La evoluzione del concetto di “prossimità”

La evoluzione del concetto di “prossimità”

Da un intervento di Mauro Famigli, Comandante della Polizia Locale di Torino, al IV Forum della Polizia Locale, (24.10.2011). Titolo originale: La Polizia di prossimità

 

Parlo della polizia di prossimità, non nascondendo che c’è una certa stanchezza sul termine “prossimità”, che nel corso degli anni è diventato una parola, come spesso capita in altri casi, svuotata di senso. Se provassimo a distribuire un questionario, chiedendo che cosa si intende per prossimità, salterebbero fuori duecento o trecento definizioni, l’una diversa dall’altra. Le definizioni sono, per loro natura, molto soggettive, ma quando si parla di una attività di polizia credo che sarebbe necessario un minimo di glossario, perché altrimenti va a finire che c’è chi parla di una cosa ma l’altro ha in testa un altro concetto e si finisce per non capirsi. Nel corso del tempo sono state date 40.000 definizioni di prossimità, a partire da quella francese iniziale. L’ultima che ho sentito, che mi ha fatto molto piacere, definiva la prossimità come una filosofia. Manca solo, nell’elenco delle definizioni di prossimità, che sia anche un’inclinazione sessuale e poi c’è tutto!

 

Continuo a ritenere, almeno per quanto riguarda noi, che la “prossimità” sia semplicemente un modo di fare polizia, un modo di esercitare il mestiere di polizia, che ha due o tre caratteristiche fondamentali, che poi proverò a declinare; soprattutto un modo di fare polizia per risolvere problemi. Io credo (anche in questo caso senza inventare nulla di nuovo) che una definizione generale dell’attività di polizia è quella di una funzione di servizio, per risolvere alcuni problemi di oggi. Quindi nel concetto di polizia, soprattutto quello di prossimità, è contenuto lo stimolo per non cadere nella tenaglia o nella tentazione autoreferenziale, quella di continuare a fare sempre quello che si è fatto. Una caratteristica fondamentale è quella di essere disponibili al cambiamento, perché se cambiano i bisogni, i problemi da risolvere, occorre cambiare anche il modo di agire, le strategie, le azioni messe in campo …

Questa è una prima condizione per risolvere problemi, se la prossimità è una funzione della credibilità e dell’affidabilità della forza di Polizia che è chiamata a farlo.

 

Sì, è vero quello che è stato detto; sulla affidabilità, sulla credibilità qualche problema c’è. Credo che un male fondamentale sia (a parte, non bisogna nasconderlo, qualche errore interno, ma non è determinante) secondo me la campagna nazionale, con le punte più accese di città in città, che identifica l’attività della Polizia municipale, locale e dei Vigili come quella che serve per fare cassa. Non contano niente tutte le attività, tutti i servizi di Polizia giudiziaria, più o meno qualificati, di Polizia commerciale, tutto quello che ogni Polizia Locale fa in tutta la città. L’unica cosa che si sente dire è che noi lavoriamo per fare cassa. Io penso sia offensivo per tutti quelli, fra noi, che lavorano tutto il giorno per il rispetto della legalità, per l’applicazione di alcune regole, per risolvere i problemi. È un discorso ingigantito dai media, dai giornali, dalle tv, che in questo modo fanno un pessimo servizio al bene comune, perché più si fa decrescere l’affidabilità di una forza di Polizia, più ci rimettono tutti. Così non si risolvono i problemi, perché viene a cadere la credibilità, nessuno crede che noi siamo in grado di fare cose giuste, perché facciamo solo multe, perché lavoriamo solo per fare soldi.

Un’altra considerazione è che, purtroppo, siamo più o meno rimasti l’unico Corpo di Polizia che mette le mani in tasca ai cittadini e, soprattutto di questi tempi non è una cosa che piaccia, che porti consensi.

 

Per la prossimità, intesa come modo di fare di Polizia, i punti fondamentali, i punti cardine sono due o tre, ormai ampiamente accettati da tutta la dottrina, perfino dai Ministeri. Il centro dell’attività di Polizia non è soltanto il contrasto al crimine, ma, soprattutto per quel che guarda noi, il lavoro per migliorare la qualità della vita. Tutti sappiamo – cerco di riannodare alcuni concetti ampiamente conosciuti – che sulla qualità della vita non incide soltanto il reato. Le indagini infatti hanno dimostrato che in parecchi contesti, in presenza della diminuzione degli indici di criminalità, dei reati, a volte aumenta il senso di allarme, il senso di paura, che è determinato non soltanto dai reati, ma anche da come si vive in un determinato contesto. Sulla percezione della sicurezza incide molto il senso di allarme, la paura.

 

Il capo della Polizia di Stato, qualche anno fa, disse – e io sono convinto che abbia centrato il punto – che uno dei compiti più importanti, forse uno di quelli principali dell’attività di Polizia, sia quello di garantire alle persone la libertà dalla paura. È un bell’impegno, perché la paura è determinata da tante cose, dai fatti della vita quotidiana che conosciamo tutti, che capitano frequentemente. Questo è, credo, sulla qualità della vita, sui disturbi, sul degrado, su tutto quello che compone la filiera dell’attività nostra, lo spazio più o meno esclusivo in capo alla Polizia Locale.

Un’altra caratteristica, pure ampiamente discussa e accettata, è relativa non più e non soltanto all’oggettività, ma alla percezione soggettiva. Anche qui si scopre l’acqua calda, credo che una delle caratteristiche fondamentali dell’attività di prossimità, variamente denominata, sia quella di prendere in considerazione le persone, di agire sulla metà del problema della sicurezza relativo alla rassicurazione. Io ritengo che sia ovvio che ognuno di noi quando ha un problema, se qualcuno è disposto ad ascoltarlo, a prendere in considerazione le sue lamentele, in quel momento, si sente meglio, anche se si tratta di una cosa che non finirà mai nelle statistiche criminologiche. Io credo che in questo modo una buona metà del problema della sicurezza sia risolto, perché tutti noi amiamo essere presi in considerazione, ci sentiamo vivi, stiamo meglio, se qualcuno ci ascolta, soprattutto se abbiamo un problema, dalle malattie a tutto resto.

 

È importante ascoltare, questo è l’inizio, sono le prime esperienze di prossimità.

Ricordiamo il Vigile di quartiere, con l’enfatizzazione che ne è stata data, anche in riferimento al Poliziotto di quartiere e al Carabiniere di quartiere; come dice Franco, oltre alla pattuglia che girava a piedi, un po’ più discosto c’era sempre un altro agente con la telecamera che riprendeva. Questa era una sua battuta! È importante ascoltare, raccogliere le segnalazioni. Ascoltare il negoziante che racconta il suo problema magari con i mendicanti o con i ragazzi indisciplinati, è una delle prime cose da fare. Se ti fermi soltanto ad ascoltare, rischi di diventare, dopo poco tempo, inutile. È vero che la prima volta funziona, perché magari prima nessuno lo ascoltava e allora diventa importante quello che fai. Infatti se qualcuno ha un problema e arriva una persona in divisa con la quale può parlare delle vicende sue, questa presenza è importante. Se però tutto si ferma all’ascolto e alla rassicurazione, si rischia di diventare in breve tempo una terapia inutile. Dopo un po’ una persona si sente troppo ascoltata ma il problema rimane, allora si sente presa in giro.

Questo per ragionare sempre sulla teoria antica, che però io credo sia ancora attuale per l’attività di Polizia, del problem solving, ovvero: c’è un problema, ti ascolto e ti rassicuro, ti prendo in considerazione, agisco sulla tua percezione soggettiva. Se però sotto casa tua continua il disagio dovuto al gruppo dei ragazzi che non ti fanno dormire da tre mesi, ti avrò anche ascoltato 15 volte, ma non ti ho risolto il problema.

Io vedo che da molte parti, compresa la città in cui lavoro, si è cercato di fare un passo avanti, di concentrare l’attività sul fare le cose: va bene ascoltare, però bisogna anche fare. Adesso è un po’ diversa, l’attività di prossimità, al puto tale che non so se sia possibile chiamarla ancora in questo modo, ma tanto ormai è invalso l’uso. Se in un’organizzazione di Polizia Locale non c’è la parola prossimità, se non c’è qualcosa che faccia prossimità, questo è politicamente scorretto e non va bene.

 

Io ho vissuto parecchie esperienze, compresa la mia, molto diverse dall’iniziale Vigile di quartiere, dalla raccolta di segnalazioni, di problemi, dal portare in giro la divisa, dal farsi vedere, dall’ascoltare la gente così via. Adesso stiamo cercando di lavorare su alcune direttrici di specializzazione, quindi il nostro è diventato – almeno nella mia esperienza, come in quella di altre città – un nucleo ad alta specializzazione, che fa alcune cose di alta qualità e con grande specializzazione. Quali cose? Io credo che questo nucleo, questa attività di prossimità sia quella più esposta al cambiamento, perché ritengo che debba specializzarsi ed intervenire sui problemi di quell’area di problematica, sulla convivenza civile, sulla qualità urbana di un contesto che magari a Torino è in un modo, a Verona in un altro, a Frosinone in un altro ancora, su quelli che sono prioritari momento per momento. Se tutti noi continuiamo a fare le stesse cose – nelle attività di Polizia c’è una forte tendenza al conservatorismo – a fare oggi quello che facevamo ieri, non va bene.

Questa è una difesa personale, è una sicurezza personale malintesa, perché se continuo a fare quello che facevo ieri, so come si fa, sono tranquillissimo e sicuro. Se devo fare delle cose nuove, invece, il cambiamento diventa un po’ difficile, ti chiedi se saprai farlo oppure no, devi inventarti qualcosa di nuovo. Io penso faccia parte di una matrice fondamentale dell’attività della Polizia urbana, o dei Vigili urbani: imparare sul campo, essere continuamente stiracchiati per la giacchetta, una delle tante che portiamo in giro, e doversi inventare sul lavoro, direttamente sul posto, una soluzione, una professionalità. Questo non ci ha mai spaventato.

 

Adesso vedo, anche con strumenti comuni, due o tre aree di specializzazione abbastanza diffuse in tutte le città, che si prestano molto bene. Una è quella delle aggregazioni giovanili, del bullismo, delle baby gang e così via, la seconda è l’attività dello stalking, allargata a tutti i maltrattamenti in famiglia, la terza è quella dei conflitti di caseggiato, di condominio, che sono un una miriade ovunque. In questi campi possono essere messe in piedi moltissime attività di collegamento, ad esempio protocolli d’intesa con le Procure: nella mia città, come in altre, questo è stato fatto. Sui maltrattamenti in famiglia è possibile, perché ho visto che c’è disponibilità, fare protocolli d’intesa con la comunità di riferimento: ci si impegna a fare qualcosa anche loro. Noi abbiamo sottoscritto un protocollo con una comunità ortodossa, perché capita questo: sarà malamente inteso un mediatore culturale, però è vero che sui maltrattamenti in famiglia la

pensiamo da italiani. Nell’ambiente può essere, molto spesso, che gli stranieri non capiscano, perché non si tratta di maltrattamenti, per loro è un modello educativo un po’ tirato, un sistema di relazioni familiari, fra coniugi, un pochino tirato, e stiamo parlando di botte. Il fatto oggettivo è che si tratta di botte. Allora, con l’intervento della comunità di riferimento, io credo che si possa intervenire in maniera migliore, perché se sono i loro referenti a spiegare che non va bene picchiare il figlio o la moglie, forse vengono ascoltati.

Se, invece, questo viene spiegato loro da uno dei miei vigili, quest’ultimo diventa il cattivo della situazione.

 

Un’ultimissima cosa: non so se serva una modifica legislativa, io credo che potrebbe essere fatta anche come indirizzo operativo, mi riferisco allo stalking, con un ammonimento del Questore. Tutti ci si interessa, giustamente, della vittima del reato, ma dello stalker non si interessa nessuno: verrà condannato, verrà ammonito eccetera, ma se non si interviene su di lui, c’è un’altissima probabilità che lo rifaccia. Per quale motivo non pensare che nell’ammonimento si possa inserire la prescrizione? So che esistono già esperienze di questo tipo fuori dall’Italia, purtroppo: si tratta di obbligare lo stalker a frequentare dei momenti rieducativi, che in qualche maniera – è meglio di niente, sicuramente – possono contribuire a migliorare la situazione. Lo stalker deve frequentare un corso, questa è una prescrizione dell’ammonimento.

Io credo che tutte le cose che ho detto, in maniera confusa, oggi siano il significato più concreto e reale di una parola, prossimità, che sennò rischia di rimanere solamente una bandiera e basta.

 

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