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La strenna più bella: sentirsi riconosciuti al lavoro!


Le attuali modalità organizzative e di management in diverse occasioni moltiplicano le fratture all’interno delle comunità e dei percorsi di carriera, rendono fragili i contesti di appartenenza e di riconoscimento del lavoro, aumentando le criticità nei processi di socializzazione organizzativa e di costruzione delle identità professionali.

Occorre avere chiari questi nodi critici, se vogliamo comprendere gli atteggiamenti e i comportamenti di chi lavora insieme a noi, per realizzare una gestione consapevole e ponderata delle persone che vi lavorano.
Chi dirige un’azienda o è responsabile di un suo settore, deve tenere ben presente che l’incremento della produttività e la qualità dei servizi, si trova sempre più in relazione con il morale dei collaboratori e il benessere (nei termini di “qualità delle relazioni collaborative”) nei luoghi di lavoro.
Impegnarsi nella qualificazione complessiva della vita al lavoro, migliorare il clima organizzativo, significa in sostanza contribuire ad agevolare le transazioni relazionali di chi vi lavora, mettere a punto i relativi meccanismi di regolazione per garantire il successo dell’azienda e dei suoi prodotti/servizi. Non dimenticando che il benessere delle persone influisce sulle performance aziendali.

Ci rendiamo conto che il ruolo centrale della soggettività e dell’intersoggettività nelle relazioni di lavoro, dentro e fuori il perimetro aziendale, diventa sempre più evidente e importante.
È necessario affrontare con molto realismo il problema del riconoscimento al/del lavoro; al di là del semplice iter giuridico ed economico, senza temere etichette di idealismo o ingenuità.
Oltretutto il riconoscimento al lavoro sta richiamando sempre più l’attenzione, in quanto comporta un elemento di criticità che è legato anche ai problemi di salute mentale al lavoro. Abbiamo bene in mente che i vari fattori di rischio non positivi per la salute dei lavoratori e, di conseguenza, per quella delle aziende, comprendono tra gli altri anche il sovraccarico di lavoro, il deterioramento delle relazioni tra colleghi, la scarsità delle relazioni con i superiori diretti, la inadeguata circolazione delle informazioni relative alla governance e l’eccessiva limitatezza di comportamenti o pratiche di riconoscimento verso il lavoro svolto dai dipendenti.

Chi lavora spera in qualcosa di più di un salario, si aspetta che il suo lavoro sia riconosciuto; ad esempio, vedendo mettere in risalto i buoni risultati, sentendosi offrire incoraggiamento o segni d’apprezzamento. Una riconoscenza che può manifestarsi anche attraverso la creazione di uno spazio di discussione, che permette alle persone di esprimere il loro punto di vista sul lavoro e rinsalda i legami.
È possibile mettere in evidenza almeno due elementi di base del riconoscimento. Uno è il giudizio d’utilità del lavoro realizzato (riconoscere il rispetto delle gerarchie, il raggiungimento degli obiettivi, gli ostacoli superati, ecc.); l’altro è il giudizio estetico del lavoro (riconoscere la qualità delle azioni, la pertinenza delle decisioni, l’ingegnosità delle soluzioni, ecc.). Cercando di comprendere anche quali rischi incontra colui o colei che non si stente stimato/a e riconosciuto/a nel suo lavoro, tanto dai suoi superiori che dai suoi colleghi; ma anche quali inciampi possano emergere per le organizzazioni. Parecchi studi dimostrano che la mancanza di riconoscimento al lavoro è strettamente connessa con lo scarso coinvolgimento professionale, la demotivazione e l’assenteismo

Il lavoro rimane il luogo fondamentale della nostra vita e della ricerca d’identità e realizzazione personale; la qualità della nostra vita è direttamente proporzionale alla qualità del nostro lavoro. Un adeguato investimento di risorse morali e materiali per migliorare la qualità della nostra vita al lavoro è necessario.
Sfortunatamente, molto spesso, il lavoro è in genere percepito nella sua dimensione utilitaristica; ciò facendo non si rende giustizia agli sforzi di chi lavora e al contributo che egli offre. Trascurando che il riconoscimento al lavoro permette di realizzare le proprie attese, la immagine identitaria; che costituisce un elemento fondamentale di salute mentale.

L’assenza di riconoscimento genera spesso la perdita di riferimenti professionali e personali importanti. Con conseguenti aspri sentimenti quali l’amarezza, la frustrazione, l’inutilità e l’indegnità, che contribuiscono a mortificare la qualità dei rapporti tra il dipendente e l’azienda. Innesca anche una serie di comportamenti, costanti e tenaci, che invischiano a loro volta i dipendenti in un subdolo processo di vittimizzazione. È proprio l’importanza dello sguardo che l’azienda rivolge al proprio dipendente che da un senso a questo fenomeno; non importa tanto la natura dello sguardo, quanto lo sguardo stesso. Molto spesso chi si sente vittima, ad esempio di mobbing, o molestie morali, sente drammaticamente la mancanza di uno sguardo rassicurante. Che lo/la rassicuri soprattutto dell’importanza che l’altra parte gli riconosce in seno all’azienda.

Il riconoscimento e la riconoscenza al lavoro rappresentano la dimostrazione chiara che quanto noi realizziamo, gli sforzi investiti nel nostro lavoro e la stessa persona, sono apprezzati nel loro giusto valore. Il salario non è tutto. Occorre ugualmente sentirsi apprezzati per rinfrescare la nostra motivazione, sviluppare il proprio sentimento d’appartenenza e la voglia di sentirsi coinvolti nell’impresa.

Vogliamo le soluzioni ma evitiamo i problemi. Un punto di vista sul coaching

C’è un’opinione diffusa e molta propensione a pensare che il moloch intelligenza artificiale divorerà l’intelligenza umana. Una prospettiva che preoccupa tanto e allo stesso modo affascina.
Gli studi che riguardano l’impatto della intelligenza artificiale sul mondo del lavoro iniziano a diffondersi e talvolta alimentano la preoccupazione appena accennata. Alcuni mettono in evidenza la complementarietà dei tre tipi di intelligenze che sarà necessario saper combinare nel prossimo futuro: l’intelligenza emotiva, l’intelligenza artificiale e l’intelligenza collettiva. All’interno di questa prospettiva si sta aprendo un notevole spazio evolutivo per le attività di consulenza organizzativa. In particolare, per il counseling e il coaching.

Le aziende sono fatte principalmente di persone, non di procedure, e spesso non basta un “programma” (o, meglio, una “ricetta”) per risolvere le criticità. Di conseguenza, se l’intelligenza di un manager non riuscirà a competere con le vertiginose capacità di memorizzazione, calcolo e diagnosi di una intelligenza artificiale, avrà tuttavia da svolgere un ruolo importante attraverso la sua “intelligenza del cuore”. Perché saranno necessarie le abilità socio emotive che il leader dovrà sviluppare nella sua organizzazione per completare il lavoro delle tecnologie intelligenti.
Ad esempio, le competenze relazionali sono ormai diventate essenziali perché son inaccessibili (per ora) all’IA. Di conseguenza, là dove sarà necessario dar prova di intuizione, creatività, immaginazione, pensiero concettuale e buon senso, l’Umano dovrà svolgere il suo pieno ruolo a fianco delle macchine.
La sfida del leader del prossimo futuro sarà triplice. Dovrà governare i cambiamenti organizzativi e culturali generati dall’IA, organizzare la collaborazione uomo-macchina e accelerare lo sviluppo di nuove abilità emotive e cognitive per aggiungere valore alle attività automatizzate. Per questo, dovrà sapere come tenere insieme le tre forme di intelligenza.
Da parte mia, nel corso di oltre tre decenni di consulenza manageriale da un lato e psicologia clinica e del lavoro dall’altro (come counselor, ricercatore, terapeuta, didatta) ho svolto attività di coaching accompagnando manager e team di ogni genere e ho svolto varie attività di supporto per la riconfigurazione e lo sviluppo dell’intelligenza collettiva in diverse situazioni. Negli anni ho avuto modo di seguire le trasformazioni dell’attività del manager, che da una pedissequa applicazione dei principi di Henry Fayol, vale a dire la pianificazione degli obiettivi, l’organizzazione dei compiti e delle responsabilità, la gestione delle persone e il controllo delle attività, ha via via compreso la necessità di acquisire competenze “non tecniche” opportune per migliorare la loro missione. Vestendo in questo modo – dopo un’adeguata formazione – i panni del manager-coach.

Una forma di elicitazione legata al “saper fare” e al “saper essere”
Di fonte al susseguirsi di domande nuove e complesse che le organizzazioni aziendali si trovano ad affrontare, il coaching diventa non soltanto un nuovo stile di management ma soprattutto una necessità per gestire in modo efficace le risorse umane e raggiungere una coerenza interna con le politiche gestionali e con gli obiettivi e le strategie dell’azienda. Esso è una forma di accompagnamento che ha come obiettivo lo sviluppo delle attitudini, il miglioramento della performance, l’adattamento a situazioni nuove e costituisce un valido supporto per la presa di decisioni quando le condizioni sono difficili o complicate. È una forma di elicitazione legata al “saper fare” e al “saper essere” riguardanti il modo di governare la propria attività, di organizzarla, di attivare la sfera relazionale e la comunicazione; mira allo sviluppo dell’identità professionale, dell’autonomia e della responsabilità, non alla riproduzione di modelli. Apporta una nuova chiarezza (introduce ulteriori punti di vista) sulle situazioni reali, ricercando evoluzioni significative in materia di comportamenti e di performance. È un volano di facilitazione dell’adattamento (attivo, non passivo) ai cambiamenti intensi sia in ambito organizzativo che sociale.

Il coaching come attività specializzata di consulenza
Per quanto riguarda la formazione appena accennata in precedenza, quella che un tempo era definita “executive coaching” e che attualmente è nota come “coaching manageriale”, è un approccio di coaching professionale incentrato sullo sviluppo di competenze relative a una posizione attuale o futura. Si basa su un processo in cui la fase di preparazione è importante quanto la fase di sviluppo stessa ed esistono diversi modelli di intervento che possono guidare la pratica del coaching. L’importante per il coach è determinare e spiegare il modello o i modelli che guidano il suo intervento, tenendo presente che il coaching manageriale può essere utilizzato in molti contesti in cui obiettivi e target differiscono.
Tra le varie definizioni di coaching manageriale, voglio considerare quella di Douglas e Morley (2000) del Center for Creative Leadership, poiché mi sembra la più operativa e completa. “Il coaching manageriale è un processo finalizzato a fornire agli individui gli strumenti, le conoscenze e le opportunità di cui hanno bisogno per crescere e diventare più efficaci […]. Implica l’insegnamento di abilità in un contesto di relazione personalizzata con il cliente, fornendogli feedback sulle sue capacità e relazioni interpersonali […]. Una serie di attività su misura finalizzate alle problematiche attuali o rilevanti incontrate dall’individuo che sono prese in considerazione insieme al coach, al fine di aiutare il primo a mantenere un’attenzione costante e rivolta all’integrazione delle sue forze e la gestione dei suoi punti deboli […].”
In realtà il processo del coaching è molto più complesso, in quanto si configura come un’attività specializzata di consulenza tipicamente individuale e squisitamente di carattere psicologico. Esso si differenzia nettamente da ogni forma ed indirizzo di psicoterapia e, d’altro canto, non appare affatto corretto identificarlo semplicisticamente come un’attività di formazione. Il coachee è il più delle volte una risorsa sulla quale l’organizzazione sta puntando nel contesto di un percorso di sviluppo o di riposizionamento mirato; in altre casi si tratta di soggetti che hanno necessità di un supporto esperto per direzionarsi o per utilizzare al meglio le proprie capacità. In ogni caso, il cliente del coaching è quasi sempre un soggetto che ha alle spalle una certa esperienza di lavoro e/o che ricopre ruoli di responsabilità.

Il problema del riconoscimento
A differenza degli psicologi, la cui acquisizione di competenze legate alla pratica della psicologia deve soddisfare gli standard specifici di un ordine professionale, la formazione dei coach non è ancora normata. Alcune associazioni offrono formazione in coaching manageriale che danno accesso a un accreditamento gestito da esse. Tuttavia, questi corsi di formazione rimangono opzionali, poiché l’esercizio del coaching non è limitato a coloro che sono stati accreditati. Pertanto, ad oggi, chiunque desideri dichiararsi un coach e offrire i propri servizi a un’organizzazione può farlo. In altre parole, significa che i profili di competenze dei coach possono essere molto variabili. Di conseguenza, le organizzazioni di riferimento dovrebbero attuare un rigoroso processo di selezione per i coach e, in attesa della professionalizzazione del coaching, spetterebbe alle organizzazioni di riferimento (in realtà alcune lo stanno facendo) creare il proprio quadro etico in cui il coaching manageriale potrà esprimere tutte le proprie potenzialità, conoscenze e valori. Ciò non è solo possibile ma necessario.

Le emozioni al lavoro: Onnipresenti e indicibili

Vittorio Tripeni, Psicologo del lavoro e delle organizzazioni

Manifestare emozioni al lavoro è da sempre ritenuto un segno di debolezza.

Anche ora. Gli interlocutori più benevoli, nel momento in cui qualcuno di noi lascia trapelare un minimo segnale dalla propria interiorità, direbbero che siamo troppo “sensibili”. Perché in azienda (un mondo “ideale” da attualizzare continuamente), occorre essere in grado di mostrare un comportamento razionale e obiettivo e allo stesso tempo tenere a freno le proprie emozioni.

Mi viene in mente, la situazione vissuta da un giovane collega, in un’azienda in cui aveva trascorso un anno come stagista nel dipartimento di ricerca e sviluppo. Ricorda che alla fine dell’anno, fu organizzato un brindisi di commiato e in tale occasione gli fu consegnato un dono che i colleghi stessi avevano acquistato attraverso una colletta. Sopra il pacchetto che conteneva quel dono, vi era stata posta una busta con il logo dell’azienda. Dopo i discorsi e i ringraziamenti di rito, prima dell’apertura del regalo, il mio collega aprì la busta contenente un assegno equivalente a tre mesi di stipendio e alcune parole di ringraziamento da parte del CEO. La gratificazione fu molto importante ed egli si commosse e pianse. Il commerciale dell’azienda proprio accanto a lui gli si avvicinò per sussurrargli all’orecchio: “Sei troppo sensibile, Mauro, troppo sensibile”. E, naturalmente, per Mauro il senso di colpa tentò subito di entrare in possesso della sua gratificazione.

 

Parlare di emozioni non è altro che mettere a fuoco l’esperienza individuale: il vissuto sul piano corporeo, affettivo e cognitivo. Vuol dire riconoscerci in ogni momento delle nostre relazioni, con noi stessi e con gli altri. Tuttavia, gli effetti della repressione delle emozioni possono trasformarsi in ulteriori tensioni di blocco emotivo che spesso sfociano in disturbi per la salute. Come nel caso di una signora che ho assistito. Paola, mi raccontò che non poteva fare a meno di scoppiare in lacrime quando si arrabbiava e faceva del tutto per evitare che questo accadesse in ufficio. Era molto brava a fingere che tutto andasse bene e reprimeva completamente i suoi sentimenti. Alla lunga, il suo stress aveva preso il sopravvento con la potenza di una serie di disturbi psicosomatici e Paola ha chiesto il mio aiuto da un punto di vista clinico e, successivamente, un sostegno in forma di coaching.

Dovremo imparare a chiederci qual è la portata sociale (ed economica) delle emozioni che d’abitudine consideriamo come un fatto intimo e privato ma che comunque rappresentano un fatto sociale, perché sono soggette a regole, possono essere apprese, sono un presupposto di conoscenze ed esperienze, nonché elemento che influisce sulle relazioni con le persone e in tutte le situazioni.

In che misura le emozioni possono ridefinire il senso della nostra identità e la identità professionale che definiamo nel tempo attraverso il rispecchiamento delle altre persone e, simmetricamente, l’essere del lavoro e delle organizzazioni?

Che cosa possono dirci della salute delle nostre relazioni in azienda?
E che cosa esse permettono di scoprire, osservare, ascoltare e comprendere, dal lato dell’analisi del lavoro reale?

 

Qual è il posto delle emozioni nei luoghi di lavoro? 

Non è possibile nasconderle o reprimerle perché, alla fine, le emozioni troveranno la via per farsi sentire. Accenno brevemente a un caso appena esaminato in consulenza. Alex e Giorgia sono soci di una Startup e lavorano nella stessa cercando ogni volta di accantonare le loro piccole irritazioni fino a quando – ahimè – diventano intollerabili. A quel punto manifestano tutto il loro disappunto nei confronti dei colleghi, oppure si rimbeccano a vicenda, talvolta esplodendo platealmente e creando molta confusione e uno sconcerto molto demotivante.
Non possono essere evitate … Tutt’al più – verrebbe da dire, con sarcasmo – possiamo fare a meno delle persone in azienda e sostituirle con i robot. Ma l’idea di rendere ogni attore dell’impresa un essere razionale al 100% non è realistico e tantomeno auspicabile. Ad esempio, senza emozioni non sapremo prendere decisioni. Le nostre reazioni emotive e persino i nostri sentimenti possono informarci sulle situazioni in cui ci troviamo e guidarci nelle scelte decisionali. Non saremmo nemmeno in grado di creare legami sociali, senza emozioni.

Propongo di accettare la sfida e accordare alle emozioni un posto importante tra gli asset aziendali. Sapendo che non sono un semplice fattore della produzione perché rappresentano un meta fattore, nel senso che la finanza, l’organizzazione o la tecnologia non esistono in sé, ma esistono le persone e le loro emozioni che fanno funzionare la finanza, la tecnologia, l’organizzazione.
Prendersi cura di esse e utilizzarle al meglio diventa ormai fondamentale anche per quelle organizzazioni del lavoro che credono solo ai numeri e alle tabelle dei dati. Le emozioni rappresentano una notevole fonte rinnovabile da investire nel corso delle continue trasformazioni delle strutture operative e del management.

 

Le emozioni fanno parte delle competenze professionali. 

In ambito professionale – e non solo – le emozioni influiscono tanto sul coinvolgimento (engagement) nel compito quanto sull’attività necessaria per svolgerlo. La loro regolazione è diventata una vera sfida, non solo per il management ma per tutte le attività che implicano competenze relazionali e tecniche-gestionali, la regolazione delle emozioni oggi è una competenza chiave, che riguarda la salute del professionista, la qualità delle sue prestazioni e, dulcis in fundo, la soddisfazione dei clienti.

Posso citare ad esempio un altro caso recentemente accolto durante un colloquio di consulenza in cui il cliente ha raccontato di essere stato nominato responsabile di una equipe di progetto perché aveva solide competenze tecniche e ha pensato che sarebbero state sufficienti per supervisionare il lavoro di squadra.
Sei mesi dopo ha dovuto implementare un cambio di organizzazione del lavoro all’interno del suo gruppo e ha dovuto affrontare gli umori, a volte distruttivi, dei suoi colleghi e la loro scarsa collaborazione, ma anche i tentativi di manipolazione e l’aggressività, a volte latente e altre volte chiaramente espressa.

La gestione delle emozioni è diventata una vera sfida per il management, in modo particolare per governare i cambiamenti, incoraggiare l’autonomia nelle equipe e nelle persone, agevolare le modalità di interfacciarsi all’interno dei team multiculturali o trasversali/interprofessionali. Di per sé l’emozione è il fulcro dell’adattamento e del coping che agevola le percezioni, le decisioni e le azioni per cogliere ogni opportunità che si presenta.

 

Che cosa insegnano le emozioni? 

Stiamo imparando che la gestione delle emozioni è fondamentale per lavorare bene, con soddisfazione e in sicurezza. Ma non solo nelle attività in cui “ci aspettiamo” che tutto ciò accada come ad esempio nelle attività di “servizio”. Saper gestire bene le emozioni è utile in tutte le professioni, soprattutto perché – ormai è chiaro – in ognuna è prevalente la funzione relazionale e gestionale per il raggiungimento degli scopi dell’impresa.

L’emozione è contagiosa e dato che non lavoriamo da soli, influisce sulle persone che ci circondano (anche a distanza) positivamente e negativamente. Inoltre, se lavoriamo da soli, anche le emozioni influiscono sul nostro lavoro condizionando spesso la qualità delle nostre performance.

Nei contesti di lavoro le emozioni influiscono sul coinvolgimento delle persone nelle attività che esse sono chiamate a svolgere e sull’investimento delle risorse (fisiche, psichiche e mentali) necessarie per portare a termine il compito.

Sostanzialmente, si tratta di reazioni delle quali, molto spesso, non si ha piena consapevolezza, che si manifestano attraverso esperienze soggettive (ciò che si “prova”), alterazioni fisiologiche e comportamenti espressivi, che possono incidere sulla abilità di governare gli imprevisti, le scelte e le decisioni, le iniziative nonché le relazioni (con noi stessi, con gli altri, con gli strumenti del nostro lavoro) e, di conseguenza, sulla nostra capacità di adattarci più o meno agevolmente alle necessità della vita o a determinate condizioni o situazioni che più o meno perentoriamente ci impongono un cambiamento.

Potremmo dire che esse rappresentano il “cuore” dell’attività umana. Nelle attività di lavoro le emozioni governano l’implicazione nel compito da svolgere e allo stesso imprimono efficacia all’esplicazione di capacità/competenze necessarie per portarlo a compimento. Danno gusto all’azione.

 

Perché svolgono un ruolo importante. 

Ogni emozione è in grado di rendere consapevoli le persone di come stanno affrontando la situazione in cui si trovano in quel determinato momento. Aiutano ad aiutarci. Mettendoci in contatto con le nostre personali rappresentazioni dei fatti e forniscono informazioni che consentono di analizzare i diversi problemi.

Oggi, mi dice il CEO di una grande azienda che ho l’onore di frequentare, le aziende impongono codici di comportamento, piani di welfare, documenti di dettaglio sullo smart working, imperativi sulla felicità … per garantire che la linea gerarchica funzioni in modo efficace, che sia anche rispettosa nei confronti dei dipendenti e della loro dignità e soprattutto fornire un’immagine “smart” del brand…  Ma non è possibile guidare o dare un senso ai comportamenti dei nostri dipendenti senza parlare di emozioni. Delle “loro” ma anche delle “nostre”, che consideriamo marginali o che rimuoviamo dalla nostra consapevolezza. Certo, non possiamo chiedere a un manager di essere uno “strizzacervelli”, ma imparare a conoscersi e conoscere meglio come “funziona” una persona al lavoro e quali sono le energie che alimentano il suo funzionamento, questo è fondamentale per gli interessi dell’azienda. Anche all’epoca dei robot e dell’intelligenza artificiale.

L’essere umano dotato di sensi

Il costrutto di “intelligenza emotiva”, come si sa, è emerso per la prima volta nel 1990, in due articoli scientifici (Mayer, DiPaolo, & Salovey, 1990; Salovey & Mayer, 1990) pubblicati da ricercatori della Yale University e New Hampshire. Nonostante la portata di queste pubblicazioni e la natura innovativa del concetto, è soprattutto il libro “Emotional Intelligence” (1995) di Daniel Goleman, psicologo e giornalista, tradotto in italiano nel 1997, che ha destato un enorme entusiasmo generale sull’argomento.

Per Goleman l’intelligenza emotiva rappresenta la capacità, di rendersi conto dei propri sentimenti e quelli altrui al fine di raggiungere obiettivi fondamentali per ogni essere umano. Un’abilità espressa attraverso cinque caratteristiche fondamentali, che ogni individuo sviluppa soggettivamente nel corso del suo sviluppo:
1. la consapevolezza di sé, la capacità di riconoscere i propri sentimenti e le proprie emozioni nel momento in cui si presentano;
2. l’autocontrollo, la perspicacia di utilizzare e controllare i propri stati interiori per un obiettivo;
3. la motivazione, la prontezza di riconoscere il motivo che spinge all’azione;
4. l’empatia, l’attitudine a entrare in contatto con il sentire gli altri;
5. l’abilità sociale, cioè la propensione a entrare in relazione con altri cercando di capire i movimenti che accadono tra le persone.

È attraverso lo sviluppo di queste qualità che riusciremo ad essere emotivamente intelligenti, imparando ad usare le emozioni come risorsa importante per la nostra crescita individuale e sociale, avendo l’opportunità di agire in modo pro-positivo e pro-attivo.

 

Mi è capitato di venire in possesso del tema (autentico) di un alunno di sedici anni della classe X di una scuola Waldorf che, secondo me, pur essendo scolastico, anticipa argutamente di alcuni decenni la riflessione sulla intelligenza emotiva. Lo ho letto per la prima volta alla fine degli anni ’60 durante uno studio sui sensi e la percezione. E’ un testo che ho utilizzato ripetutamente come spunto di riflessione fenomenologica in molti corsi di formazione.
Fu pubblicato per la prima volta da Georg Hartmann, in Erziehung aus Menschenerkenntnis, Dornach, 1961. Comparve in traduzione italiana con il titolo “L’essere umano dotato di sensi. Componimento di un alunno di sedici anni della classe X”, su Antroposofia, 1963, pag. 93-96 .
Il testo conserva la sua freschezza originale e mi auguro possa incontrare il favore di numerosi lettori.

Quando mangio delle ciliege comprate, in fondo non ne ricevo un grande godimento. Esse compaiono alla fine del pasto, a mezzogiorno. E, mentre le mangio, devo comportarmi bene, a tavola. Nel mangiare le ciliege, i sensi che entrano in attività sono: la vista, il gusto e il tatto. Naturalmente anche il senso del proprio movimento, nel masticare e nell’estrarre dalla bocca col cucchiaio i noccioli. Anche il senso del calore; non tanto però, perché le ciliege comprate non sono così fresche. Le ciliege conservate in frigorifero non hanno un buon sapore. Mangiando le ciliege comprate, a colazione, non si ha un vero godimento.
Del tutto diverso è quando le ciliege son colte direttamente dall’albero. In tal caso bisogna essere possibilmente in due, per poter meglio stare all’erta e sfuggire all’occhio del contadino o della guardia.

In questo modo di mangiare le ciliege risulta che entrano in attività tutti i sensi, nella stessa successione in cui sono menzionati nell’insegnamento dell’antropologia.

Come primo il senso del tatto. Tante cose questo senso ha da sperimentare sull’albero del ciliegio. Non soltanto con la mano che afferra le ciliege e le stacca dal ramo, ma anche col ginocchio nudo che si appoggia alla liscia corteccia del ciliegio, con l’altra mano che abbraccia il ramo entrando così in contatto con la vischiosa resina e, in modo del tutto particolare, con le labbra e con la lingua che tastano la forma tonda e liscia della ciliegia e che poi alla fine sputano fuori il nocciolo.

Il senso della vita ci da anch’esso il sentimento del nostro proprio corpo. Mangiando le ciliege sull’albero, si ha proprio un senso tutto particolare di benessere. Si sente il proprio corpo nei muscoli, perché ci si deve tener stretti all’albero con la forza dei muscoli. Ciò vale ancor più per il senso del proprio movimento che ci fa sperimentare i movimenti dei nostri muscoli. E questi movimenti sono tanti! Il torso e gli arti, le labbra e la lingua, perfino i muscoli degli occhi si muovono e ci danno perciò la possibilità di guardare in molte direzioni. Il movimento più sottile però lo facciamo quando con gran forza riusciamo a sputare il nocciolo. Questo, a tavola è proibito. Eppure, nel mangiare le ciliege, è qualcosa di particolarmente bello!

Un altro senso, quello dell’equilibrio, è necessarissimo sull’albero del ciliegio, specialmente quando si sale sulla cima, dove le ciliege sono migliori. Io credo, che per il funambolo il senso dell’equilibrio sia il più importante.

E adesso veniamo ai quattro sensi della vista, del gusto, dell’odorato e del calore. Questi sensi sono impegnati al massimo sull’albero del ciliegio. Lì ci sono le ciliege rosse nel verde fogliame, la lucida corteccia del ramo, il cielo azzurro, d’estate, con le nuvole bianche. Tutti questi colori sono cosi belli, come non possono esserlo a mezzogiorno, a tavola. Perciò non ha proprio nessun senso di rubare le ciliege di notte, sebbene allora, se si sta un poco attenti, il pericolo non sia tanto grande. Ma, sull’albero del ciliegio, anche per gli occhi è particolarmente bello!

Che le ciliege abbiano un buon sapore, è chiaro. Altrimenti non si cercherebbe di rubarle. Non si può descrivere un sapore, né in fondo si può descrivere nessuna impressione dei sensi, perché queste cose si possono solo sperimentare. Tuttavia è particolarmente buono nella ciliegia il fatto che essa sia insieme e dolce e aspra. Le ciliege troppo dolci non mi piacciono tanto. Devono essere anche un po’ sode. Ma questo rientra nel senso del tatto. E’ incredibile tutto quello che sull’albero del ciliegio si può odorare. In primo luogo il profumo del fieno che viene dai prati, che è una cosa particolarmente bella quando il sole risplende. Poi l’odore delle foglie e della resina. E l’odore stesso delle ciliege che si nota solo quando si addentano. Occorrono sempre molte specie di odori, se ha da sorgere un profumo piacevole. Nell’industria del profumo perciò vengono mescolate sempre molte sostanze odorose, magari anche male odoranti, per produrre un profumo particolarmente piacevole. In estate sull’albero del ciliegio si riuniscono i più delicati profumi della natura.

Quanto al calore, noi lo sperimentiamo come la differenziazione del calore che sentiamo nell’ambiente circostante, rispetto al calore del nostro proprio corpo. In un giorno estivo, sull’albero del ciliegio si sentono molti diversi gradi di calore. Il legno dell’albero è fresco se è all’ombra, caldo nei punti in cui è illuminato dal sole. Talora si sta all’ombra fresca delle foglie, talora in pieno sole. La cosa più bella è la delicata frescura delle ciliege quando si ficcano in bocca.

Quanto al senso dell’udito, mi ricordo di un componimento che abbiamo dovuto svolgere in settima classe nella lezione di fisica. La nostra insegnante ci ha dato per compito di stare, a casa, per cinque minuti silenziosi in ascolto, e di descrivere poi tutto quello che abbiamo udito in quei minuti. Mi ricordo ancora che ci ho messo un mucchio di tempo a svolgere quel tema, perché c’erano tante cose da ascoltare. Anche sull’albero del ciliegio è così. Prima di tutto c’è il lieve fruscio delle fronde al vento d’estate. Poi c’è it rumore dei veicoli che viene di lontano, dalla strada. Si possono udire le voci degli uccelli. Poi la voce del mio amico che sta seduto su un altro grosso ramo dello stesso albero e che chiacchiera con me. Ma particolarmente bello è il suono che si produce quando con gran forza si sputa fuori un nocciolo di ciliegia. Io lo faccio spesso, perché mi piace. A casa non è permesso farlo.

Ora ci sono ancora i tre sensi superiori, con cui si percepisce il linguaggio, i pensieri, e anche l’io dell’altro uomo. Io metto in attività tutti questi sensi, quando ascolto quello che il mio amico mi racconta lassù sull’albero del ciliegio. Credo che il senso dell’io occorra in modo del tutto speciale quando da lontano si vede arrivare la guardia campestre. Si può a mala pena distinguerla dai cespugli dietro a cui spunta, eppure si vede subito che si tratta di un uomo e non di uno spaventa passeri.

Essendo il piacere e il godimento tanto maggiori quanti più sensi vi partecipano, bisogna dire che le ciliege che si mangiano sull’albero sono di gran lunga le migliori.

Io lo so che non si deve rubare. Ma in primo luogo noi a casa non abbiamo ciliegi. In secondo luogo, se si fa attenzione a non danneggiare l’albero, non è poi un gran male quello che si fa. E in terzo luogo io so dal mio amico che il fittavolo a cui il prato dei ciliegi appartiene, da ragazzo ne rubava molte di ciliege anche lui ».

Collettivi di lavoro, tecnologie della collaborazione e deprivazione delle relazioni

Ci sono occasioni in cui le tecnologie impongono procedure che mettono in discussione i consueti criteri di qualità della professionalità e allo stesso tempo indeboliscono le pratiche socio-tecniche che regolano i processi di lavoro.
Alcuni spunti di riflessione per portare a consapevolezza una realtà spesso sottovalutata.

In un contesto socio-economico contraddistinto da forte competitività e pressione performativa, le organizzazioni del lavoro continuano a modificare i loro assetti attraverso l’uso delle tecnologie digitali che consentono una circolazione incalzante di flussi operativi e di informazioni.

Le fasi dell’attività, dalla progettazione alla immissione sul mercato di un prodotto o un servizio, subiscono una notevole accelerazione grazie alla digitalizzazione. Compaiono nuove forme di lavoro non più soggette ai vincoli tradizionali del tempo e dello spazio che, attraverso le opportunità della collaborazione remota, dell’attività in coworking e della nuova modalità (nomade) di svolgere il lavoro sempre e ovunque, consentono una maggiore autonomia delle persone e, probabilmente, una migliore gestione dei costi.
Tuttavia, queste nuove forme di lavoro pongono nei confronti dei collaboratori obblighi di maggiore rendimento e sollecitudine, un controllo costante sulle attività svolte e addirittura una sorta di ingiunzione continua ad aumentare le performance. Le tecnologie accompagnano ormai tutte le attività, influenzano le pratiche, le orientano e, in alcune circostanze possono persino indurre a seguire determinati modelli di compiti prescritti dall’organizzazione. Capita anche che l’artefatto tecnologico supervisioni la dinamica delle risorse in gioco e talvolta essere utilizzato come leva di azione e controllo sui dipendenti.

Tecnologie della collaborazione

Limitandoci in questo momento a considerare le tecnologie cosiddette della collaborazione, un campo di osservazione anche per la psicologia, l’ergonomia e la medicina del lavoro, possiamo tener conto di alcuni dati emersi dagli studi e le ricerche empiriche che, seppure brevemente, vale la pena mettere in evidenza.

Ormai da qualche anno, stiamo assistendo alla moltiplicazione di strumenti di collaborazione aziendale (dai social network alle piattaforme cloud-based) fondata sul convincimento che le pratiche professionali, per produrre pienamente l’effetto voluto e contemporaneamente coinvolgere i collaboratori, devono svolgersi in comunione di intenti e allo stesso tempo essere condivise tra tutte le persone interessate. In realtà, secondo studi recenti, si tratta di tecnologie che rischiano di chiudere gli spazi di mobilitazione dell’intelligenza delle persone e limitano fortemente le capacità di espressione e iniziativa dei dipendenti. Perché, molto spesso, riducono l’attività a dimensioni puramente esecutive e allo stesso tempo impediscono la individualizzazione della relazione al lavoro. Un processo psicologico, mediante il quale l’individuo interiorizza e personalizza la cultura del gruppo e, allo stesso tempo, costruisce la sua identità sociale. Questo potrebbe essere il caso di chi è coinvolto in operazioni di picking, dove l’operatore di magazzino interagisce con il WMS che detta vocalmente il percorso e le diverse operazioni da compiere, stabilendo modalità e tempi. In realtà, è stato evidenziato dalla letteratura scientifica, in questa circostanza specifica la tecnologia non dice solo cosa fare e come farlo ma legittima soprattutto l’attività, convalidando il suo svolgimento e riconoscendo la qualità del lavoro attraverso gli indicatori che preleva e di cui rende conto all’azienda.

E’ una situazione in cui il potere di agire di chi lavora viene notevolmente ridotto, alterando di conseguenza la soggettività e imponendo la rinuncia di una parte del sé della persona e della sua ampiezza decisionale, dell’iniziativa, della valutazione diretta e della conseguente progettualità, della decisione e dell’autonomia gestuale. Insomma, impedisce di essere se stessi in quanto lavoratori capaci.

Vi sono inoltre software applicativi pensati per facilitare e rendere più efficace il lavoro cooperativo da parte di gruppi di persone, le applicazioni del workflow management, i social work aziendali, ecc., che vengono presentati (e molto spesso utilizzati al proposito) come strumenti in grado di ordinare, o addirittura imporre, le modalità di azione e, di conseguenza, organizzare il lavoro collettivo a spese del collettivo di lavoro. Spesso si dimentica che il gruppo di lavoro si costruisce e vive attraverso la condivisione di regole ed esperienze su cosa fare e non fare, di riconoscimento reciproco e di supporto sociale. Perciò, l’assenza o lo smembramento di questi collettivi è in gran parte responsabile della sofferenza dei dipendenti che, nel caso specifico, si trovano soli a gestire le difficoltà, le problematiche e le pressioni dell’organizzazione. Tenendo conto che il gruppo di lavoro funziona da ammortizzatore delle tensioni, da mediatore delle conflittualità ed è capace di regolare la densità e l’intensità delle energie produttive.

Diventa perciò necessario renderci conto che stanno funzionando soluzioni tecniche che impongono una ridefinizione radicale dell’esperienza di chi le usa, perché richiedono nuovi modi di fare, di pensare e collaborare nel lavoro, spesso comportando il rischio di indebolimento dei gruppi e delle reti sociali, fisicamente e psichicamente viventi tra le persone che lavorano.

In questo caso, il gruppo di lavoro non è più un tutto unico, una totalità diversa dalla somma delle sue parti che singolarmente hanno proprietà diverse. Secondo un assioma derivante dalla psicologia del “campo” che Kurt Lewin ha sistematizzato nella prima metà del XX secolo.

Lavorare insieme?
Ora è possibile lavorare insieme tramite le tecnologie digitali, ma nei fatti vuol dire lavorare insieme separatamente, davanti al proprio computer. Si presenta così una situazione in cui gli strumenti digitali aggregano dipendenti e competenze con diversi background sociali, professionali e culturali, in una sorta di incitamento all’attività collettiva. Un ambiente (virtuale) in cui una “collezione” di individui e una combinazione di competenze intercambiabili, interconnesse attraverso relazioni fittizie (virtuali) espongono le persone all’isolamento.

Può comparire anche un ulteriore effetto perverso che riguarda la possibile competizione/conflittualità tra i dipendenti in grado di essere molto distruttivo nel caso in cui il “vivere/lavorare insieme” lascia il posto a “ognuno per sé”. Condizione che – lo evidenziano le ricerche sul campo – può essere amplificata dai sistemi panottici attraverso i quali è possibile esercitare un controllo quasi permanente sui dipendenti che, in casi del genere, aumentano la conflittualità e l’isolamento.

Ecco alcune annotazioni esemplificative per comprendere che le nuove tecnologie digitali possono anche modificare i riferimenti contestuali e gli ambienti di lavoro stessi, incidendo contemporaneamente sulla struttura identitaria delle persone.
Spesso questi strumenti tecnologici sono utilizzati in maniera consapevole per quanto riguarda la possibilità di generare effetti positivi sul business aziendale e allo stesso tempo in modo inconsapevole, in quanto non ci si rende conto delle potenzialità dirompenti nei confronti della qualità del lavoro e della qualità della vita al lavoro. E, sovente, l’applicazione e l’implementazione di una nuova tecnologia in un ambito di lavoro, avviene prima che ci sia una buona comprensione degli eventuali effetti sulla salute e il benessere delle persone.

Tenendo come punto di riferimento il fatto che non può esserci “benessere” al lavoro, senza un certo “benessere” del lavoro, queste brevi le riflessioni indicano che in certe situazioni professionali l’uso delle tecnologie è in grado di alterare la relazione con il lavoro e con le persone che lavorano.

Ciò nonostante, se le tecnologie rappresentano potenziali fattori che possono alterare e deteriorare l’attività professionale, possono anche diventare una opportunità per ridiscutere il lavoro e il ruolo che i dispositivi tecnologici svolgono nell’attività. Affinché gli specialisti delle risorse umane possano cogliere la importanza di queste discussioni per coinvolgere i dipendenti su progetti veramente partecipativi e centrati sulle loro azioni e sulla loro partecipazione. Quindi non solo sulle tecnologie.

Occorre allo stesso tempo tener presente che l’individuo non rimane passivo di fronte agli artefatti tecnologici perché ha la capacità di agire e reagire per dare un senso alla tecnologia, egli può apportare un’efficienza individuale e collettiva attraverso l’uso della tecnologia e mantenere capacità di azione e iniziativa in queste attività mediatizzate, può continuare a lavorare per sviluppare la sua attività. e preservare la sua salute. Affinché ciò possa accadere, l’organizzazione del lavoro ha bisogno di mobilitare approcci differenti, attingendo anche dalla cultura scientifica (psicologia del lavoro, ergonomia, sociologia, medicina del lavoro) per la ricerca, la valutazione, la progettazione e la diffusione di strumenti innovativi perché la tecnologia diventi una autentica leva di sviluppo non solo per le imprese ma anche per le persone che fanno le imprese.

 

* L’autore può fornire – a richiesta – ulteriori informazioni ed eventuale documentazione bibliografica, nonché pareri specialistici sullo specifico argomento