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Il fattore umano e lo spirito del lavoro

Esiste, quindi, un legame tra tecnologia ben fatta e un lavoro ben fatto, tra un ambiente tecnologico di qualità e un lavoro di qualità e tra il beneficio di strumenti appropriati e il benessere dei loro utilizzatori?

Esiste. Ne ero convinto da tempo ed è arrivata una conferma “corale” dalla visione del film documentario di Giacomo Gatti “Il fattore umano – lo spirito del lavoro”. In esso si da conto di un viaggio attraverso l’Italia alla scoperta di quindici realtà aziendali distribuite sul territorio nazionale, con proprie prerogative economiche e produttive, culturali e sociali, ma unite da una visione comune, quella della “azienda socialmente sostenibile” e, contemporaneamente, quello della creazione del “senso” del loro agire.

Quelle aziende, raccontate dalle persone intervistate, quelle organizzazioni socio-tecniche, sono animate da un identico principio, da un comune denominatore che ispira la visione imprenditoriale: l’impresa non è solo profitto ma è soprattutto capacità di sviluppare risorse materiali e immateriali per il raggiungimento di un fine non solo finanziario. E’ cultura, è creatività, è un futuro da costruire insieme, innanzitutto nel rispetto dell’umanità e dignità dell’essere di ogni persona. Le donne e quegli uomini, che sono gli attori protagonisti dell’impresa, con i loro sogni, le loro abilità professionali, il loro impegno, la loro fedeltà, realizzano l’impresa e la trasformano ogni giorno in realtà produttiva di beni materiali e immateriali attraverso il loro atto creativo.

Dai viticoltori del Trentino agli operai della catena di montaggio, dai giovani sviluppatori di start-up ai medici che testano mani robotiche, dalle strisce di pasta di Gragnano alle frese di alta tecnologia, queste ed altre storie ancora, raccontano che il lavoro è elemento integrale ed integrante della persona nella società. Le imprese, le aziende, le istituzioni, dovrebbero rimanere i luoghi dove, mentre si costruiscono possibilità di espressione dei singoli, in cui le persone danno un senso alla propria attività, si cerca attraverso l’organizzazione, il raggiungimento di finalità economiche e sociali che vanno al di là del puro tornaconto finanziario.

Accomunate dalla bellezza del fare, come quel meccanico che si compiace per la qualità della saldatura che sta osservando. E’ un lavoro apparentemente banale che come tutti gli altri all’interno della catena di produzione, hanno un “senso” e una bellezza intrinseca (quando il lavoro è ben fatto) che nutre il cuore e la mente di chi lavora e restituisce dignità alla sua stessa opera. Ancora di più oggi, in un’epoca in cui la finanza e la tecnologia rischiano di trasformare le persone in robot e i robot in persone.

Ma è proprio l’umanità a fare la differenza. E’ il “fattore umano” lo spirito del lavoro. Sono le donne e gli uomini che fanno l’impresa e che investendo le loro peculiari caratteristiche individuali (non solo le competenze tecniche) si pongono in relazione con i piani, i progetti, le procedure, i prodotti, le attrezzature, gli ambienti di lavoro, le persone con le quali lavorano, i conflitti, le criticità ed anche gli insuccessi. Sono le persone, in ragione di quanto accennato che, allo stesso tempo richiamano attenzione, rispetto e riconoscimento.

Se penso a quante volte si è parlato di ecologia per il mondo vegetale, animale, delle acque e della terra, mi piace sottolineare che ci occupiamo poco di ecologia delle relazioni umane. E’ la qualità delle relazioni umane che alimenta lo spirito del lavoro. Con ciò vorrei anche considerare che stare bene all’interno dell’organizzazione di un’azienda, lavorare bene in un ambiente gradevole con un clima interpersonale favorevole, rende moltissimo.
Frutta in termini di ritorni economici materiali e soprattutto in termini di valore aggiunto (cultura, immagine, stili di vita, ecc.); giova ai collaboratori che sono più soddisfatti, ritenendosi riconosciuti e quindi maggiormente motivati; ha evidenza sul piano dell’engagement e della responsabilità sociale; produce qualità nel rapporto con il cliente e influisce direttamente sulla soddisfazione di quest’ultimo.

Nel momento in cui scrivo queste brevi annotazioni sul film di Giacomo Gatti, non posso fare a meno di ricordare che è passato oltre un secolo dalla prima formulazione del costrutto “fattore umano”. Fu Agostino Gemelli, che nel 1909 venne incaricato di svolgere alla Settimana sociale dei cattolici italiani una relazione dal titolo “Il fattore umano del lavoro”, su invito di G. Toniolo. Voglio anche segnalare che, nonostante si parli da circa un secolo di fattore umano e relazioni umane al lavoro, sembra che il riconoscimento di questi “valori” sociali ed economici non appartenga ancora alla piena consapevolezza di moltissime persone .

Un punto di vista della psicologia sul passaggio generazionale

In questa prospettiva assume un ruolo determinante la riflessione su come gestire queste conflittualità e su come canalizzare queste diversità per favorire la sopravvivenza dell’impresa. I valori materni infatti potrebbero essere utili per il mantenimento dei legami affettivi, per la promozione della motivazione al successo e per l’intenzionalità in momenti particolarmente critici come il passaggio generazionale. Mentre quelli aziendali promuoverebbero azioni mirate all’efficacia e all’efficienza economica ed organizzativa altrettanto utili per la sopravvivenza dell’impresa.

Nonostante il riferimento alla dimensione culturale la maggior parte degli studi che si focalizza su questa dimensione propone una visione razionalista-oggettiva, poco psico-sociale…

Un’interessante proposta di analisi che mette in evidenza in modo esplicito la relazione tra leader e successore è quella di Piantoni (Piantoni G., La successione in azienda. Continuità dell’impresa e ricambio generazionale, Milano, EtasLibri, 1990) che in relazione al processo di transizione generazionale ipotizza tre esiti differenti, derivanti a loro volta dall’interazione di diverse tipologie di successione sul versante dell’imprenditore e dell’erede. Per quanto riguarda l’imprenditore, secondo Piantoni la transizione assume significati differenti a seconda della sua predisposizione alla delega e dell’orientamento al futuro. Dall’interazione di queste due dimensioni hanno origine quattro diverse tipologie di successione, ovvero la successione elusa (bassa predisposizione alla delega e basso orientamento al futuro), la successione differita (alta predisposizione alla delega e basso orientamento al futuro), la successione con abdicazione o improvvisa (bassa predisposizione alla delega e alto orientamento al futuro) e, infine, la successione senza abdicazione (alta predisposizione alla delega e alto orientamento al futuro).

Diverse tipologie di successione si hanno sulla base di altre due dimensioni riferite all’erede: predisposizione all’attesa e grado di know-how innovativo. In questo caso, dall’incrocio di queste due dimensioni hanno origine quattro tipologie di successione, ovvero la successione pretesa la successione traumatica, la successione nella continuità, la successione coinvolgente.

Passaggio generazionale e cultura della mediazione

Esiste la possibilità di contare su un progetto di passaggio generazionale improntato alla cultura della mediazione.

Questo innovativo processo di consulenza considera innanzitutto il bisogno di ciascun elemento della famiglia di poter “influire” sulle scelte dell’imprenditore o dell’imprenditrice, rispetto al patrimonio e all’azienda di famiglia. Contemporaneamente, sostiene la opportunità di aiutare l’imprenditore o l’imprenditrice a mantenere la propria responsabilità genitoriale e generativa nei confronti della famiglia e dell’azienda. Decidere insieme l’avvenire dell’azienda e nello stesso tempo separarsi, cioè definire il proprio punto di vista individuale. Rendendosi consapevoli della propria differenza di vedute, la propria diversità; imparando a riconoscere i punti di vista divergenti e quelli discordanti, che possono rappresentare gli elementi della separazione e del conflitto ma anche le opportunità di intesa per un efficace passaggio generazionale. E’ possibile mediare le differenze e nello stesso tempo collaborare insieme per garantire uno sviluppo sano e competitivo all’azienda di famiglia.

Di solito sono proprio le diversità di punti di vista, di sentimento, che vengono utilizzate per armare il conflitto e per contrapporsi e cercare alleati da contrapporre ad altri alleati.

Però, se ciascuno accetta la responsabilità dei propri conflitti e quindi accetta la propria diversità – e di conseguenza riesce a rispettare e ad accettare la diversità dell’altra persona – probabilmente il conflitto può essere trasformato in progetto, nell’interesse principale dei della famiglia che è chiamati a garantire una congruente funzione di leadership all’interno dei processi organizzativi aziendali.

Continuità dell’impresa e ricambio generazionale . Dentro la complessità della famiglia

Nucleo comunitario elementare, la famiglia è quasi universalmente riconosciuta come via maestra per l’accesso all’individualità (Galimberti U., 1999: 412).

A partire dalla fine degli anni Settanta, si sono verificate notevoli trasformazioni sociali che hanno delineato modelli di famiglia più centrati sull’individualità; “nell’ambito di una relazione familiare elettiva connotata dall’autonomia, dall’autoregolazione normativa e dalla negoziazione, come pure dall’instabilità” (Ronfani P., 2004).
Si assiste a una “eclissi progressiva della figura paterna”(Cristiani, 2000) che prima era centrale nella gestione del potere e nella trasmissione dei valori etici. A una struttura gerarchica, verticale, con a capo il padre, si sostituisce la coppia dei genitori.
Al declino della “patria potestà” ha corrisposto una sempre maggiore rilevanza di valori materni, più attenti al bisogno e al desiderio dei figli, che ha privilegiato il modello educativo del “figlio felice” (Di Nicola P., 2002). Al centro della scena familiare non vi è più un padre severo, ma una madre sollecita e attenta regista delle scelte opportune.

Nel quadro delle profonde trasformazioni che in questi ultimi anni hanno investito i rapporti tra generazioni e quelli tra generi, la famiglia mononucleare, caratterizzata dalla coppia uomo/donna con figli, non rappresenta più la “normale” struttura entro la quale prendono corpo i legami primari. E’ attualmente necessario includere le forme nuove – coppie senza figli; famiglie ricostituite, con o senza figli di precedenti unioni; singles, uomini o donne, con figli; coppie di omosessuali, con o senza figli; immigrati, con eventuali “altri” stili di coniugalità; famiglie non di tipo coniugale; famiglie multiple; famiglie unipersonali; famiglie con uno dei coniugi pendolare o assente per lunghi periodi e/o residente altrove – che la famiglia oggi può assumere, occasione di trasformazione della comunità sociale in cui le famiglie stesse sono inserite (Francesconi M, Scotto Di Fasano D., 1998) .

Tra le famiglie europee, la famiglia italiana è quella più legata alla tradizione (Di Nicola P., 1998), è quella che ha resistito maggiormente alle trasformazioni della modernità; si pone in una situazione di ritardo rispetto agli altri paesi europei occidentali. Probabilmente, come suggerisce Zanatta (1997), in Italia sono “contemporaneamente presenti elementi di modernità e di tradizione” che impediscono un cambiamento più rapido. La protratta permanenza dei giovani in famiglia (e, di riflesso, la loro ritardata uscita dalla casa dei genitori) è ormai considerato uno dei mutamenti principali della struttura familiare (Di Nicola 1998; Golini, 1998) Le ultime generazioni di giovani sono più lente a lasciare la casa dei genitori (Righi A:, Sabbadini L., 1994). Il fatto che nella nostra società, come negli altri paesi occidentali, si sia affermata la categoria sociale dei giovani adulti, rende manifesta una nuova condizione esistenziale, quasi una nuova fase della vita che vede la compresenza di aspetti di vita giovanile (dipendenza affettiva dai genitori, indefinitezza e dilazione dei propri progetti, ecc.) e di sfere di vita adulta (autogoverno del proprio tempo e delle proprie relazioni extra familiari, eventuale indipendenza economica e stabilità lavorativa, ecc.).

Gli studi di matrice psicologica hanno indagato sugli elementi che ritardano il processo di formazione dell’autonomia e di responsabilizzazione dei giovani e sono stati incentrati soprattutto sulle dinamiche di cambiamento individuali e familiari. L’idea di fondo è che ogni evento significativo, nello sviluppo dell’individuo e della famiglia, vada studiato quale parte del ciclo di vita familiare, più che di quello individuale, in quanto prodotto dei processi evolutivi dei sistemi di relazioni intra-familiari e intergenerazionali, che a loro volta vengono influenzati dagli esiti dell’evento che li coinvolge.
Faimberg e Corel, evidenziano che il figlio “per la propria sopravvivenza psichica, perde il libero accesso all’interpretazione del proprio psichismo e resta assoggettato a ciò che i genitori dicono o tacciono” (Faimberg H., Corel A., 1989 : 278)

La Kaes scrive che l’individuo assorbe, senza una sua adesione volontaria, soprattutto ciò di cui non si parla, attraverso divieti, rituali, abitudini e tutto quanto prende forma dentro di lui e vi resta in maniera indiscussa e invariabile. Solo se viene riportato a livello di coscienza, egli può rendersi conto dell’alta influenza che questo patrimonio ha nella sua vita: fino a quando, la “disidentificazione” permette di restituire la storia in quanto appartiene al passato (Kaes R., 1955). Possiamo così comprendere che ogni persona è costituita di una parte “tributaria del funzionamento proprio dell’Incoscio nello spazio intrapsichico”, del soggetto stesso e di una parte determinata dalla “catena delle generazioni” che lo precedono, “i cui soggetti ci tengono e ci mantengono come i servitori e gli eredi dei loro sogni di desideri irrealizzati”. Pertanto, la famiglia di cui il bambino entra a far parte, predispone e consegna al nuovo venuto “segni di riconoscimento e di richiamo, assegna dei posti, presenta degli oggetti, offre dei mezzi di protezione e di attacco, traccia delle vie di realizzazione, segnala dei limiti, enuncia degli interdetti” (Kaes, 1955: 19-20). Aggiungendo anche che “Se i processi psichici di una generazione non si prolungassero nella generazione successiva, ogni generazione dovrebbe acquisire ex-novo il proprio atteggiamento verso l’esistenza, e non vi sarebbe in questo campo nessun progresso e in sostanza nessuna evoluzione” (Kaes, 1955: 61).

Ci ricorda Oliver Sacks che ” Ognuno di noi ha una storia del proprio vissuto, un racconto interiore, la cui continuità, il cui senso è la nostra vita. Si potrebbe dire che ognuno di noi costruisce e vive un “racconto”, e che questo racconto è noi stessi, la nostra identità.

Se nelle cosiddette società arcaiche tutto era connesso con tutto e l’individuo non era nulla al di fuori della famiglia, della tribù o della “città” di appartenenza, oggi registriamo un vero e proprio capovolgimento di questa prospettiva, così che da un lato la società si differenzia in innumerevoli sistemi parziali, dall’altro gli interessi e i bisogni individuali sembrano aver preso il sopravvento su qualsiasi dimensione (Belardinelli S:, 1996), Vorremmo essere, in primo luogo, autonomi e liberi da legami troppo impegnativi, ma in questo modo indeboliamo anche quel riconoscimento reciproco dal quale dipende non da ultimo la nostra identità (Belardinelli, 1996: 57).

Cigoli (1988) è stato il primo in Italia a mettere in luce l’esistenza di un reciproco vantaggio di tipo psicologico, tanto per i genitori quanto per i figli, nel perpetuare il loro rapporto di interdipendenza e di convivenza. Individuando un meccanismo di doppia identificazione negli atteggiamenti genitoriali, è riuscito a dimostrare che i genitori si identificano con i propri genitori (in quanto genitori), perpetuando il lavoro interno di riparazione in cui recuperano positivamente le figure genitoriali. Dall’altro lato, si identificano con i figli (in quanto sono stati figli) a cui cercano di dare di più di quanto hanno avuto loro e si autogratificano per questo. Realizzando così il loro ideale di rapporto, in quanto riescono ad incarnare l’immagine dei genitori che avrebbero idealmente voluto, auspicando allo stesso tempo che i figli vivano quella condizione che loro stessi avrebbero voluto vivere in quanto figli. Tutto questo disporrebbe i genitori a mantenere viva questa esperienza gratificante di “buona genitorialità” e – inconsciamente – a non incoraggiare l’uscita dei figli. In questo caso è evidente che dei buoni e soddisfacenti rapporti tra genitori e figli, pur essendo delle notevoli risorse evolutive per la famiglia e gli individui, possono diventare un ostacolo al distacco dei giovani dalla famiglia di origine, impedendo loro di vivere quelle positive tensioni alla trasformazione che portano dalla dipendenza all’autonomia.

L’aforisma di Oscar Wilde “è con le migliori intenzioni che il più delle volte si ottengono gli effetti peggiori” sembra essere perfettamente calzante all’evoluzione del rapporto fra genitori e figli in questi ultimi decenni. Risulta evidente anche da un recente studio pubblicato con il titolo “Modelli di famiglia” (Nardone G., Giannotti E., Rocchi R., 2001). Frutto di cinque anni di ricerca-intervento sulle problematiche adolescenziali e della famiglia, l’indagine ha rilevato significative correlazioni fra disturbi presentati dai figli e particolari modelli di comunicazione familiare Sui “disturbi” hanno un peso sempre crescente le relazioni familiari; l’accento va posto non sull’individuo ma sulle relazioni; luogo della “salute” sono le relazioni di unità diverse stabilite con legami interattivi significativi. Una interazione comunicativa viene scelta dalla famiglia come chiave risolutiva di tutti i mali e di tutte le difficoltà e, ogni volta che una comunicazione viene eletta come unica risorsa e soluzione a disposizione per risolvere tutti i problemi, determina l’irrigidimento della struttura familiare e la famiglia si trova imprigionata in un nodo insolubile..

Sono due le tendenze nello stile educativo dei genitori italiani particolarmente frequenti e, sfortunatamente, dannose quando esse vengono estremizzate: la iper protezione e l’amicizia tra genitori e figli. Purtroppo favoriscono la mancata assunzione di responsabilità e la realizzazione di personali progetti di vita sulla base di un eccesso di amore e protezione profusi dai genitori in maniera incondizionata, senza cioè alcuna pretesa che i figli se li meritino. C’è una perfetta complementarietà tra le posizioni protettive dei genitori e quella di privilegio richiesta dai figli che è in realtà una forma disfunzionale di relazione familiare in quanto ritarda o addirittura blocca il naturale percorso evolutivo del giovane che, per diventare adulto, ha bisogno di rendersi autonomo ed indipendente e deve essere in grado di assumersi responsabilità personali e sociali.

Però è importante evidenziare quanto questo possa essere problematico anche all’opposto, ovvero quando i genitori hanno timore dei figli (Nardone G., Giannotti E., Rocchi R., 2001: 13).
E’ l’irrigidirsi ed il ripetersi delle modalità di relazione tra soggetti o fra soggetto e se stesso che porta, se non vengono cambiati, a circoli viziosi patogeni. Quindi il costituirsi di elementi disfunzionali nel comportamento dei figli è l’effetto di complicate interazioni e non di pre condizioni; ciò che in piccole dosi può fare tanto bene, in dosi massicce può fare molto male.

Dopo che è tramontata l’identità familiare come istituzione e dopo che l’unicità del modello si è dissolta in una molteplicità di tipologie familiari, la famiglia assume il carattere di una continuità nel cambiamento, di una costruzione continua, di un sistema di relazioni in divenire (Iori V., 1998).
Rampazi (1998), riprendendo un’idea di S. Vegetti Finzi (1992), afferma che è nella genitorialità la prima condizione irreversibile di assunzione di responsabilità adulta, rilevando che si può forse parlare, di una “storia vera e propria” della famiglia che inizia con la nascita del figlio, quasi che il tempo della coppia precedente fosse da ritenere una “preistoria”: l’evento più significativo che demarca un “prima” ed un “dopo” nella dimensione della coppia è sicuramente il passaggio della procreatività.

Converrebbe forse parlare più di famiglie che di famiglia: le differenze sono almeno tante quante le somiglianze. Sono possibili diverse definizioni della famiglia: un sistema di parentela (come direbbero gli antropologi): una dinastia (la nobiltà del “sangue”, il nome, le generazioni; una cultura:i miti, i riti, la trasmissione del sapere, le storie che ci si racconta; una rete sociale: i parenti più o meno vicini; un nucleo ristretto: la famiglia nucleare (Bertrando P. 1997: 25),

Conclusioni
Se la famiglia è quasi universalmente riconosciuta come via maestra per l’accesso all’individualità (Galimberti U., 1999: 412). L’azienda familiare rappresenta la forma di organizzazione più antica e più diffusa nel mondo (Gersick H. E., Davis J. A., Mc Collom H. M., Lansberg S. I., 1997: 93).

La caratteristica dell’impresa familiare è rappresentata dalla contemporanea presenza del sistema famiglia (family) e del sistema impresa (business). Naturalmente, le finalità dei due sistemi sono differenti: la famiglia fornisce sostegno e cura ai propri componenti; l’azienda soddisfa bisogni attraverso la produzione di beni e/o l’erogazione di servizi. Spesso le logiche del sistema famiglia sono quelle del sentimento e dei valori, del risparmio, del senso di appartenenza, del clima e della tradizione, del controllo. Mentre, il sistema impresa si basa su logiche di razionalità, finanziamento, merito, delega, confronto tra obiettivi e risultati, competitività e cambiamento (Boldizzoni D., Serio L., Cifalino A., 1998).

La prima risorsa della famiglia – costitutiva della sua stessa esistenza – è l’orientamento dei suoi membri a concepirsi come costruttori di una durata sovra-individuale. La durata, intesa come “presente che dura”, grazie alla capacità di pensarsi come identità – familiare in questo caso -, nonostante e attraverso i cambiamenti, può “farsi”, a condizione di essere “organizzata” intorno ad un referente che, agli occhi dei soggetti, assuma una valenza etica. Ne consegue che, perché ci sia famiglia, è indispensabile che i suoi membri condividano non solo una consuetudine quotidiana, ma anche il significato – il progetto, insomma – che sorregge l’idea stessa di appartenere ad un insieme, del cui divenire tutti sono egualmente responsabili.

Nell’ambito del Family Business, ci fa notare Zocchi (2004: 53) vi è un problema di rapporti interpersonali o meglio di “chiarezza nei rapporti familiari”. La scarsa chiarezza dei ruoli dei familiari monopolizza l’attenzione dei familiari indiretti, che provano una specie di timore reverenziale nei confronti dei figli. I consulenti sono spesso alla ricerca del consenso di due generazioni differenti, con una serie di difficoltà notevoli per mantenere il proprio incarico professionale. Cultura, obiettivi e caratteri non sempre coincidenti tra padri e figli impongono anche linguaggi differenti a tali professionisti e tecniche di relazioni umane molto personalizzate, e ciò con più grande difficoltà..

Razionalità dell’agire imprenditoriale

Le molteplici logiche dell’agire imprenditoriale costituiscono una notevole fonte di spunti per riflettere sulle modalità della successione, sia rispetto al profilo, sia rispetto allo stile di direzione dell’imprenditore. All’inizio degli anni ’90 Michel Bauer (Bauer M., Les Patrons de PME entre le Pouvoir, l’Entreprise et la Famille. Paris, InterEditions, 1993), ha descritto molti casi, dai quali ha tratto la conclusione che occorre mettere in discussione l’esclusività della razionalità economica alla base delle scelte imprenditoriali. Sostenendo che le operazioni economiche sono certamente importanti, ma non sono esaustive e non rendono onore alla complessità dei problemi che devono affrontare gli imprenditori.

Bauer scrive che i dirigenti d’impresa spiegano tutto attraverso i numeri; evitando di evocare le loro preoccupazioni famigliari, le difficoltà e/o i piaceri dell’esercizio del potere, che tuttavia influiscono sul loro operato. Si adeguano scrupolosamente alla regola del “parlare-soltanto-economico”. Del resto, dice Bauer, in un mondo caratterizzato da esigenze d’efficacia e razionalità, di modernità e competenza, come potrebbero confessare queste realtà più “tradizionali” che coinvolgono la sfera affettiva e politica, i sentimenti e la parentela? Il fatto è che anche i loro interlocutori rispettano tutto questo e non derogano mai alla regola del “parlare-soltanto-economico”. Ad esempio, per spiegare, salutare o criticare le strategie decise ai vertici delle aziende, gli osservatori più credibili (giornalisti, economisti, analisti finanziari, ecc.) si esprimono come se non conoscessero un solo modo di esprimersi: quello economico. Tutti i discorsi “seri” fanno così apparire l’imprenditore come un essere che prende ogni decisione in funzione della sola razionalità economica. Ma, a questo punto, lo scarto tra realtà e linguaggio può diventare ragguardevole, in quanto nessuno affronta il “non detto”, il non economico, che diventa pertanto un vero tabù.

Sembra pertanto – dice Bauer – che gli imprenditori seguono in modo esclusivo la logica dell’efficacia economica e che le questioni di potere e le vicende famigliari non pesano affatto sulle loro decisioni.
Per comprendere le difficoltà incontrate da un imprenditore al momento di preparare la sua successione occorre rendersi conto del carattere riduttivo delle argomentazioni economiche; à necessario uscire dagli schemi strettamente economici o “manageriali” per comprendere il comportamento effettivo dei dirigenti e degli imprenditori.. Ai vertici delle aziende, anche se tabù, le logiche politiche e famigliari sono ancora importanti. Occorre mettere in discussione la regola del parlare-soltanto-economico, cogliendo così le complesse dinamiche che agevolano o impediscono la successione dell’impresa familiare. Vi sono logiche sotterranee che, pur non essendo economiche, pesano sulle decisioni. Occorre scoprire il non detto e far apparire in tutta la sua evidenza che l’imprenditore, nella sua attività professionale, è un essere molto più complicato rispetto alle usuali rappresentazioni, molto più sensibile e complesso di quanto non rivelino i discorsi freddi ed astratti della teoria economica. Il nodo critico della trasmissione, sottolinea Bauer, sta nella pluralità delle razionalità presenti nella testa di ogni imprenditore e nell’esito dei conflitti che le diverse scelte possibili provocano.

Un imprenditore è “un uomo a tre teste”. Questa la “legge fondamentale” dedotta da Bauer. In parte è Homo oeconomicus, interessato ai risultati della sua azienda e ai guadagni che produce. In parte è Homo politicus che, come tutti gli uomini politici, cerca di consolidare il suo potere o, quanto meno, di conservarlo. Infine è Pater familias che, come molti padri di famiglia, cerca a suo modo di aiutare i figli.
Al comando della sua azienda un imprenditore agisce non soltanto secondo una razionalità economica, ma allo stesso tempo secondo una razionalità politica ed una famigliare. La sua attività professionale, costituita dall’insieme delle decisioni che prende, va considerata come il prodotto di questa tripla razionalità.

Bauer delinea alcune situazioni tipo per descrivere come dirige la sua impresa un capo che funziona soltanto secondo la sua razionalità politica e come immagina la sua eventuale successione. Secondo l’autore, alcuni capi non trasmettono spontaneamente la loro impresa, a meno che non si intenda con questo: “abbandonare volontariamente la poltrona dopo aver selezionato e poi formato il successore”. La loro testa di homo politicus non li spinge affatto ad abbandonare il potere, ma anzi a conservarlo.
Altri capi evitano di avere accanto un delfino; al massimo accettano un “erede di famiglia”, ma mantenendolo nella condizione di “erede-che-aspetta-passivamente”.
Vi sono altri imprenditori particolarmente reticenti a dividere l’esercizio del potere. Vegliano perchè la loro autorità non possa essere messa in discussione.
Alcuni capi d’impresa provano molta difficoltà a smettere di lavorare a un’età che per i dipendenti corrisponde a quella della pensione. Tendono piuttosto a rimanere aggrappati al loro potere ed a conservare le loro prerogative il più a lungo possibile. E’ il caso di quelli che rimangono al timone anche da vecchi e non pensano di preparare la successione perché non hanno che settant’anni …

La storia di ogni passaggio generazionale d’impresa è frutto di una complessa interazione tra le tre “teste” dell’imprenditore e le soluzioni aprioristiche per risolvere i problemi di successione rischiano di essere poco incisive se non tengono conto delle modalità di gestione (del potere) della governance.