L’anti-terrorismo francese: uno stato di morte clinica

L’anti-terrorismo francese: uno stato di morte clinica

La critica può essere importante, illuminante, e anche fruttuosa. Molto spesso mostra aspetti del nostro agire che rischierebbero di rimanere trascurati e incompresi. E’ ciò che accade anche per i “servizi” e la storia raccontata può rappresentare lo spunto per riflettere sulla organizzazione del lavoro informativo.

Laurent Borredon e Simon Piel, giornalisti che seguono da vicino le attività di polizia e intelligence, hanno scritto un articolo su Le Monde (28.11.2015) che a tutta prima sembra impietoso ma non lo è. 

 

 

Il sistema dell’antiterrorismo francese, a lungo considerato eccellente, è clinicamente morto. Ma nessuno, né al governo né all’opposizione, ha voglia di firmare il certificato di morte, non sapendo come sostituirlo.

Man mano che le indagini sugli attacchi del 13 novembre a Parigi e Saint-Denis procedono, le lacune sulla sorveglianza degli autori, le pessime scelte operative e la pesantezza del dispositivo antiterrorismo sono, ancora una volta, messi in evidenza . Un investigatore, ancora ossessionato dalle immagini delle stragi di Parigi Bataclan e delle terrazze parigine, si indigna: “Allora non facciamo niente? Aspettiamo che ciò accada nuovamente?”

Ciò che scandalizza, è soprattutto la totale incapacità di porsi delle domande dentro il Ministero degli Interni e il governo. “Voglio salutare ancora una volta l’eccellente lavoro dei nostri servizi di intelligence” ha ripetuto Manuel Valls, di fronte ai deputati, il 19 novembre, dopo la morte a Saint-Denis del probabile coordinatore degli attacchi, Abdelhamid Abaaoud – che tuttavia il predetto servizio di intelligence credeva in Siria

 

Sentimento d’impotenza

Il sistema attuale è nato da un periodo in cui gli attacchi sono stati molto più numerosi, gli anni ’80. L’anno 2015 segna tuttavia una rotta tanto più brutale perchè Francia – esclusa la Corsica – era stata risparmiata dal terrorismo per un lungo periodo, dal 1996 al 2012. Cento e trenta morti nel centro di Parigi, tre commando coordinati, attacchi kamikaze, e un senso di impotenza di fronte alla progressione inevitabile della violenza nota, documentata, pubblicizzata.

Dal 2012 al 2015, c’è il caso Merah – sette morti, tra cui tre bambini uccisi a sangue freddo perché ebrei a Tolosa e Montauban – ci sono le lezioni apprese dai fallimenti dell’intelligence che l’assassino ha rivelato, e in special modo l’istituzione della Direzione Generale della Sicurezza interna (DGSI) e il rafforzamento del servizio informazioni territoriali, ci sono due leggi anti-terrorismo nel 2012 e 2014. E poi c’è il massacro di Charlie Hebdo e la presa di ostaggi dell’Hyper Cacher, il 7 e 9 gennaio, e la legge sulla raccolta delle informazioni, approvata dal Parlamento nel mese di giugno.

In sostanza, nessuna di queste riforme strutturali o modifiche legislative  – delle quali alcune si sono rivelate inutili, come la creazione di un reato di “attività terroristica individuale “ – ha cambiato i due pilastri della lotta contro il terrorismo: il reato di “associazione a delinquere in relazione a un’attività terroristica” e la raccolta delle informazioni accumulate all’interno dello stesso servizio. In origine, quest’ultimo doveva  consentire alla Direzione della sorveglianza territoriale (DST), divenuta direzione centrale informazioni interne (DCRI) nel 2008 poi direzione generale per la sicurezza interna (DGSI) nel2014, di mantenere un buon flusso delle informazioni al suo interno.

 

“Queste persone non danno tregua”

Nel caso degli attentati di Parigi, la DGSI stava seguendo un certo numero di indiziati come raccolta di informazioni. A partire da Abdelhamid Abaaoud. Questo belga,che appariva in cinque dossier di progetti di attentati in Francia, è stato anche coinvolto, in Belgio, nell’animazione della cellula terroristica di Verviers, smantellata nel mese di gennaio. La DSGI aveva avviato in itinere quella che viene chiamato “inchiesta specchio” in Francia. Un team congiunto franco-belga ha lavorato bene insieme. Invano.

Samy Amimour, uno dei kamikaze del Bataclan, era incriminato dal 2012 nel quadro diun’indagine penale aperta per un progetto di jihad in Yemen. L’inchiesta è stata affidata alla DGSI. Messo in libertà vigilata, egli scomparve senza che nessuno abbia mosso un dito fino a quando i Turchi hanno segnalato il suo passaggio sul loro territorio. Il lavoro di indagine è stato svolto, in particolare con perquisizioni presso i suoi genitori. E’ stato emesso un mandato di arresto internazionale. Fino alla strage del 13.

Nel quadro del suo ruolo investigativo, la DGSI è stata anche allertata sulle minacce dirette alla Francia. Così come, Reda Hame, arrestato ai primi diagosto di ritorno dalla Siria, che assicura che lo stato islamico colpirà “bersagli facili” come ad esempio dei “concerti”. “La DGSI ha certamente, come tutto il resto, inquadrato questi elementi. Queste persone hanno una strategia predatoria, anche attraverso le minacce che lasciano trapelare. Se ci mettiamo a ragionare in termini di potenziali obiettivi degli attentati e non in termini di reti, ci si esaurirà “, si difende una fonte vicina ai servizi diintelligence.

Oggi,alcuni credono che questo risvolto investigativo abbia contribuito al tracollo della DGSI. Nei servizi territoriali, gli agenti sono versatili e si ritrovano coinvolti nell’indagare ogni arrivo siriano. Il numero dei dossier dell’anti-terrorismo è quintuplicato tra il 2013 e il 2015, da 34 a188, e il numero di indagati da dieci è arrivato a più di 230 persone. Ciò vuol dire decine di indagini, arresti, atti di procedimenti …

 

Il fantasma di un controllo esaustivo

Fare tutto, sempre … Dal 2012, a ogni attentato, la stessa osservazione – Mohamed Merah era noto ma la sua pericolosità giudicata male, la sorveglianza dei fratelli Kouachi era stata interrotta perché non sembravano più degni di nota –scatena la stessa reazione politica nel momento meno opportuno. Invece di incoraggiare i servizi a controllare di più, i ministri che si succedono perseguono il fantasma di un monitoraggio esauriente – pur ricordando che è impossibile quando il peggio accade.

Dopo gli attentati di Charlie Hebdo e Hyper Cacher, è la creazione dello stato maggiore operativo di prevenzione del terrorismo, che centralizza sotto l’autorità del ministro le informazioni dei servizi e la creazione di dossierdei segnalati per la prevenzione e la radicalizzazione a carattere terroristico, che riunisce più di 11.000 nomi. Troppo per essere utile. “Gli agenti passano ore a riempire chilometri di pagine”, si lamenta un poliziotto.

Eppure, nella discrezione, la DGSI si è data i mezzi per definire meglio gli obiettivi da controllare. Negli ultimi mesi, la cellula “Allat”, dal nome di una dea siriana pre-islamica, si occupa di obiettivi della zona tra Iraq e Siria. Gli otto principali servizi francesi riuniti in una stessa stanza. “Ognuno porta i suoi obiettivi, ciascuno porta le sue annotazioni e può connettersi ai database. Il lavoro è estremamente operativo”, spiega una fonte.

Anchela DGSE, la sorella gemella della DGSI a livello internazionale, mette dunque le mani in pasta. Essa se l’era cavata a buon mercato dalla vicenda Merah, quando aveva perso il giro afghano-pakistano dell’omicidio di Tolosa. Nel caso degli attentati di Parigi, la DGSE ha almeno fornito informazioni, ma troppo tardi per essere utilizzabili. Durante il monitoraggio di un obiettivo in Siria, il servizio ha scoperto le conversazioni con una donna in Francia. Sconosciuta fino all’inizio di novembre, quando gli agenti si sono resi conto che sitrattava di una cugina di Abdelhamid Abaaoud, Hasna Aït Boulahcen.

La DGSI viene allertata e scopre anche, tardivamente, l’esistenza della famiglia francese di un suo obiettivo numero uno. Siamo al 12 novembre, alla vigilia degli attacchi. E c’è infine un testimone, dopo gli attacchi, che metterà la polizia giudiziaria sulle tracce di Ait Hasna Boulahcen e Abdelhamid Abaaoud – ambedue morti il 18 novembre, durante l’assalto del RAID in un appartamento di St.Denis.

 

“3000agenti per 4000 obiettivi”

E’ che questo lavoro di coordinamento, dopo anni di dialogo tra la miriade di servizi francesi, non è sufficiente quando la minaccia diventa transnazionale. “Sono organizzati in Siria, finalizzano il progetto in Belgio, arrivano quasi il giorno prima a Parigi. La DGSI rimane un servizio domestico, non può fare molto da sola … “, dice una fonte del ministero dell’Interno.

Il coordinamento europeo funziona, ma anche in quel caso, non è sufficiente in quanto si concentra sulla parte superiore del paniere. Eppure, gli autori degli attentati di Parigi erano conosciuti dai servizi belgi e francesi, ma non come persone di primo piano. I fratelli Abdeslam – Brahim si è fatto saltare in Boulevard Voltaire e Salah è in fuga – sono stati individuati in Belgio, ma non come una priorità, Samy Amimour è stato considerato uno dei meno pericolosi della sua cellula yemenita. Ismaël Omar Mostefai anch’esso kamikaze al Bataclan, era ritenuto secondario per la DGSI.

“La difficoltà, riassume una fonte vicina all’intelligence, è che bisogna essere allo stesso tempo su Yassine Salhi che da oggi al domani decide di decapitare il suo capo, e su Abaaoud. Ci sono 3000 agenti per 4000 obiettivi. E ancora, a Parigi e Saint-Denis, ci sono tra gli autori dei belgi e delle persone che noi non abbiamo ancora individuato. Non abbiamo strutture che sono state pensate per un fenomeno di massa. “

“Se l’indagine permette di evidenziare limiti o mancanze, ci si adatterà”, dice uno al ministero degli Interni. La piazza Beauvau difende anche le misure spinte dalla Francia a livello europeo. Il rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne dello spazio Schengen prima di tutto, perché un certo numero di terroristi sono stati in grado di passare attraverso la strada dei migranti sotto falsa identità. E poi la creazione di un database dei passeggeri aerei (PNR) europeo, vecchio serpente di mare che può essere visto meno sotto il diretto collegamento con gli attacchi, in quanto, per l’appunto, sembra che gli autori degli attentati abbiano seguito una via terrestre.

Ma, fino ad oggi, a destra ea sinistra, nessuno vuole porre l’unica domanda che ha senso, in uno spazio di libera circolazione delle persone: occorre europeizzare la lotta contro il terrorismo?

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