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Egoismo e responsabilità

Vi è nella responsabilità un “dovere” di risposta coniugato ad una “libertà” di scelta che si risolve in ambito giuridico, nella “imputabilità” al singolo delle azioni e delle sue conseguenze, in ambito morale in un obbligo di valutazione correlato agli altri del proprio agire.

Max Weber a fronte della tragedia della Grande Guerra parla di una “etica della responsabilità”, dell’agire tenendo conto degli effetti delle proprie azioni, contrapponendola a quella che lui chiama l’ “etica della convinzione”, in cui si giudica sulla base dell’intenzione fornendo un giudizio morale sul movente e non sugli effetti.

Nell’impossibilità di sostenere un “libero arbitrio assoluto” senza la presenza di alcun determinismo si deve introdurre una “responsabilità della riflessione”, ossia la necessità della presenza di una valutazione adeguata alle conseguenze, di un controllo razionale dei mezzi impiegati e delle loro conseguenze in cui i “valori” costituiscono premessa e coordinate dell’agire.

Questa etica della responsabilità è da Hans Jonas estesa anche a coloro che non sono ancora nati fino a ricomprendere l’intera biosfera, infatti vi è un dovere per chi ha potere di agire per il bene di coloro che da lui dipendono, un dovere essere fatto che nel proiettarsi supera la semplice rendicontazione di ciò che è stato fatto, in questo completando e saldandosi con la “sostituzione vicaria” richiamata da Bonhoeffer, nella quale vi è attraverso l’assunzione di responsabilità nei confronti degli altri il tratto distintivo dell’uomo rispetto agli altri esseri animati, tuttavia questo può risolversi in arbitrio senza il riconoscimento delle altre responsabilità proprie dell’uomo.

Ne discende una particolare responsabilità per il politico il quale deve agire “per” anziché “su” gli amministrati, con una responsabilità che investe ogni aspetto dell’esistenza in una costante continuità nel tempo tale da rinsaldare l’identità collettiva.

In quest’opera nasce l’esigenza per il politico di sviluppare le potenzialità dell’uomo anziché renderlo un semplice lacchè o automa, ma tale necessità può realizzarsi solo creandone le condizioni, ossia l’ambiente idoneo per la collettività futura, ciò non può accadere tuttavia in senso deterministico attraverso una precisa consequenzialità di atti predeterminati, ma sarà la responsabilità per gli effetti dei singoli atti a dare luogo al complesso imprevedibile del futuro, si passa pertanto da un’etica kantiana individuale ad una collettiva politica nella quale il tempo, quale tensione verso il futuro, assume una propria autonoma dimensione.

La necessità del valutare la collettività dell’essere umano proiettata nel futuro evidenzia il tessuto della comunicazione linguistica quale substrato nella

relazione intersoggettiva ( Habermas), da cui ne deriva una “comunità ideale di comunicazione” quale misura di responsabilità e moralità sulla natura consensuale delle norme che devono guidare l’agire pratico anche sulla valutazione dell’impatto tecnologico ( Apel), ma proprio la complessità delle valutazioni fa sì che tale “comunità ideale” non sia che una galassia di un insieme di comunità ideali differenziate tra loro, nel quale solo una comunicazione politica può costituire l’interconnessione.

In questo processo, sebbene Sartre assolutizzi la responsabilità di ciascun individuo, Derrida nega la possibilità di una “imputabilità” giuridica assoluta per il singolo se non ci si riferisce al contesto del suo agire, tuttavia bisogna evitare di giungere ad automatismi comportamentali in cui venga archiviato quello che Arendt definisce il “gesto del pensare”, anticamera per una deresponsabilizzazione che giustifichi qualsiasi arbitrio derivante dalla manipolazione delle coscienze, infatti solo dalla “facoltà di giudizio” può provenire quel nesso tra morale e diritto che costituisce la responsabilità personale giuridica da calarsi nella più ampia “etica della responsabilità” descritta da Jonas.

La “libertà” di giudizio che appare alla base della “facoltà” di giudizio sembra premettere a sua volta una “volontà” di giudizio che Nietzsche interpreta come inclinazione al comando, volontà di potenza al di là del semplice desiderio, che viene a risolversi in un piacere di comando e arbitrio, un surplus di forza rimesso all’esclusivo giudizio kantiano del singolo, vi è insito in questo un potenziale difetto di giudizio che aleggia semplicemente su tutti i campi umani del sapere, un errore sempre in agguato anche in qualsiasi norma o regola imposta dall’esterno al comportamento umano ( Arendt).

Solo il principio di una “etica della responsabilità” può essere parametro di giudizio, contraltare all’eccessivo ideologico individualismo sociale (Dumont) tratto comune nella modernità con l’ universalismo (Simmel), una differenza individuale propria delle differenziazioni culturali ed economiche insite nella crescita della società moderna, la quale giustifica sé stessa sulla crescente qualità della forma di vita sociale, ne consegue che l’individualismo deve sfociare nella cooperazione strategica in presenza di obiettivi sociali comuni in un’alternarsi di cooperazione/conflitto, contrapposto alla mera ed esclusiva egoistica competizione di tipo atomistico (Genovese).

Nell’evoluzione vi è la ricerca di una giusta combinazione fra selezione del gene e selezione di gruppo al fine di una continua adattabilità all’ambiente che l’uomo stesso in buona parte ha creato, in questa strategia mista intervengono i “geni culturali” quale eredità culturale nel definire il rapporto ottimale del campo da gioco (Lunsden- Wilson) ; al bagaglio genetico del comportamento si sovrappongono le condizioni generali determinate dai meccanismi della selezione di gruppo, sì ché ad una strategia pura singola di primo livello si aggiunge ed interseca una strategia mista di secondo livello nella quale il gioco è visto nella sua interezza ( Mérò ), anche se vi è sempre uno stato d’animo in qualsiasi ragionamento, un portare all’eccesso un rapporto, un sistema non solo per fini utilitaristici ma quale gioco in cui sfidare ed esaltare il proprio sé contro gli altri, quale volontà di potenza.

Scrive Huizinga, “Il guastafeste è tutt’ altra cosa che un baro. Quest’ ultimo finge di giocare il gioco. In apparenza continua a riconoscere il cerchio magico del gioco. I partecipanti al gioco gli perdonano la sua colpa più facilmente che al guastafeste, perché quest’ultimo infrange il loro stesso mondo…. Perciò egli deve essere annientato; giacché minaccia l’esistenza della comunità “giocante”…. Anche nel mondo della grave serietà, i bari, gli ipocriti, i mistificatori hanno sempre incontrato più facilitazioni dei guastafeste: cioè gli apostati, gli eretici, gli innovatori e i prigionieri della propria coscienza”.” ( p. 15 Homo ludens, Einaudi 1973).

 

Sabetta Sergio, Egoismo e Responsabilità. Alla ricerca della qualità

Pubblicato in Sociologia e Psicologia del diritto

http://www.diritto.it/docs/33428-egoismo-e-responsabilit?page=2

 

Bibliografia

  1. Weber, L’etica della responsabilità, La Nuova Italia 2000;
  2. Furiosi, Uomo e natura nel pensiero di Hans Jonas, Vita e Pensiero 2003;
  3. Vergini, Jacques Deridda, Bruno Mondadori 2000;
  4. Arendt, responsabilità e giudizio, Einaudi 2004;
  5. Dumont, saggi sull’individualismo, Adelphi 1993;
  6. Adorno, La crisi dell’individuo, Diabasis 2010;
  7. Simmel, Sociologia, Edizioni di Comunità 1989;
  8. Genovese, Com’è possibile un individualismo sociale ? , 2011 – web. Kainos-prtale.com;
  9. Abbagnano, Storia della filosofia, Vol. III, Utet 1974;
  10. Mérò, Calcoli umani. Teoria dei giochi, logica e fragilità umana, Dedalo ed. 2005;
  11. J. Lumsden – E.O. Wilson, Genes, Mind and Culture, Harvard University Press 1981.

Allarme: il lavoro è ormai un’ossessione

Il caso, recente, di A. Horta-Osorio, il Ceo Lloyds Bank al quale le cronache internazionali hanno dedicato ampio spazio, rischia di essere considerato un caso isolato e straordinario, quando invece si tratta dell’esemplificazione di una realtà allarmante, sulla quale è necessario rivolgere maggiore attenzione e responsabilità.

Sicuramente è la prima volta che un manager d’altissimo livello confessa apertamente, e in modo enfatico, di essersi “ammalato di lavoro”. Rischiando addirittura  di passare alla storia come il primo illustre contagiato da una nuova patologia.

Nel comunicare la sua esperienza e le sue scelte, forse ha voluto, saggiamente, dimostrare che se un trader non è in grado di lavorare quando è stressato, ciò potrebbe significare una notevole perdita di ricavato. Così ha fornito un’immagine d’efficientismo a vantaggio della sua banca e a beneficio della sua reputazione professionale.

Gli organi di stampa hanno riportato il parere degli esperti che considerano quella malattia come inability to swich off (ITSO) cioè  “Sindrome dell’incapacità di staccare la spina”, altri hanno parlato di burn-out; in un caso e nell’altro, sono ambedue malattie da stress correlato con il lavoro.

Il problema è noto già tempo e, se ad esempio, consideriamo i dati di recentissime ricerche proprio nel panorama della City londinese, possiamo renderci conto che la fatica e la sofferenza delle persone che lavorano nel mondo della finanza è un fatto accertato. Perché, l’agitazione dei mercati prodotta dalle crisi del debito nell’eurozona ha accresciuto lo stress subito dagli operatori finanziari. Mentre la fatica di raggiungere gli obiettivi di ricavato, la minaccia della disoccupazione e la cultura degli orari “che non finiscono più”, hanno indotto nelle persone e nelle organizzazioni di lavoro un clima da pentola a pressione. Le condizioni assai difficili di trading e la volatilità registrata in questi ultimi quattro anni, hanno portato a livello record di stress e di disturbi psichici gli addetti. Dai dati forniti da uno studio di Health & Safety Executive (HSE), emerge che tra l’ottobre 2010-2011 circa 18 mila operatori finanziari e assicurativi nel Regno Unito sono stati vittime di stress, depressione o crisi di panico in rapporto diretto con il loro lavoro.

Il recente studio realizzato da alcuni ricercatori del Finish Institute of Occupational Health e della Queen Mary University di Londra, mette in risalto che quanti lavorano oltre le 11 ore giornaliere raddoppiano il rischio di incorrere in un episodio depressivo maggiore rispetto ai colleghi che svolgono il lavoro nell’arco di 7-8 ore. Il dato aiuta a comprendere che le giornate di lavoro troppo lunghe non causano solo problemi in ragione delle pressioni interne all’organizzazione e l’intensità del lavoro svolto. Esse comportano un danno aggiuntivo perché chi lavora non ha abbastanza tempo da dedicare a tutte le altre cose di cui ha bisogno per rimanere in buona condizione fisica e mentale, come: dormire adeguatamente, intrattenere delle relazioni e disporre di congrui momenti per riposare e avere del tempo libero. In conclusione, fare ore supplementari può avere un effetto benefico per l’individuo e la società, ma è importante riconoscere che quando si lavora troppo si può incorrere in una depressione grave.

In un periodo storico come l’attuale in cui la sofferenza più avvertita è quella della mancanza di lavoro, sembra del tutto strano parlare di un problema che, invece, è direttamente collegato con il troppo lavoro.

I datori di lavoro e gli stessi lavoratori hanno ancora scarsa familiarità con questo fenomeno, caratterizzato dal fatto che una persona è attiva anche quando la sua salute fisica e mentale non lo permette; come in tutti quei casi di stress cronico che rischiano di diventare, superando la capacità di dissimulazione delle persone, conclamate forme d’esaurimento professionale. D’altra parte, il lavoro in modalità 24/7, come si dice, o l’essere “sempre connessi”, pur capaci di polarizzare le aspirazioni di una comunità o di un’epoca, spingono le persone a mettere in secondo piano la propria vita familiare e sociale. Con il rischio di ritrovarsi “cortocircuitati” o in burn-out.

E’ quello che capita spesso, offrendo un denominatore comune a tutte quelle forme di disagio multifattoriale, definite in vario modo dalla letteratura scientifica: dipendenza da lavoro, workaholism o work-addiction (nei paesi anglosassoni), Arbeitssucht (nella lingua tedesca), Karoshi (Giappone), sisifopatia, ecc. Sindromi accomunate da una componente “ossessiva” e “compulsiva” nei confronti del lavoro. Si tratta in questo caso di una dedizione al lavoro riconosciuta come un’attività lecita e socialmente accettata, che però nel tempo perde il suo valore identitario e si trasforma in una forma di dipendenza che implica l’incapacità di regolare i propri ritmi di lavoro e la continua ricerca di compiti da portare a termine nel minor tempo possibile. Dipendenza, che nella maggior parte dei casi è ego-sintonica, nel senso che chi è coinvolto non percepisce il problema, mentre altri, come ad esempio i familiari, ne fanno direttamente le spese per i disagi derivanti della sua auto-esclusione sociale.

Occorre tener conto anche, che nella “bibbia” dei professionisti della salute mentale, l’arcinoto Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali o DSM, non vi è cenno del burn-out e tantomeno dell’esaurimento professionale. Ciò significa che, sul piano clinico, auspicando un’adeguata esperienza di psicopatologia, in genere s’inquadrerà il caso nei termini di un Disturbo dell’adattamento con umore depresso, o con ansia e umore depresso, oppure con specificazioni ulteriori; che è proprio il quadro psicopatologico corrispondente al burn-out o esaurimento professionale; ciò nonostante, non rendendosi conto del dato eziologico. Tutto questo vuol dire che, tale condizione esistenziale il più delle volte è valutata in maniera non adeguata, a scapito di un puntuale intervento clinico che tenga conto di tutti i fattori in causa, quali ad esempio: le caratteristiche della persona (personalità e stile cognitivo, fattori protettivi, ecc.), le peculiarità del lavoro e dell’organizzazione del lavoro, la rete e il supporto sociale. A questo punto, è fortemente auspicabile un rapporto di stretta collaborazione tra lo psicologo esperto di psicopatologia del lavoro e il medico di base.

La famiglia è un luogo privilegiato in cui ci addestriamo all’esercizio del potere.

La famiglia è un  luogo privilegiato in cui ci addestriamo all’esercizio del potere.

 

Con questa affermazione Wood (1996) ci stimola a riflettere che la famiglia è la struttura sociale fondamentale che insegna come ottenere ciò che vogliamo dagli altri. E’ nella famiglia che impariamo come viene usato il potere e tutte le famiglie “funzionano” grazie al potere. Probabilmente abbiamo una concezione negativa con il potere – sembra voler suggerire Wood – perché gran parte della nostra esperienza con il potere è traumatica. Nella nostra vita abbiano iniziato ad essere amati, ma anche manipolati, controllati, puniti e addirittura maltrattati da persone di potere. Il potere della madre, del padre e a volte dei fratelli e delle sorelle maggiori è stato quello che ci ha fornito le lezioni più importanti e conformato le nostre convinzioni e i nostri atteggiamenti riguardo al potere. Forse questo è il motivo principale per cui noi cerchiamo di evitare il nostro stesso potere. Ne abbiamo paura.

 

Queste affermazioni trovano conferma in un’interessante teoria della competenza interpersonale e della socializzazione riguardante il sé nella famiglia formulata da L’Abate (1994), che sottolinea come la famiglia sia il setting principale all’interno del quale ha luogo lo sviluppo e la socializzazione della personalità.

 

In seguito L’Abate (1997) è riuscito ad illustrare le evidenze empiriche che portano a considerare la famiglia come il setting dal quale le inclinazioni della personalità e le loro devianze si sviluppano e si diffondono; puntualizzando una teoria evolutiva della socializzazione della personalità che considera le abilità di amare e di negoziare come le pietre angolari della competenza personale e interpersonale. Questa teoria afferma che noi abbiamo bisogno di trovare dei modi e dei mezzi per determinare le relazioni causali rilevanti sia a livello individuale sia al livello multidirezionale.

 

La personalità viene definita da L’Abate in base alle abilità di amare e di negoziare (L’Abate, 2000: 31). L’abilità di amare si riferisce in modo specifico all’ambiente familiare; l’abilità di negoziare, invece, concerne anche altri ambienti: la scuola, il lavoro, il tempo libero, i contesti di tempo e di spazio relativi agli spostamenti. Queste abilità vengono acquisite attraverso un processo di socializzazione derivante dai contributi familiari e culturali, influenzato a volte anche da fattori organici e genetici. L’individualità viene definita come il modo in cui una persona afferma, esprime e definisce la propria importanza all’interno di relazioni intime e non.

 

Dall’abilità di amare e dalla abilità di negoziare derivano le modalità dell’essere, del fare e dell’avere. L’essere deriva dall’abilità di amare. Fare e avere derivano dall’abilità di negoziare.

 

Scrive L’Abate che, nelle relazioni funzionali, essere, fare e avere sono bilanciati e vissuti in modo flessibile e appropriato. Nelle relazioni disfunzionali, fare e avere sono enfatizzati o intensificati a scapito dell’essere. Aggiungendo: “Essere, fare e avere possono apparire, ad una prima occhiata, concetti piuttosto astratti. Tuttavia, se vengono definiti attraverso risorse specifiche, sfociano in abilità osservabili – rispettivamente presenza, performance e produzione. Tutte e tre le modalità sono necessarie per vivere e per trarre gioia dalla vita. Essere implica un processo evolutivo nel quale l’abilità della presenza è necessaria – cioè, essere disponibile emotivamente nei confronti delle persone che si amano, il cui amore è reciproco. Esso viene definito dalla combinazione di due risorse: importanza e intimità. La negoziazione implica un processo di problem-solving, di contrattazione e di decisione che coinvolge sia il fare sia l’avere. Il fare o performance deriva dalla combinazione di informazione e servizi. La produzione è un’abilità che risulta dall’avere, in questo contesto, beni e denaro. La combinazione di fare e avere dà forma al costrutto di potere Coloro che possiedono queste modalità hanno potere su coloro che non le hanno” (L’Abate, 2000: 41)..

Le risorse della Psicologia e i soccorsi sanitari nelle catastrofi

Capita che durante l’estate, quando si ha la possibilità di “staccare” per un breve periodo di vacanza, si possa pensare al dopo, a progettare il futuro – di impegni e di svago – che riprenderà con il nostro lavoro in città. Per alcuni di noi l’anno inizia veramente il primo settembre. Quest’anno, però, a settembre ciascuno di noi ha dovuto rivedere i suoi piani. Per migliaia di americani addirittura la vita è stata interrotta all’improvviso, per altre migliaia è cambiata repentinamente e per milioni sta mantenendo una condizione di instabilità latente.

Eventi come quelli sopraggiunti a New York e Washington l’undici settembre scorso, ci obbligano a riflettere anche sul senso della nostra professione di psicologi e psicoterapeuti. Affinché dopo un primo disorientamento si consideri seriamente, sulla base delle evidenze, la importanza del contributo umanistico e umanitario, oltre che scientifico, della psicologia nell’ambito delle emergenze. In particolare l’impegno di persone professionalmente preparate ed esperte a garanzia di interventi specifici in occasione di incidenti critici o gravi calamità.

Il carattere improvviso, imprevedibile e drammatico, di tali eventi, colpisce fortemente la nostra sicurezza psichica. Gli effetti vanno molto al di là del reale pericolo che è “relativamente” limitato per la sopravvivenza delle persone. E’ soprattutto la nostra fiducia, o meglio il nostro bisogno di contare su un mondo costantemente stabile e prevedibile, a trovarsi fortemente scossa o seriamente incrinata. E questo incrinamento si rispecchia innanzitutto sulla fiducia in se stessi.

Tutto avviene come se i meccanismi e le forze che fino a quel momento hanno mantenuto un certo “ordine” o “equilibrio” naturale, vadano per un’altra via, quella del caos e del disorientamento. Queste condizioni di forti e drammatici cambiamenti richiedono altrettanto forti e veloci adattamenti. Gli stili di risposta delle persone – funzionali o disfunzionali che siano – possono essere molteplici. Nella maggioranza dei casi non hanno gravi conseguenze. Tuttavia nei momenti in cui è faticoso o difficile mettere in atto adeguati processi di coping o quando gli stress sono troppo prolungati, possono emergere problematiche di tipo psicologico tra le quali assume una certa “ridondanza” quella sindrome a tutti nota come PTSD (post traumatic stress disorder). Che tutta via non rappresenta l’unica e più frequente conseguenza psicopatologica dei disastri.

Sullo scenario dell’evento critico o della catastrofe, possiamo così immaginare – e drammaticamente vivere nell’esperienza diretta – la forza altamente sconvolgente degli eventi e il trauma, a vari livelli, delle persone coinvolte. E’ garantito che tutto sarà diverso da prima. Ma, nei momenti di pace, è lecito pensare ad un “prima”, cioè ad un sano e serio lavoro di prevenzione, per limitare i danni derivanti dagli eventi calamitosi. Facendo innanzitutto tesoro della esperienza personale e decidendo di “scambiare” tale nostra esperienza con quella di altri. Per crescere insieme e affrontare insieme i nuovi problemi che ogni emergenza porta con sé.

 

Ecco che allora gli psicologi potrebbero investire o “arrischiare” le loro capacità professionali per rispondere con competenza alle chiamate delle emergenze ed essere all’altezza del compito ad essi richiesto.

Altre categorie professionali lo stanno facendo da tempo ed è giusto che ognuno presti la propria opera e sappia fare bene il proprio lavoro: il medico, l’infermiere, il tecnico, il volontario … e lo psicologo.

Questo è anche quanto sottende l’articolato “Criteri di massima per l’organizzazione dei soccorsi sanitari nelle catastrofi” (suppl. ordinario alla GU n.109 del 12 maggio 2001 – serie generale), sul quale ritorneremo in chiusura.

 

Vale quindi la pena tentare una definizione approssimativa del concetto di psicologia delle emergenze, che a tutta prima è del tutto superfluo ben sapendo che “la psicologia è una sola”. Risulta però utile soprattutto sul piano operativo, perché offre la possibilità di utilizzare una “cornice” e dei riferimenti molto promettenti per la ricerca sul campo e gli interventi diretti.

In questo ambito specifico la nostra disciplina si occupa dei comportamenti e in particolare delle problematiche di tipo psicologico che generalmente si manifestano in situazioni di emergenza. Per ottimizzare gli interventi di aiuto verso le persone coinvolte in incidenti critici e/o gravi calamità e individuare quei sistemi di trattamento più idonei ad evitare nelle persone effetti psichici negativi oppure a ridurne al minimo le possibilità di insorgenza.

Tiene perciò conto del “fattore umano” nel contesto delle emergenze. Studia il comportamento umano prima, durante e dopo un evento critico, in relazione alla personalità, alla motivazione, ai livelli d’ansia e di aggressività, alle dinamiche di gruppo nelle prove collettive. Perché le persone coinvolte sperimentano situazioni psichiche estreme e corrispondenti sensazioni impulsive che non è dato verificare nelle normali situazioni.

 

La psicologia delle emergenze dovrà costituire un corpus di conoscenze sulle attività di intervento sul campo, per migliorare la efficacia delle prestazioni e il benessere delle persone, conoscenze psicologiche che ogni operatore dell’emergenza o della sicurezza dovrebbe avere o utilizzare nella sua interazione con le persone alle quali presta aiuto o assistenza.

Gli interventi della psicologia delle emergenze riguardano anche la selezione del personale, attraverso opportuni interventi rivolti a individuare le attitudini specifiche in vista delle attività e delle aree di applicazione. Sono importati anche per la razionalizzazione dei sistemi di apprendimento e la formazione, attraverso misurazioni del rendimento e delle prestazioni.

In questa prospettiva essa dovrebbe occuparsi anche delle indagini psicosociologiche in vista dei rapporti interpersonali, del comportamento in situazioni eccezionali, della motivazione, delle relazioni tra leadership e consenso, del maggiore o minore adattamento dell’individuo al gruppo dei compagni e al sistema organizzativo. A delle tecniche di cooperazione e di empowerment in ordine allo spirito di collaborazione, alla sopravvivenza, al superamento della sfiducia e delle crisi di angoscia, al ruolo e alle modalità di comunicazione dei mass media in situazioni di emergenza o disastri.

La psicologia delle emergenze coinvolge anche gli psicoterapeuti e li impegna a fornire risposte puntuali alle difficoltà di coping delle persone coinvolte nelle emergenze e intervenire nei casi più gravi per seguire con scienza e coscienza le persone colpite più pesantemente.

Non si può dimenticare però che, se da una parte è la cultura dell’emergenza quella che prevale, dall’altra è completamente trascurata la cultura del rischio cioè quella attenzione rivolta alle capacità di gestione delle eventualità di subire danni, con conseguenze che tutti conosciamo.

 

E’ vero, con l’emergenza siamo istintivamente coinvolti, la gestione del rischio però è un’altra cosa, perché innanzitutto richiede un certo grado di consapevolezza e poi competenza, attenzione, organizzazione, risorse e, soprattutto, implica assunzione di responsabilità e mantenimento della giusta distanza emotiva.

Nel campo delle emergenze la professione e la professionalità dello psicologo possono contribuire sensibilmente alla qualità degli interventi e alla organizzazione dei soccorsi sanitari in occasione di calamità e catastrofi così come possono dare un contributo importante alla valorizzazione (in termini di qualità della relazione e prevenzione dello stress degli operatori) del servizio garantito dalle Centrali Operative 118.

Se si prende in considerazione il provvedimento della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Protezione Civile “Criteri di massima per l’organizzazione dei soccorsi sanitari nelle catastrofi”, pubblicato sul supplemento ordinario alla GU n.109 del 12 maggio 2001 – serie generale possiamo rilevare che esso chiama direttamente in causa la professione dello psicologo. In modo specifico all’art. 1.1 (definizione), all’art. 1.7 (funzione di supporto n.2), all’art. 1.9.2 (eventi attesi); nonché agli artt. 3.2.1 e 3.2.3 (evento catastrofico che travalica le potenzialità di risposta delle strutture locali). Imponendo di occuparsi attivamente del sostegno psicologico delle persone e delle popolazioni (non tenendo però conto del sostegno psicologico ai soccorritori).

 

Entrando nei dettagli, vediamo che già nella Premessa, si parla di “organizzazione dei soccorsi sanitari durante una catastrofe …” coinvolgendo direttamente la psicologia come professione sanitaria (volta cioè a tutelare la salute dell’uomo).

Quando definisce il piano di emergenza (art. 1.1) la norma motiva a tener conto degli aspetti fisici e psicologici al fine di ristabilire le condizioni di vita. Viene infatti detto che (il piano) ” … è lo strumento che consente alle autorità competenti di predisporre e coordinare gli interventi di soccorso a tutela della popolazione e dei beni in un’area a rischio, e di garantire con ogni mezzo il mantenimento del livello di vita “civile” messo in crisi dalla situazione che comporta necessariamente gravi disagi fisici e psicologici”.

Ciò che non è stato scritto, ma può essere legittimamente sostenuto, riguarda la necessità di garantire una condizione e un livello di vita che non favoriscano una traumatizzazione secondaria. Pertanto è del tutto fondato porre l’accento sulla importanza della psicologia anche nella prevenzione, ad esempio, degli stati di PTSD.

All’art. 1.7 , si afferma che le tematiche sanitarie affrontate nella pianificazione dell’emergenza sono varie e molteplici anche se “abbastanza comunemente, il settore viene limitato alla medicina d’urgenza”.

Aggiunge però che “in realtà, l’intervento sanitario in seguito a un disastro deve far fronte ad una complessa rete di problemi che si inquadrano nell’ambito della medicina delle catastrofi e che prevedono la programmazione ed il coordinamento delle seguenti attività: primo soccorso e assistenza sanitaria, interventi di sanità pubblica, attività di assistenza psicologica e di assistenza sociale alla popolazione”. Come si vede, lo psicologo viene chiamato in causa direttamente, essendo la assistenza psicologica peculiare attività degli psicologi. Pertanto, anche quando nello stesso articolo, all’ultimo comma, si dice esplicitamente che la vastità dei compiti “presuppone, soprattutto in fase di pianificazione, il coinvolgimento dei referenti dei vari settori interessati tra cui i rappresentanti di: …. Ordini Professionali di area sanitaria” vengono chiamati in causa gli psicologi e in particolare gli Ordini Regionali e l’Ordine Nazionale degli Psicologi.

 

Anche nel successivo art. 1.8, che riguarda le Centrali operative sanitarie 118, la norma chiama direttamente in causa la nostra professione quando, riconoscendo che la Centrale operativa 118 “costituisce l’interlocutore privilegiato in campo sanitario”, sottolinea che la centrale operativa “dovrà individuare i maggiori rischi sanitari che insistono sul proprio territorio in modo da prevedere un’organizzazione sanitaria in grado di fronteggiare gli eventi catastrofici più probabili”. Individuare i maggiori (inteso come più importanti o prevalenti) rischi sanitari significa anche tener conto della gravità, prevalenza, ricorrenza, di alcuni traumi psichici direttamente correlati con gli eventi catastrofici più probabili. Anzi, ci permettiamo di dire che se si possono definire alcuni degli eventi catastrofici più probabili, si possono anche definire alcuni dei traumi psicologici più probabili.

 

L’art. 1.9.2 – “Eventi attesi”, impone la redazione di un elenco dei rischi che interessano il territorio, sottolineando che “nella valutazione degli eventi attesi sarà utile, ai fini dell’organizzazione del soccorso sanitario, tener conto di alcune ipotesi di rischio associabili ai rischi principali …” Varie conseguenze possono essere valutate già nella pianificazione delle risposte come gli effetti sulle persone (lesioni o morti).

 

Non vi è dubbio che con il termine “lesioni” si faccia riferimento a vari traumi che, per quanto riguarda il campo di attività degli psicoterapeuti, potranno essere differenziati in traumi psichici diretti e indiretti, correlati agli eventi.

Il documento al quale facciamo riferimento risente purtroppo di una formulazione che risale a circa dieci anni fa e pertanto non ha avuto modo di sottolineare quanto sia importante prestare attenzione ai traumi a carico dei soccorritori nonché alla garanzia delle condizioni di salute nei luoghi di lavoro prevista dalla legge 626.

 

Ribadendo (all’art. 3.2.1) la complessità dell’argomento in fatto di coordinamento degli interventi, fa ancora un esplicito riferimento al “sostegno psicologico alle popolazioni sinistrate” non esplicitando minimamente la importanza di un intervento a favore dei soccorritori traumatizzati (traumatizzazione vicaria).

 

All’art. 3.2.2 (valutazione della situazione), quando tratta della valutazione presumibile del numero di (morti e di) lesi, la natura delle lesioni prevalenti, la situazione delle vittime, la situazione dei profughi (da intendersi come: coloro che sono costretti a lasciare il luogo in cui abitualmente vivono) e il loro stato psicologico è chiaro il coinvolgimento della nostra professione, anche se esplicitamente previsto solo verso i profughi. Tutto ciò dovendosi imputare ad una formulazione che probabilmente ha tenuto conto più della situazione medica e meno della situazione psicologica. Anche in considerazione del fatto che, a quell’epoca, i progressi e i contributi scientifici delle realtà estere (USA, Inghilterra, Finlandia, Australia, ecc.) erano ancora sconosciuti o limitati nel nostro paese.

 

In conclusione, l’invito a investire le competenze della psicologia e le esperienze degli psicologi nel vasto e complesso campo delle emergenze è chiaro. Nell’economia di questo scritto ci siamo limitati ad evidenziare soprattutto le emergenze legate alle catastrofi, ma è evidente che gli sconvolgimenti sempre più frequenti – in situazioni e condizioni diverse – sono una chiamata importante e una sfida che è importante raccogliere.

 

titolo: Le risorse della Psicologia e i soccorsi sanitari nelle catastrofi

autore: Vittorio Tripeni

argomento: Psicologia Emergenza e Psicotraumatologia

fonte: Vertici Network

data di pubblicazione: 12/11/2001

 

pubblicato in forma ridotta anche sul notiziario OPL (Ordine degli Psicol della Lombardia), n, 1 gennaio 2002

www.opl.it/allegati/Numero%201%20gennaio%202002.pdf

Somatopsicodinamica della depressione

La depressione è un’emozione che può divenire un sintomo, se non un aspetto caratteriale.

La psichiatria classica distingue la depressione in endogena ed esogena, ma se ci atteniamo ai principi energetici di Reich, possiamo individuare certi “blocchi” corporei come responsabili delle diverse manifestazioni della depressione e cogliere l’etiologia di essa molto meglio che la nosografia ufficiale ed attuale.

Rifacendomi a Wernicke, possiamo parlare di situazioni o di processi somato-psichici che ritengo più esatto definire somato-psico-dinamici. Intendo riferirmi ai concetti che sottolineano come ogni condizione di privazione, di perdita, mancanza, determinino una condizione “depressiva” che troveremo, pertanto, ancorata a diversi livelli muscolari del corpo.

Opino che vi siano quattro possibilità per tale ancoraggio, per cui quattro espressioni della psicopatologia depressiva.

La prima possibilità è data dalla depressione psicotica allorché il soggetto non è cosciente del suo stato depressivo, egli non lo “vede”: in tal caso è il livello ad essere bloccato. Il blocco del 1. livello, dei telerecettori cioè, induce la situazione psicotica in cui la depressione è l’aspetto saliente; il blocco di tale livello per l’insoddisfazione, la frustrazione avvenuta durante i primi giorni di vita determina la condizione psicotica che è da ritenersi fondamentale in ogni caso di “psicosi depressiva”.

La sintomatologia si presenta col mutacismo, con la catatonia, con l’esplosione di rapporti distruttivi, molto pericolosi per il soggetto e per gli altri. Per tali motivi come ho già scritto e detto altre volte, non si può parlare di specifiche psicosi, ma solo delle “psicosi”.

Seconda possibilità: dal momento che sappiamo che subito dopo la nascita, attraverso l’allattamento, è la bocca, cioè il 2. livello reichiano del corpo, che entra in funzione, va da sé che se la frustrazione esistenziale si verifica in tale periodo, implode tutta la sintomatologia definita “orale”. Dico “implode” perchè in tali casi si struttura un vero e proprio nucleo depressivo della personalità, pronto ad esplodere allorché determinate situazioni esistenziali fanno rivivere al soggetto le stesse penose emozioni neonatali. Tali emozioni rimosse sono legate ad un cattivo maternage o ad un precoce svezzamento.

In questi casi vi sono due possibilità di manifestazioni orali, quella cosiddetta insoddisfatta e quella rimossa. Nella prima si tratta di soggetti che hanno ricevuto frustrazioni relative all’allattamento: soggetti che hanno sofferto una fame di latte che arrivava o troppo poco o in ritardo, dando loro tutta la possibilità di fantasmatizzare, da cui, in clinica, la presenza di pseudo-allucinazioni. Tutto ciò si manifesta nella caratterialità adulta con una spiccata tendenza alla depressione profonda dell’umore che il soggetto cerca di compensare o di evitare attraverso l’abuso del cibo, dell’alcool, del fumo. È importante, in terapia, cercare di stabilire l’epoca in cui tale frustrazione si è verificata.

L’oralità rimossa, si installa invece per uno svezzamento troppo precoce: la paura e la rabbia provata dal neonato in tale circostanza si manifesta in seguito con una contrazione cronica dei muscoli masseteri; spesso la mandibola è quadrata ed il soggetto parla fra i denti. Tale frustrazione comporta una caratterialità aggressiva di tipo distruttivo, con mordacità e con una suscettibilità al limite della paranoia.

Si delinea così il soggetto borderline che può esplodere in manifestazioni psicotiche allorché il blocco energetico della bocca invade gli occhi, regredendo. Per tali soggetti tra compensazione avviene mediante un privilegiare il “piacere” degli occhi (in tal modo non si accumula energia) con la lettura, l’estetica, ecc., se non con la droga.

Prima di passare alla nevrosi depressiva è opportuno prendere in considerazione la cosiddetta sindrome maniaco-depressiva, la cui alternanza delle fasi corrisponde in chiave reichiana a situazioni nelle quali, per la fase depressiva, da parte del soggetto si ha difficoltà a “vedere” l’altro e se stesso (accomodazione, convergenza) e facilità a ,”rodersi dentro” (mordere) come ruminazione aggressiva. La fase maniacale è caratterizzata da una facilità di “guardare e guardarsi a destra e a sinistra” e nel contempo da un bisogno di “succhiare” facilmente tutto quanto attorno.

In termini di vegetoterapia vi è uno sfasamento tra il primo e il secondo livello con una funzionalità incoerente e discordante.

Nel quadro della depressione è necessario, inoltre, ricordare la forma depressiva criptica; tale sindrome, secondo me psicotica di fondo, è nascosta per la presenza di un “blocco” al naso (ne parleremo prossimamente) che “compensa” quello degli occhi e della bocca: la sintomatologia depressiva esplode o per lo “sblocco” improvviso del naso o perchè il blocco, come difesa, oltrepassa i limiti energetici. Il blocco del naso si accompagna sempre con quello del 6. livello, l’addominale.

Terza possibilità: in relazione alla nevrosi depressiva possiamo collocare l’ipocondria, quadro clinico in cui il soggetto è capace di vedere l’altro o se stesso, ma non con un ritmo alternato per ciò che concerne il 1. livello, bensì nei confronti del 2., della bocca; il funzionalismo, cioè, è fortemente disturbato.

Che tale sindrome sia a cavallo con la nevrosi depressiva lo dimostra la sintomatologia in cui prevale l’attenzione morbosa del soggetto per la propria salute, per il proprio corpo temuto malato, cioè per il proprio Io.

È secondo me, il 3. livello reichiano, cioè il collo, responsabile della vera e propria nevrosi depressiva o depressione nevrotica. Tale 3. livello arriva in basso fino alla linea mammillare; la clinica classica lo conferma e quella reichiana pure. Non si tratta, infatti, né di uno stato né di un processo depressivo nel senso vero dei termini: il soggetto “vede” bene la sua “depressione” che è, piuttosto, una invadente tendenza alla tristezza, alla malinconia, alla “nostalgia” romantica!

Il blocco di tale livello è predominante su quello orale ed impedisce al soggetto di superare una condizione psicodi-namica di ambivalenza, nel senso che per ciò che riguarda il solo blocco degli occhi e della bocca vi è una chiara situazione di dipendenza psicologica, mentre qui vi è anche la problematica di esserlo (dipendente) o non esserlo. Il soggetto desidera essere indipendente, ma c’è qualcosa di più forte di lui che lo… blocca.

Questa dipendenza è legata all’identità poiché un soggetto dipendente è uno che non ha avuto la possibilità di-superare l’identificazione e raggiungere quindi la sua identità. Il dipendente si identifica facilmente e l’identificazione è sempre quella con la figura materna, mentre con l’identità si raggiunge l’Io individuale.

Tale blocco della parte superiore del torace (sempre 3. livello) beneficia in vegetoterapia degli acting delle braccia e, poiché il torace inferiore (4. livello) è condizionato al diaframma (5. livello) è evidente che la nevrosi depressiva si evidenzia insieme a manifestazioni ansiose. Abbiamo, cioè, la depressione ansiosa, in tal caso è l’irrigidimento del collo (blocco) per il tentativo narcisistico di superare l’ambivalenza che comporta la partecipazione diaframmatica legata all’ansia e al masochismo: il soggetto è lamentoso, si ritiene incapace, sfortunato, ecc.

Un quarto tipo di depressione è quello legato a un blocco predominante del 7. livello (il bacino) insieme a residui di oralità insoddisfatta: è dovuto all’impossibilità da parte del soggetto di procurarsi o ricevere una ben soddisfacente gratificazione paragonabile all’equivalente del pia cere sessuale genitale. Tale impossibilità produce come reazione una manifestazione depressiva di tipo reattivo.

Si tratta di “disturbi” convergenti per cui, una volta che l’elemento esogeno è stato superato o eliminato, il soggetto ritrova la sua vitalità, anche se ulteriori frustrazioni potranno di nuovo temporaneamente “deprimerlo”.

Si potrebbe definire, allora, la depressione reattiva meglio come depressione isterica. E l’isteria, per le donne e per gli uomini, come diceva Reich, è l’anticamera della genitalità !

In tali casi vi è sempre una “componente” diaframmatici di masochismo, il che spiega le ricadute come coazione a ripetere.

Questo breve panorama della depressione interpretata in chiave reichiana, ci mette in condizione di poter fare a meno di una classificazione nosografica rigida e ancor più ci spiega perchè in psichiatria “certi” psicofarmaci aiutano solo “certi” depressi e non altri, ciò significa che “energeticamente” influenzano solo certi livelli, ma dal momento che ogni livello ha un substrato emotivo è ovvio che se il soggetto non ha avuto la possibilità terapeutica di esprimere le abreazioni, le ricadute saranno inevitabili.