C’era una volta un contadino che il giorno prima dell’aratura aveva l’abitudine di andare nei campi a caccia di vipere. A un amico che gli chiese il perché di questa caccia un po’ pericolosa, egli rispose: “Si lo riconosco, ciò che faccio sembra poco logico. Però, se oggi, che ho tempo per guardarmi attorno, non dedico tempo e fatica alla caccia ed alla eliminazione delle vipere domani, quando sarò occupato e poco attento perché impegnato ad arare, loro potrebbero mordermi ed uccidermi”.
Mi torna in mente spesso questa storiella; ancora di più in questi giorni che portano il peso di nuovi (tanti) incidenti sul lavoro.
Ogni persona che lavora realizza condizioni di sicurezza (anche attraverso l’applicazione responsabile delle proprie competenze, la disciplina, l’abitudine a seguire le regole) nello svolgimento del proprio compito. In ogni momento. Tuttavia, all’interno delle attività di lavoro la sicurezza può essere pregiudicata dalle azioni o dalle omissioni di chi è direttamente o indirettamente coinvolto nei processi organizzativi e di produzione.
Mi sembra una affermazione ricca di senso quella di un sindacalista intervistato a margine dei fatti recenti. Cambiamo approccio al tema della sicurezza: il punto di partenza dovrebbe essere il concetto di percezione del rischio; cioè, dico io, dalla capacità di assumere un atteggiamento mentale che mantenga costantemente attiva la consapevolezza della situazione nella quale siamo durante le nostre attività.
Allora, proviamo a rimettere in discussione le modalità e i contenuti della formazione.
Quale formazione?
Non certo i corsi proposti da agenzie che vivono emettendo certificazioni, senza trasmettere ai lavoratori e datori di lavoro i concetti e, soprattutto, le modalità fondamentali e i nodi critici della percezione del rischio e dell’assunzione di comportamenti sicuri.
A partire dagli errori e dagli incidenti mancati per un soffio
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