Sulle ali della poesia. Opportunità d’uscita in due episodi panici

Sulle ali della poesia. Opportunità d’uscita in due episodi panici

A volte mi faccio aiutare dalla poesia. Di solito in momenti particolarmente “critici”, in cui le parole, il pensiero logico, le considerazioni improntate alla ristrutturazione cognitiva, mostrano un loro limite, una loro debolezza. Quando, ad esempio, occorre legittimare ed attualizzare esperienze molto angosciose; come quelle situazioni in cui i vissuti ansiosi salgono dal basso, simili a un’onda che minaccia di offuscare la coscienza. Quando si sta male, ci si sente “ciechi” e “sordi” dalla paura ed allo stesso tempo non si riesce a mantenere un rapporto cosciente con la realtà.

Allora faccio appello alla Bellezza della parola e cerco di utilizzare il mio modesto bagaglio di letture; per rintracciarvi ricordi, impressioni, ritmi, colori, “magie”, così come spesso mi vengono incontro dalla Poesia e dal mondo della Fiaba.

Cito un caso. Riguarda Simone, una persona alla quale, per ragioni di opportunità, attribuisco un nome di fantasia. E’ un uomo che da molti anni convive con attacchi di panico molto intensi e allo stesso tempo ha problemi cardio-circolatori importanti. Ricordo che, prima della scorsa estate, in occasione di un nostro incontro, era preoccupato per la sua salute e soprattutto per la prospettiva di un intervento chirurgico ormai improcrastinabile. Era da poco entrato nel mio studio, forse erano trascorsi dieci minuti, quando avvertì una forte ansia che ben presto si trasformò nella necessità di interrompere l’incontro: si sentiva troppo “agitato” e capiva che doveva uscire dalla stanza, per tornare a casa prima che un attacco di panico prendesse il sopravvento.

Ritenni opportuno, in quella occasione, assecondare questa sua esigenza e allo stesso tempo “attualizzare” il suo potere personale; comunicandogli implicitamente, con il mio incoraggiamento a realizzare quel suo proposito, la mia completa accettazione e la fiducia nelle sue capacità di riuscire a gestire la situazione. Così Simone uscì dalla mia porta e, visibilmente scosso, prese la via di casa.

Poco dopo, inviai un sms per fargli sentire la mia vicinanza, aggiungendo alcuni versi della “Cantata XVI” di Pietro Metastasio, conosciuta anche come “Amor Timido”.

Che vuoi mio cor? Chi desta / in te questi fin ora / tumulti ignoti? Or ti dilati, e angusto / il sen non basta a contenerti appieno; / or ti restringi, e non ti trovo in seno. / Or geli, or ardi, or provi / mirabilmente uniti / delle fiamme e del gel gli effetti estremi. / Ma che vuoi? Peni, o godi? Ardisci o temi? …

Non ebbi alcuna risposta e passò molto tempo prima di ricevere sue notizie. Dopo circa un mese, con un messaggio e subito dopo  al telefono, mi raccontò che aveva molto apprezzato quanto avevo scritto. Si era sentito incoraggiato a entrare più in contatto con il suo cuore e affrontare con maggiore fiducia l’evento della visita di controllo e del ricovero in ospedale. Era ormai stato operato ed aveva iniziato il periodo di riabilitazione previsto. Ci saremmo incontrati subito dopo.

Nel momento in cui ci vedemmo, lo trovai più disteso e soddisfatto, si sentiva contento di aver saputo affrontare gli eventi. Mi ringraziò per quelle poche righe che, secondo lui, erano state capaci di dare voce a ciò che il suo cuore faceva fatica ad esprimere, dicendomi “come se il cuore fosse nato a nuova vita”. Volli ringraziarlo anch’io perchè, a partire da quella sua percezione e con il suo aiuto, avremmo potuto chiedere al suo cuore se avesse avuto voglia di parlare ancora attraverso la sua voce. Fu l’inizio di una nuova vita anche per il nostro lavoro.

Non ero nuovo agli effetti provvidenziali della poesia, ma in quell’occasione rimasi veramente estasiato. Capitò più o meno così anche con Rita, una mia paziente di fronte ad una difficoltà oggettiva che analizzammo da numerosi punti di vista; stentava a prendere un’iniziativa che era pure in grado di realizzare con le sue sole capacità. Rimaneva ferma a considerare il rovescio della medaglia, esprimendo con ciò una necessità  interiore di avere sotto controllo la situazione; incontrando quindi molte difficoltà a intravvedere la medaglia del rovescio. Un atteggiamento abbastanza comune nelle persone con disturbi di panico, le quali spesso presentano tratti di personalità che fanno pensare a una struttura di carattere rigida piuttosto che flessibile; sono poco propense a confrontarsi con la possibilità di un cambiamento e ancora meno disposte ad accogliere l’imprevisto; stanno male nella situazione in cui si trovano ma hanno difficoltà a trovare una via di uscita.

In quel caso, un motivo di soddisfazione arrivò dall’aiuto di una poesia di Giovanni Pascoli, attraverso la quale volli indirizzarle un messaggio che lei non avrebbe accettato se fosse stato direttamente espresso da me. Nel corso di un nostro incontro, dopo averglielo chiesto, lessi per lei Foglie morte, rimanendo d’accordo che non sarebbe stato necessario parlarne subito.

Oh! che già il vento volta / e porta via le pioggie! / Dentro la quercia folta / ruma le foglie roggie / che si staccano, e fru . . .  / partono; un branco ad ogni / soffio che l’avviluppi. / Par che la quercia sogni / ora, gemendo, i gruppi / del novembre che / fu.

Volano come uccelli, / morte nel bel sereno: / picchiano nei ramelli / del roseo pesco, pieno / de’ suoi cuccoli già. / E il roseo pesco oscilla / pieno di morte foglie: / quale s’appende e prilla, / quale da lui si toglie / con un sibilo, e va.

Ma quelle foglie morte / che il vento, come roccia, / spazza, non già di morte / parlano ai fiori in boccia, / ma sussurrano – Orsù! / Dentro ogni cocco all’uscio / vedo dei gialli ugnoli: / tu che costì nel guscio / di più covar ti duoli, / che ti pèriti più?

Fuori le aluccie pure, / tu che costì sei vivo! / Il vento ruglia . . . eppure

esso non è cattivo. / Ruglia, brontola: ma / contende a noi! Chè tutto / vuol che sia mondo l’orto / pei nuovi fiori, e il brutto, / il secco, il vecchio, il morto, / vuol che netti di qua.

Noi c’indugiammo dove / nascemmo, un po’, ma era / per ricoprir le nuove / gemme di primavera … / Così dicono, e fru … / partono, ad un rabbuffo / più stridulo e più forte. / E tra un voletto e un tuffo / vanno le foglie morte, / e non tornano più.

Le chiesi di portare con se  l’atmosfera interiore che quei versi avevano generato, rimanendo d’accordo di riparlarne durante l’incontro successivo.

Quando la incontrai, volle subito descrivermi le sensazioni che ancora vivevano in lei e gli stimoli ricevuti; “come si fosse risvegliata da un lungo torpore”. Sapeva che sarebbe stato faticoso, ma il segnale che aveva colto era stato chiaro. Occorreva uscire dal guscio, e accettare la sfida della continua trasformazione del mondo e delle esigenze della propria individualità. Era necessario rinascere, tenendo conto che se non è difficile incontrare il proprio limite, non è altrettanto difficile o “incomprensibile” trovarsi tra le mani le opportunità per venirne fuori.

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