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I consigli per correre ai ripari se lo stress da lavoro ha superato il livello di guardia

Una stanchezza che non va mai via. Un aumento dell’ansia oltre la soglia di guardia. L’assenza di motivazioni e anche di tempo da dedicare a se stessi. E il pensiero ricorrente, che non sfuma nemmeno quando si è in vacanza: quello del ritorno tra i corridoi dell’ufficio e delle responsabilità a cui si è costretti.
Di fronte a questi campanelli d’allarme, una volta esclusa la presenza di altre malattie, un medico è oggi autorizzato a mettere nero su bianco il nome eloquente di una sindrome sempre più diffusa: il «burnout». Essere colpiti da stress da lavoro d’ora in avanti non sarà più materia esclusiva dei giudici del lavoro. L’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha infatti sdoganato quello che viene definito come «un fenomeno occupazionale per il quale si può cercare una cura, pur non trattandosi di una condizione medica».

L’Oms definisce lo stress da lavoro «una sindrome concettualizzata come conseguenza di stress cronico sul posto di lavoro non gestito con successo». Sono tre le caratteristiche-chiave individuate dagli studiosi: «Senso di esaurimento o debolezza energetica, aumento dell’isolamento dal proprio lavoro con sentimenti di negativismo o cinismo e, infine, ridotta efficacia professionale». Il «burnout», quindi, è una realtà molto specifica: si riferisce – secondo la classificazione dell’Oms – proprio a una serie di fenomeni legati al «contesto occupazionale» e non dev’essere confusa con esperienze simili, ma scatenate da altri ambiti della vita.

Le motivazioni. Il primo ad occuparsi di questo problema, nel 1974, fu lo psicologo Herbert Freudenberger. La sua esperienza si riferiva principalmente a professioni cosiddette «di aiuto» (come quelle di infermieri e medici) e si estese nel tempo a tutti coloro che vivevano a contatto con il disagio altrui. Poi, anno dopo anno, se n’è parlato sempre di più come un fenomeno sociale in crescita. Ma al momento non ci sono ancora dati definitivi sull’estensione del fenomeno.

«La velocità con cui si opera oggi è sicuramente un fattore di rischio, ma non credo che andare in miniera agli inizi del ‘900 fosse piacevole», morde il freno Cristina Colombo, responsabile del centro dei disturbi dell’umore dell’ospedale San Raffaele di Milano. «I ritmi odierni portano le persone più responsabili ad avvertire la percezione di lavorare male. Questo disagio può determinare l’instaurarsi di uno stato d’ansia cronico che, se protratto a lungo, porta anche all’esaurimento delle proprie risorse». Accade, così, di sentirsi svuotati, privi di energie e schiacciati dagli impegni. Non è in gioco solo il sovraccarico di responsabilità: il «burnout» può dipendere dall’insoddisfazione sempre più marcata nei confronti del proprio lavoro. «Il termine, infatti, non indica soltanto una situazione dovuta all’eccesso di lavoro, ma anche alla sensazione che la propria attività non abbia una vera utilità».

I segnali. Che qualcosa non vada, in genere, è il corpo a evidenziarlo, prima che la mente. Sentirsi prosciugati, soffrire di nausea, non riuscire a dormire e a superare banali malattie come il raffreddore, percepirsi come sempre in affanno: a fronte di questi campanelli d’allarme è possibile che si sia già alle prese con la condizione estrema inquadrata dalla comunità scientifica. Prima che sia troppo tardi è dunque necessario correre ai ripari. Già, ma come?

Un «vademecum» valido per chiunque, e per tutti i casi, non esiste. Di sicuro occorre parlarne: prima con chi ci è accanto tutti i giorni, dai famigliari ai colleghi di lavoro, poi, eventualmente, anche con uno specialista. La risposta non è da ricercare nei farmaci, bensì in un cambio di strategia che ci porti a ricordare che la vita non è fatta soltanto di lavoro. «Occorre riscoprire tutte quelle piccole cose sacrificate per troppo tempo, ma che in realtà ci possono indurre un piacere autentico». Che si tratti di un viaggio o di un’attività sportiva, di una rimpatriata con gli amici o di un po’ di tempo da dedicare alla casa o a un hobby, ciò che conta è sempre lo stesso risultato: riuscire a staccare con il lavoro e a liberare davvero la mente. L’importante è procedere a piccoli passi, senza porsi obiettivi eccessivamente ambiziosi. E a maggior ragione se è stata proprio una lunga lista di «cose da fare» a farci esplodere e provocare un senso di esaurimento delle proprie energie, fisiche e mentali.

Cambiare occupazione è la soluzione più estrema: talvolta necessaria, ma oggi non sempre possibile. Se però non si possono fare le valigie, può essere utile quanto meno «chiedere di cambiare mansioni, almeno per un periodo limitato». Il telelavoro? Anche questo può rappresentare un’opportunità, ma occupare lo stesso ruolo semplicemente lavorando da casa non sempre rappresenta una soluzione definitiva.

A rischio. La fatica accomuna sempre chi lavora, ma «a fare la differenza sono la soddisfazione e il riconoscimento del proprio ruolo – prosegue l’esperta -. Non è un caso che una delle categorie più a rischio, oggi, sia quella degli insegnanti». Più esposti all’esaurimento professionale – le donne risultano più colpite rispetto agli uomini – sono, comunque, tutti coloro che sono coinvolti in situazioni di emergenza o che lavorano in «contesti di aiuto» o in quelli sociali. Si tratta, da una parte, di medici, infermieri, poliziotti e vigili del fuoco e, dall’altra, di educatori, assistenti sociali, «caregiver».

Senza dimenticare che lo stress aumenta sia nelle professioni più performanti (dagli avvocati ai broker) sia in quelle – spiega l’Oms – dove si sommano elementi diversi, ma ugualmente a rischio: dalla insufficiente comunicazione alla limitata partecipazione nei processi decisionali, dallo scarso potere di controllo sul proprio settore di lavoro all’inadeguato livello di supporto da parte dei capi, fino agli orari sempre, e comunque, inflessibili e a compiti e obiettivi poco chiari, che generano confusione e conflitti.

E «last but not least» l’ombra delle molestie psicologiche e delle diffuse pratiche di mobbing.

Fabio Di Todaro

La Stampa TuttoSalute 11.6.19

Grazie, signora Anneliese!

Lo sviluppo sostenibile non è una trovata degli economisti, perché la signora Anneliese, donna parsimoniosa ma non taccagna, lo pratica con solerzia e del tutto inconsapevolmente da quando era bambina.

Me ne ha mostrato la tangibile utilità durante un soggiorno in montagna,  una valle alpina ove è ancora possibile stare in contatto profondo con la natura e le persone.

Nella vita di tutti i giorni, segue una forma di “responsabilità sociale” che nella sua semplicità mostra alcuni comportamenti molto consonanti con lo spirito dell’economia ecologica.

Ad esempio, soddisfare i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future a rispondere ai loro; agire in modo che gli effetti della propria azione siano compatibili con il manifestarsi di una vita autenticamente umana sulla terra. Che, d’altra parte rappresenta anche l’applicazione pratica del principio di responsabilità del filosofo Hans Jonas.

La signora economizza l’acqua. Preferisce fare una rapida doccia al posto del bagno, chiude l’acqua del rubinetto quando si lava i denti o le mani, è riuscita addirittura a fare installare dei riduttori di flusso per limitare il consumo; ha infilato nella cassetta dello scarico una bottiglia piena di sabbia, così può risparmiare un litro di acqua ad ogni rilascio.

Risparmia energia. Mette in funzione la lavatrice e la lavapiatti soltanto quanto sono a pieno carico, oppure quando è il caso, utilizza il programma. Sbrina il frigo periodicamente per evitare un consumo maggiore; usa gli apparecchi elettrici solo per il tempo necessario, misura con pignoleria la temperatura delle sue stanze, utilizza lampade a basso consumo. Utilizza al massimo la luce naturale; le sue attività di solito passano vicino la finestra della cucina, del soggiorno (quando ricama); sogna una casa costruita secondo i canoni del “naturale”, con materiali e sistemi di illuminazione e riscaldamento che rispettino l’ambiente circostante.

Esegue la raccolta differenziata. Seleziona con meticolosità gli scarti degli usi domestici (piccoli imballaggi, bottiglie di plastica, vetro, carta, metalli vari) tenendo conto dei suggerimenti dati dalla pubblica amministrazione e, se la raccolta diversificata non ha un deposito proprio vicino alla sua casa, prende le sue raccolte e le trasporta nella “discarica” più vicina. Sta molto attenta anche a tenere da parte i resti dei prodotti chimici che usa per il suo bricolage e l’olio utilizzato per le sue ottime fritture. Mi ha riferito che un litro di olio può ricoprire una superfici d’acqua di circa mille metri quadrati, impedendo la ossigenazione della flora e della fauna del lago. Porta nel contenitore della farmacia i medicinali inutilizzati e quelli scaduti.

Ha un rispetto religioso della quiete. E’ stata molto scrupolosa a garantire una ottima qualità acustica nel suo appartamento, usando con molto garbo tende di vario colore, in accordo con i pavimenti in legno e i quadri alle pareti. Ha posto i feltrini sotto le sedie e le poltrone provvedendo anche a porre dei tappetini antivibrazioni sotto gli elettrodomestici. In quella casa si può parlare tranquillamente a voce bassa anche quando c’è un disco che sta suonando.

Una volta mi è capitato di accompagnarla a fare la spesa e mi ha lasciato portare il cesto di vimini che usa d’abitudine, evita borse di plastica e soprattutto non ama l’accumulo di sacchetti. Sceglie con cura i prodotti, leggendo attentamente le etichette, acquista solamente prodotti biologici o biodinamici; mi dice che il maggior costo lo sente come un ottimo investimento per la sua salute e quella della sua famiglia. Sta molto attenta alla qualità degli alimenti ed evita di acquistare prodotti freschi che non siano stati coltivati nella sua zona. Per i prodotti di uso domestico e per la cura della persona preferisce evitare gli “usa e getta” ed è pronta a dirmi quanto sia importante mantenere questo comportamento.

Ha piantato dei nuovi alberi nel suo giardino, due peri e un ciliegio che faranno compagnia alle altre piante ed arbusti da frutto; dice che così potrà contribuire anche lei alla lotta contro l’effetto serra. Allo stesso tempo, e del tutto inconsapevolmente, perpetua una abitudine dei contadini di un tempo, che piantavano nuovi alberi di ulivo e di fico di cui non avrebbero mai visto i frutti, ma lo facevano pensando alle generazione future, e ciò senza esservi tenuti da alcuna legge, ma semplicemente perché i loro genitori, i loro nonni e tutti quelli che li avevano preceduti avevano fatto lo stesso.

Innaffia il giardino la sera quando la evaporazione dell’acqua è ridotta; mi spiega con una certa enfasi che in questo modo riesce ad economizzare sull’uso, in media di circa il 50%, ottenendo gli stessi risultati.

Utilizza tutta una serie di piccoli trucchi: il rilascio goccia a goccia, il recupero delle acque piovane; mantiene sotto le piante e le siepi uno strato di erba secca oppure una pacciamatura di frammenti di legno, per mantenere l’umidità al suolo. Utilizza esclusivamente prodotti naturali per la manutenzione del terreno. Il concime è fornito dal “cumulo biodinamico” un ingegnoso sistema che permette di compostare i rifiuti umidi della casa e le parti verdi che durante la manutenzione del giardino vengono rimosse. Evita di utilizzare pesticidi o concimi inorganici perché sono dannosi per la salute e allo stesso tempo contribuiscono all’inquinamento della falda acquifera. Per combattere i parassiti utilizza delle piante odorose che li allontanano, cipolla, aglio, basilico, ed altre essenze aromatiche. Ma anche frammenti di sigarette, con le quali prepara un’acqua speciale da spargere sulle foglie, oppure la cenere del suo camino.

Non bisogna giudicare troppo unilateralmente la mia amica. I più frettolosi penserebbero a una simpatica ingenua piena di tic o di manie, amante della natura e tutta immersa in una atmosfera new age. Si tratta invece di una signora di sessantaquattro anni, professionista affermata con autorevole studio professionale di consulenza aziendale in città, donna di nerbo e notevole competenza in campo. I suoi collaboratori, tutti amici rispettosi delle sue qualità, talvolta la prendono bonariamente un po’ in giro per queste sue abitudini; alcune volte mi associo a loro con molto affetto. Il suo stile impronta anche l’ufficio.

La carta utilizzata per una stampa che non è più necessaria, viene riutilizzata come fogli per appunti oppure per stampe da utilizzare nel lavoro di routine; raccolta differenziata per rifiuti dell’ufficio che vengono così riciclati: carta, cartucce per le stampanti, contenitori di cartone, ecc. Attenzione al consumo superfluo della energia elettrica perché, lei dice, gli uffici sono i luoghi dove è più facile sprecare energia. Utilizzo intelligente e funzionale della luce del giorno; le scrivanie sono strategicamente poste vicino le grandi finestre delle stanze.

Spesso, quando non vi sono impegni particolari, si raggiunge il lavoro prendendo una unica autovettura, quella della signora che passa a raccogliere gli altri ad un’ora stabilita; tutti sentono l’impegno di evitare inutili sprechi e soprattutto di contribuire a diminuire i danni dovuti al traffico automobilistico.

Dulcis in fundo, ciascuno dei professionisti e praticanti dell’ufficio, sono chiamati a rispettare alcune elementari regole di vita comune che essi stessi hanno stabilito e che rappresentano un riferimento di vita comunitaria e di deontologia professionale. In ciascuna stanza esse stanno in bella vista sulla parete di fronte al tavolo di lavoro.

Certo, per salvare il pianeta e assicurare un futuro accettabile ai nostri figli, occorrerebbero decisioni molto più importanti …. Ma l’esempio di una signora che ci aiuta a riflettere su questi problemi è comunque molto incoraggiante.

Grazie, signora Anneliese!

Steven Pinker “Niente paura siamo illuministi”

Lo psicologo di Harvard, celebre per le sue analisi anti-apocalittiche sulla nostra epoca, ci racconta perché a suo giudizio, e al contrario di quanto vogliono far credere i populisti, la ragione e il progresso prevalgono ancora

 

Osa sapere, esortava Immanuel Kant, riprendendo un’esortazione di Orazio per farne il motto dell’illuminismo. «Il coraggio di usare la propria intelligenza», come lo definiva il filosofo di Königsberg, sarebbe prezioso di fronte al ritorno dell’irrazionalismo, per contrastare richiami populisti e paranoie antiscientifiche. Ma lo spirito dei lumi può essere ancora attuale, se deve convincere non più un sovrano, ma i popoli? Secondo Steven Pinker, psicologo cognitivo e linguista, la risposta è più che mai positiva. Il progresso dell’umanità è tangibile, ribadisce lo studioso canadese-americano nel suo Illuminismo adesso, che esce ora per Mondadori. Si deduce dai dati, dalle tendenze, dalle cifre: per vederlo basta guardare ai problemi dell’esistenza con un approccio “illuminato”, senza farsi abbagliare dalle paure amplificate dai populisti.

Il suo libro esce in Italia proprio mentre il nostro Paese, come altri, attraversa un periodo di allerta generale sui pericoli del populismo. Pensa che l’illuminismo possa essere la terapia reale contro la ripresa dell’irrazionalismo?

«Io non ho scritto il libro come terapia; l’ho scritto per chi si preoccupa di questi temi: intellettuali, editorialisti, politici, e naturalmente i lettori del giornale. Vorrei dimostrare che ci sono buone ragioni per le quali dovremmo abbracciare la ragione, la scienza e l’umanesimo, in primo luogo i progressi compiuti dall’Illuminismo. Non sono un propagandista, o un diffusore di meme virali, o uno stratega politico. Ma è importante che chi cerca di combattere le tendenze irrazionaliste sappia perché lo fa».

Senza l’approccio della ragione, lei ricorda, l’individuo è sempre tentato di credere che la sua vita sia influenzata da forze al di fuori della sua comprensione. Ma questa percezione può nascere anche da fattori, come l’economia globalizzata, che possono sembrare incomprensibili.
L’illuminismo può essere un aiuto contro le spiegazioni dei populisti?

«Non penso che le persone abbiano difficoltà a capire che il proprio lavoro sia svalutato dalla concorrenza di Paesi più poveri, come il Bangladesh o la Cina (anche se non possono controllare questo sviluppo, ma in nessuna era hanno potuto controllare le tendenze dell’economia). Ma è importante tenere a mente che i partiti populisti (quanto meno negli Usa) non sono sostenuti dalle fasce più povere della popolazione. Molti elettori dei partiti populisti stanno bene economicamente. La gente non reagisce alle proprie condizioni di vita, ma alla propria comprensione delle condizioni altrui: la maggior parte è piuttosto soddisfatta della propria vita, ma è convinta che tutti gli altri siano infelici».

La definizione di progresso è spesso collegata all’evoluzione della tecnologia. Ma questa non basta. Le macchine non sono persone, né i gadget né le stesse apparecchiature mediche sono sufficienti per un avanzamento “umano” reale.
Secondo lei, l’uomo è avanzato di pari passo con la tecnologia?

«L’evoluzione tecnologica contribuisce al progresso quando offre alle persone una vita più felice, più sana, più ricca. Così le ecografie che salvano i bambini, vaccini e antibiotici e antisettici che salvano vite, lampadine che permettono alla gente di leggere, stampanti che gli permettono di condividere la parola scritta, biciclette che gli permettono di muoversi, varietà vegetali che evitano le carestie.
Tutte queste sono forme di progresso, non perché la tecnologia sia sofisticata di per sé stessa, ma perché permette alla gente di vivere una vita migliore».

Lei scrive che il metodo della ragione non va discusso. Difficile dissentire.
Ma quale può essere il ruolo della religione? Non è facile convincere a coltivare le incertezze chi si aggrappa alla fede, che sia la consolazione intima o il dogma della jihad violenta.

«Va bene che la religione faccia parte della vita, nel senso di rituali, comunità, parabole, simbolismo, fin tanto che non conduce a convinzioni sbagliate, come quella secondo cui con la preghiera curi le malattie, o che Dio non permetterà il cambiamento climatico. Io non ho una ricetta, un algoritmo o una formula che possa forzare le persone più testarde della Terra a cambiare le loro convinzioni, non è questo lo scopo di chi scrive un libro. Ma ho argomenti per chi i libri li legge: che l’universo segue le leggi della scienza, non i miracoli. Che la moralità viene dalla promozione del benessere umano, non dai comandamenti divini. Che se tu credi in qualcosa come un dogma religioso, non puoi aspettarti che ci credano tutti. E che la jihad violenta conduce solo a violenza contro i jihadisti».

Se la scienza è la risposta, come ci si comporta quando se ne scoprono i limiti? La religione, per definizione, non ha limiti nella sua capacità di spiegare il mondo.

«Nessuno dice che la scienza sia la risposta a tutte le domande: non può rispondere alle domande sulla logica, o sulla morale, anche se per la morale è rilevante nel dirci che cosa può migliorare la salute e il benessere. Non credo che la religione non abbia limiti a spiegare il mondo: i limiti sono evidenti.
Molte delle asserzioni fattuali nella Bibbia – per esempio l’età della terra – sono sbagliate, perché basate su un dogma arcaico, non sul tentativo di spiegare il mondo e verificare le spiegazioni».

Giampaolo Cadalanu, Repubblica 18.12.18

Il capitale tempo

La nostra quotidianità è un formicolio di eventi, di persone e di luoghi. Talvolta diciamo che viviamo nell’istante (hic et nunc), che vogliamo unicamente vivere nell’istante (in tempo reale). Tuttavia diventiamo subito ansiosi se non sappiamo che cosa faremo nell’arco di un mese o addirittura di una settimana.

Sul piano individuale si tratta probabilmente di un problema di buone pratiche. Molti utilizzano con criterio le nuove tecnologie per guadagnare tempo, informarsi, apprendere, riflettere, imparare a far fronte ai rischi che costellano la vita delle persone e delle aziende. Ma ancora in tanti confondono la velocità o il non perdere tempo con la efficienza e l’efficacia delle loro azioni. Tutti vorrebbero ottimizzare il loro capitale-tempo. Nondimeno è importante a questo punto affrontare il problema da un duplice punto di vista: quello della persona, in termini di organizzazione personale ed efficacia delle proprie azioni e quello della gestione e dell’organizzazione del lavoro che svolgiamo insieme ad altri e per gli altri. Impegnandosi a riflettere sui processi di cambiamento, individuare i problemi, delineare le soluzioni e prendere adeguate decisioni. Ottimizzando il tempo anche grazie alle nuove tecnologie e ai suggerimenti pratici e tecnici che i consulenti esperti di time management possono fornire.

Il tempo non può dilatarsi e spesso ci si ficca in un programma sovraccaricati di impegno, senza fiato, con il timore di poter portare a termine solo la metà del lavoro previsto.

Di fronte alla concorrenza sfrenata, le aziende contano molto sulle risorse dei loro manager e di conseguenza li tengono sotto pressione. Essi lavorano sempre di più, fanno tardi la sera e rientrano a casa con un po’ di lavoro ancora da sbrigare; la situazione spesso è simile anche nei weekend. Tuttavia, ahimè, questo super lavoro non risulta efficace, anzi. Essendo sotto pressione, il manager ha la tendenza a privilegiare le cose urgenti piuttosto che quelle importanti, lasciandosi sedurre dai “predatori di tempo” e, in fin dei conti, lasciando lo stress professionale invadere la loro vita privata e colpire la loro salute. Ma in tutto questo non vi è fatalità, esistono principi, tecniche e trucchi per fare fronte a tali incongruenze e vivere meglio, anche quando si è sotto pressione.

Le persone che si dicono sovraccariche di impegni, probabilmente utilizzano in modo non opportuno il tempo di cui dispongono, sia perché esse passano troppo tempo al telefono, oppure a discutere con i colleghi o ancora a svolgere compiti che potrebbero tranquillamente delegare ad altri. Tuttavia è possibile riprendere il controllo della situazione e apportare dei cambiamenti al proprio comportamento. Perché, oltre una migliore capacità di gestire il tempo, si tratta di rendersi consapevoli delle proprie capacità, delle modalità in cui agiamo per adattarle alla situazione e riuscire ad essere padroni del proprio tempo. Attivando così uno dei maggiori fattori di successo personale e professionale.

PS
Ho ritrovato su alcune vecchie agende delle annotazioni che trovo ancora interessanti; brevi riflessioni, credo non banali rispetto al tempo in cui le ho scritte. Si tratta di idee e spunti che ho utilizzato per i miei interventi.
Ne ho scelto cinquantadue, risalenti agli anni 2002, 2003 e 2004, con l’intenzione di proporre un motivo di ispirazione settimanale per il corso dell’anno.
Questa è la n. 52: il capitale tempo (2004)


Come può un manager garantirsi il successo?

È sempre pressante la necessità di dotarsi di un sapere più particolareggiato sul “fattore umano”, per comprendere meglio i sentimenti, gli stati d’animo, le reazioni e i comportamenti. Soprattutto in termini di opportunità di lettura, di messa a fuoco; necessaria per trovare il bandolo della matassa e avviare un processo di crescita; anche in quei casi in cui, larvate o manifeste, sono presenti dinamiche conflittuali.

Sviluppare capacità collaborative non è facile e tantomeno alla portata di ognuno. I manager tuttavia (e, “in ogni caso”) sono chiamati a essere all’altezza del compito, perché tale sviluppo è uno dei punti cardine delle loro capacità. Ovvio pertanto che dalla qualità del management dipenderà in gran parte il successo o l’insuccesso dell’organizzazione.

È necessario perciò ascoltare. Fare un uso intelligente delle competenze dei collaboratori e prendere in considerazione (facendolo emergere anche da loro) ciò che è utile per l’azienda; interessando in modo più incisivo le persone al processo collettivo. Perché, dal momento in cui si da la parola ai nostri collaboratori e in cui si prendono in considerazione le loro conoscenze, la qualità delle decisioni che vengono prese da noi è naturalmente più vantaggiosa.

Inoltre, se le persone sono coinvolte nella ricerca di soluzioni, esse saranno anche più motivate a metterle in pratica. E in genere fanno di tutto perché la cosa vada in porto, anche se in partenza esse potrebbero trovarsi in difficoltà.

Come può un manager garantirsi il successo?

Se proviamo a metterci nei panni di chi è chiamato a navigare in quelle acque, è facile vivere un senso di un iniziale smarrimento. In quanto diventa necessario per il “capo” essere consapevole delle proprie capacità. Farle emergere e canalizzarle, saper gestire le proprie difficoltà e diventare cosciente del loro funzionamento, per aumentare la propria lucidità, per cambiare il proprio modo (legittimamente soggettivo) di vedere gli altri e le proprie relazioni.

Bisogna apprendere a osservare con obiettività la propria situazione per rafforzare la efficacia delle proprie azioni e i relativi margini di manovra. E’ necessario formare con più adeguatezza le nostre competenze non tecniche, proprio quelle che di solito consideriamo marginali.

Sarebbe pertanto opportuno acquisire tali competenze (quelle che in altro modo vengono definite “soft skill”) e impegnarle per incentivare un’ecologia del lavoro e delle relazioni umane a tutto vantaggio delle aziende, dei loro clienti e, naturalmente, di chi vi lavora.

Abbiamo così la possibilità di scoprire che si può essere contenti di lavorare e allo stesso tempo trarre soddisfazione da ciò che si sta facendo. Insomma, possiamo realizzare le condizioni per stare bene al lavoro e per fare bene.

Con un vantaggio per le persone e le loro relazioni; ma, pure, un’opportunità, in termini di valore aggiunto, per le aziende.

PS
Ho ritrovato su alcune vecchie agende delle annotazioni che trovo ancora interessanti; brevi riflessioni, credo non banali rispetto al tempo in cui le ho scritte. Si tratta di idee e spunti che ho utilizzato per i miei interventi.
Ne ho scelto cinquantadue, risalenti agli anni 2002, 2003 e 2004, con l’intenzione di proporre un motivo di ispirazione settimanale per il corso dell’anno.
Questa è la n. 51: Come può un manager garantirsi il successo? (2003)