Se vince il modello americano

Se vince il modello americano

Trovo molto interessante e stimolante quanto scrive Daniele Tissone sull’ultimo numero di Rassegna Sindacale. Lo trascrivo perché è giusto riflettere su questi argomenti. Per capire meglio.

A capirlo per prima dovrebbe essere la politica, che dimostra ogni giorno di più di non conoscere quell’organismo delicato preposto alla sicurezza dei cittadini, il suo capitale umano, la psicologia delle sue donne e dei suoi uomini.

 

 

Probabilmente gli avvenimenti di Ferguson, Missouri, dove lo scorso mese di agosto l’uccisione di un diciottenne da parte della polizia locale ha causato diverse giornate di protesta, è la spia di un fenomeno molto più ampio e diffuso in tutti gli Stati Uniti e riguarda la crescente militarizzazione delle forze dell’ordine di quel paese.

In “Rise of the warrior cop” (La nascita del poliziotto guerriero), Radley Banko parla di un fenomeno che negli ultimi anni sta causando negli Usa grande dibattito: uno degli argomenti è la formazione di squadre speciali – le Swat – anche nei centri abitati che sono poco più di paesini, questione che ha fatto riemergere la retorica, vecchia di decenni, che la lotta contro il crimine sia una “guerra”, e che dunque vada gestita e combattuta come tale, anche se entrambi gli “schieramenti” in campo sono formati da cittadini dello stesso paese.

 

Al di là delle ingenti cifre che si spendono con la creazione di squadre di intervento, la militarizzazione delle forze di polizia negli Usa ha molti altri aspetti problematici. Le squadre Swat sono addestrate molto spesso damilitari in servizio, generalmente delle forze speciali dell’esercito.

 

“Nessuno ha preso la decisione di militarizzare la polizia in America – scrive Banko nel suo libro -. Il cambiamento è arrivato lentamente, il risultato di una generazione di politici e funzionari pubblici che hanno sventolato e sfruttato le paure diffuse dichiarando guerra ad astrazioni come il crimine, l’abuso di droga e il terrorismo. Le politiche che ne sono risultate hanno reso quelle metafore belliche sempre più reali”.

Questo è quello che accade negli States e fare oggi un paragone con il nostro paese rispetto alla situazione descritta può sembrare esagerato, ma siamo così convinti che, anche da noi e magari sulla base di alcuni dei presupposti fin qui esposti non si stia andando verso una simile direzione?

 

A questo proposito, un aspetto in particolare, che riguarda già da tempo le forze di polizia del nostro paese, preoccupa. Mi riferisco alla massiccia assunzione di personale proveniente esclusivamente dall’esercito, un ambito dal quale si prevede che nel 2020 proverrà oltre il 60 per cento del personale assunto nella Polizia di Stato, nell’arma dei Carabinieri e nella Guardia di Finanza, avendo il Parlamento varato una legge che, per oltre 20 anni, prevede l’ingresso nei corpi di Polizia di solo personale militare, spesso con esperienza presso i teatri di guerra e con già 4-5 anni di ferma volontaria alle spalle. Una lenta e graduale militarizzazione di apparati che hanno finalità ben diverse da quelle militari e che andrà, nel tempo, a modificare, inevitabilmente e sempre di più, l’intera organizzazione di quei corpi.

 

Tutto questo è un male, oltre che costituire un’anomalia del sistema, anche perché, senza demonizzarla, la provenienza militare reca con sé attitudini diverse dalla formazione di una Polizia civile come quella dell’attuale modello previsto dalla legge di riforma del 1981, che si incentra su un’autorità centrale di pubblica sicurezza con il compito di collaborare in pieno con i cittadini.

 

In relazione alle polizie locali non possiamo dimenticare come, in tempo di devolution, molte di esse – ma non in tutto il paese – si siano dotate di reparti specializzati, facendo ricorso a strumenti e mezzi in alcuni casi superiori a quelli delle forze dell’ordine nazionali. Penso a tanti comuni del Veneto o della Lombardia, ma non solo, dove abbiamo assistito a una vera e propria “metamorfosi” senza valutare mete od obiettivi e dove autoreferenzialità e ostentazione possono condurre a fenomeni incontrollabili.

 

Tutto ciò ci preoccupa non poco, perché la mission di un operatore della sicurezza deve essere cosa ben diversa dagli scenari dei teatri di guerra, nonché dal moltiplicarsi di polizie territoriali che mutano i propri obiettivi e le proprie funzioni.

E’ fuor di ogni dubbio chel’attuale scenario di crisi ha creato un vasto spazio di sofferenza, di ansia, rabbia e tensione, che si può affrontare con responsabilità e cultura riformista o che, al contrario, può rappresentare una grande opportunità di marketing della paura (dai manager della violenza di piazza alla Val di Susa, agli stadi).

 

Purtroppo, con la quasi totale assenza della politica, dimessasi da tempo dal suo ruolo di mediazione-composizione delle tensioni, le operazioni di marketing guadagnano terreno. Avvengono così due fenomeni tra la popolazione, che non percepisce le istituzioni al proprio fianco, lievita la rabbia; dal canto suo, la politica enfatizza il ricorso allo strumento di “compressione”. Salvo poi prenderne nettamente le distanze.

 

Dovrebbe essere scontato, alla luce delle nostre riflessioni e di quanto sta accadendo oltreoceano, che la Polizia avrebbe bisogno, soprattutto in questo momento, di segnali coerenti e in controtendenza con simili operazioni.

A capirlo per prima dovrebbe essere la politica, che dimostra ogni giorno di più di non conoscere quell’organismo delicato preposto alla sicurezza dei cittadini, il suo capitale umano, la psicologia delle sue donne e dei suoi uomini. I riflessi della recessione e delle tensioni su questo personale non andrebbero ulteriormente aggravati attraverso i continui blocchi contrattuali, il mancato sblocco degli automatismi, la scarsità di mezzi e tecnologie.

 

 

 

Se vince il modello americano

Daniele Tissone, segretario generale Silp-Cgil

Rassegna Sindacale, n. 32, 2014,pag. 6-7

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