caratteristiche della persona (personalità e stile cognitivo, fattori protettivi, ecc.), le peculiarità del lavoro e dell’organizzazione del lavoro, la rete e il supporto sociale. A questo punto, è fortemente auspicabile un rapporto di stretta collaborazione tra lo psicologo esperto di psicopatologia del lavoro e il medico di base.