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La linea d’ombra nella continuità dell’azienda familiare

Lasciare il timone è un’impresa eroica; il senior che lo cede compie un grande sacrificio. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquisire credito e ispirare fiducia, hanno sostenuto nel tempo gli investimenti d’energie e di capitali; allo stesso tempo hanno reso la sua vita un viaggio interessante ed avventuroso. In futuro sarà tutto diverso per lui.

Chi sarà chiamato a succedergli, ancora prima di assicurare continuità all’azienda e dare inizio ad un nuovo ciclo d’espansione, dovrà attraversare la sua linea d’ombra. Si troverà da una parte a sentirsi in obbligo di garantire la continuità aziendale – perché non è certo utile ad alcuno che l’azienda perda valore – dovendo allo stesso tempo assumersene le responsabilità.

Dall’altra parte proverà sentimenti ed emozioni contrastanti come ha descritto efficacemente in una bella canzone il cantante Jovanotti (cfr. La linea d’ombra, nell’album “l’albero”).

Egli da voce ad un giovane a cui è affidato un incarico di responsabilità e per la prima volta nella vita si trova a considerare quello che lascia e a non sapere immaginare ciò che troverà.
Incaricato di portare una “nave” verso una rotta che nessuno conosce in dettaglio e in un momento di stabilità precaria, egli considera quanto è più facile stare in mare se sono gli altri a far la direzione.

Gli è stato detto “che una nave ha bisogno di un comandante, che la paga è interessante e che il carico è importante”. Il pensiero della responsabilità però è enorme.

Quella del giovane protagonista – narra la canzone – è un’età in cui si sa come si stava e non si sa dove si sta andando e che cosa si sarà. Nella quale la dimensione delle responsabilità che si hanno nei confronti degli esseri umani che ti vivono accanto non è ancora ben chiara. Un’età dove ogni mossa “può cambiare la partita intera e si ha paura di essere mangiato”.

In cui non si sa ancora cos’è il coraggio, “se prendere o mollare tutto, se scegliere la fuga o affrontare questa realtà difficile da interpretare ma bella da esplorare”.

Tuttavia, pur non potendo ancora immaginare cosa avverrà, una volta “attraversato il mare e portato questo carico importante a destinazione”, quel timoniere accetterà un compito così sfidante e dirà che è pronto a partire. Studierà le carte e quando sarà il momento dirà “levate l’ancora diritta, avanti tutta: questa è la rotta, questa è la direzione, questa è la decisione”.

Tornando al passaggio del timone aziendale, dobbiamo riconoscere che in realtà è del tutto assente, nell’agire di molte aziende familiari, la definizione di obiettivi e modalità per raggiungerli e verificarli. Appare spesso inconcepibile, per l’imprenditore che vuole cedere il comando, riflettere sulla opportunità di pianificare una successione sulla base di una ponderata valutazione della strategia aziendale, delle deleghe da assegnare, delle competenze necessarie per raggiungere quegli obiettivi.

In un modo del tutto implicito, un senior si aspetta che anche i successori, da lui immaginati identici per competenze e conoscenze, riusciranno nell’impresa così come lui è riuscito a raggiungere il successo, superando le prove e gli ostacoli insiti nel proprio percorso imprenditoriale.

Quest’implicita riflessione o, meglio, attribuzione di senso e significato, porta il senior ad organizzare per il successore o i successori delle prove di ingresso che riecheggiano quelle alle quali egli è stato sottoposto in giovane età e che ritiene “naturale” far passare anche ai successori. Nell’inconscio tentativo di guidare il destino del figlio/figli, quasi fosse il prolungamento di quello proprio e in una dinamica emotiva, già nota alla psicologia sociale dalla seconda metà del secolo scorso, che Heider (1958) aveva definito con il termine Fundamental Attribution Error.

Ciò rappresenta un elemento di criticità, in quanto pone un insieme di problemi nei rapporti interpersonali e scarsa chiarezza di ruoli. Generando spesso, nella fase del passaggio generazionale e anche successivamente, conflitti a partire dalla omogeneità/eterogeneità degli schemi cognitivi (i cosiddetti assunti di base) delle persone in gioco e delle loro rappresentazioni della realtà e delle evoluzioni future.

Pertanto, non si tratta più semplicemente di un “ricambio” o “passaggio” generazionale quanto di una “integrazione” di generazioni; o, meglio, di una mediazione di punti di vista legittimamente differenti), volta a definire un piano di Sviluppo Generativo Competitivo, capace di creare nuove opportunità e nuove ricchezze per l’azienda e la famiglia.

La strenna più bella: sentirsi riconosciuti al lavoro!


Le attuali modalità organizzative e di management in diverse occasioni moltiplicano le fratture all’interno delle comunità e dei percorsi di carriera, rendono fragili i contesti di appartenenza e di riconoscimento del lavoro, aumentando le criticità nei processi di socializzazione organizzativa e di costruzione delle identità professionali.

Occorre avere chiari questi nodi critici, se vogliamo comprendere gli atteggiamenti e i comportamenti di chi lavora insieme a noi, per realizzare una gestione consapevole e ponderata delle persone che vi lavorano.
Chi dirige un’azienda o è responsabile di un suo settore, deve tenere ben presente che l’incremento della produttività e la qualità dei servizi, si trova sempre più in relazione con il morale dei collaboratori e il benessere (nei termini di “qualità delle relazioni collaborative”) nei luoghi di lavoro.
Impegnarsi nella qualificazione complessiva della vita al lavoro, migliorare il clima organizzativo, significa in sostanza contribuire ad agevolare le transazioni relazionali di chi vi lavora, mettere a punto i relativi meccanismi di regolazione per garantire il successo dell’azienda e dei suoi prodotti/servizi. Non dimenticando che il benessere delle persone influisce sulle performance aziendali.

Ci rendiamo conto che il ruolo centrale della soggettività e dell’intersoggettività nelle relazioni di lavoro, dentro e fuori il perimetro aziendale, diventa sempre più evidente e importante.
È necessario affrontare con molto realismo il problema del riconoscimento al/del lavoro; al di là del semplice iter giuridico ed economico, senza temere etichette di idealismo o ingenuità.
Oltretutto il riconoscimento al lavoro sta richiamando sempre più l’attenzione, in quanto comporta un elemento di criticità che è legato anche ai problemi di salute mentale al lavoro. Abbiamo bene in mente che i vari fattori di rischio non positivi per la salute dei lavoratori e, di conseguenza, per quella delle aziende, comprendono tra gli altri anche il sovraccarico di lavoro, il deterioramento delle relazioni tra colleghi, la scarsità delle relazioni con i superiori diretti, la inadeguata circolazione delle informazioni relative alla governance e l’eccessiva limitatezza di comportamenti o pratiche di riconoscimento verso il lavoro svolto dai dipendenti.

Chi lavora spera in qualcosa di più di un salario, si aspetta che il suo lavoro sia riconosciuto; ad esempio, vedendo mettere in risalto i buoni risultati, sentendosi offrire incoraggiamento o segni d’apprezzamento. Una riconoscenza che può manifestarsi anche attraverso la creazione di uno spazio di discussione, che permette alle persone di esprimere il loro punto di vista sul lavoro e rinsalda i legami.
È possibile mettere in evidenza almeno due elementi di base del riconoscimento. Uno è il giudizio d’utilità del lavoro realizzato (riconoscere il rispetto delle gerarchie, il raggiungimento degli obiettivi, gli ostacoli superati, ecc.); l’altro è il giudizio estetico del lavoro (riconoscere la qualità delle azioni, la pertinenza delle decisioni, l’ingegnosità delle soluzioni, ecc.). Cercando di comprendere anche quali rischi incontra colui o colei che non si stente stimato/a e riconosciuto/a nel suo lavoro, tanto dai suoi superiori che dai suoi colleghi; ma anche quali inciampi possano emergere per le organizzazioni. Parecchi studi dimostrano che la mancanza di riconoscimento al lavoro è strettamente connessa con lo scarso coinvolgimento professionale, la demotivazione e l’assenteismo

Il lavoro rimane il luogo fondamentale della nostra vita e della ricerca d’identità e realizzazione personale; la qualità della nostra vita è direttamente proporzionale alla qualità del nostro lavoro. Un adeguato investimento di risorse morali e materiali per migliorare la qualità della nostra vita al lavoro è necessario.
Sfortunatamente, molto spesso, il lavoro è in genere percepito nella sua dimensione utilitaristica; ciò facendo non si rende giustizia agli sforzi di chi lavora e al contributo che egli offre. Trascurando che il riconoscimento al lavoro permette di realizzare le proprie attese, la immagine identitaria; che costituisce un elemento fondamentale di salute mentale.

L’assenza di riconoscimento genera spesso la perdita di riferimenti professionali e personali importanti. Con conseguenti aspri sentimenti quali l’amarezza, la frustrazione, l’inutilità e l’indegnità, che contribuiscono a mortificare la qualità dei rapporti tra il dipendente e l’azienda. Innesca anche una serie di comportamenti, costanti e tenaci, che invischiano a loro volta i dipendenti in un subdolo processo di vittimizzazione. È proprio l’importanza dello sguardo che l’azienda rivolge al proprio dipendente che da un senso a questo fenomeno; non importa tanto la natura dello sguardo, quanto lo sguardo stesso. Molto spesso chi si sente vittima, ad esempio di mobbing, o molestie morali, sente drammaticamente la mancanza di uno sguardo rassicurante. Che lo/la rassicuri soprattutto dell’importanza che l’altra parte gli riconosce in seno all’azienda.

Il riconoscimento e la riconoscenza al lavoro rappresentano la dimostrazione chiara che quanto noi realizziamo, gli sforzi investiti nel nostro lavoro e la stessa persona, sono apprezzati nel loro giusto valore. Il salario non è tutto. Occorre ugualmente sentirsi apprezzati per rinfrescare la nostra motivazione, sviluppare il proprio sentimento d’appartenenza e la voglia di sentirsi coinvolti nell’impresa.

L’essere umano dotato di sensi

Il costrutto di “intelligenza emotiva”, come si sa, è emerso per la prima volta nel 1990, in due articoli scientifici (Mayer, DiPaolo, & Salovey, 1990; Salovey & Mayer, 1990) pubblicati da ricercatori della Yale University e New Hampshire. Nonostante la portata di queste pubblicazioni e la natura innovativa del concetto, è soprattutto il libro “Emotional Intelligence” (1995) di Daniel Goleman, psicologo e giornalista, tradotto in italiano nel 1997, che ha destato un enorme entusiasmo generale sull’argomento.

Per Goleman l’intelligenza emotiva rappresenta la capacità, di rendersi conto dei propri sentimenti e quelli altrui al fine di raggiungere obiettivi fondamentali per ogni essere umano. Un’abilità espressa attraverso cinque caratteristiche fondamentali, che ogni individuo sviluppa soggettivamente nel corso del suo sviluppo:
1. la consapevolezza di sé, la capacità di riconoscere i propri sentimenti e le proprie emozioni nel momento in cui si presentano;
2. l’autocontrollo, la perspicacia di utilizzare e controllare i propri stati interiori per un obiettivo;
3. la motivazione, la prontezza di riconoscere il motivo che spinge all’azione;
4. l’empatia, l’attitudine a entrare in contatto con il sentire gli altri;
5. l’abilità sociale, cioè la propensione a entrare in relazione con altri cercando di capire i movimenti che accadono tra le persone.

È attraverso lo sviluppo di queste qualità che riusciremo ad essere emotivamente intelligenti, imparando ad usare le emozioni come risorsa importante per la nostra crescita individuale e sociale, avendo l’opportunità di agire in modo pro-positivo e pro-attivo.

 

Mi è capitato di venire in possesso del tema (autentico) di un alunno di sedici anni della classe X di una scuola Waldorf che, secondo me, pur essendo scolastico, anticipa argutamente di alcuni decenni la riflessione sulla intelligenza emotiva. Lo ho letto per la prima volta alla fine degli anni ’60 durante uno studio sui sensi e la percezione. E’ un testo che ho utilizzato ripetutamente come spunto di riflessione fenomenologica in molti corsi di formazione.
Fu pubblicato per la prima volta da Georg Hartmann, in Erziehung aus Menschenerkenntnis, Dornach, 1961. Comparve in traduzione italiana con il titolo “L’essere umano dotato di sensi. Componimento di un alunno di sedici anni della classe X”, su Antroposofia, 1963, pag. 93-96 .
Il testo conserva la sua freschezza originale e mi auguro possa incontrare il favore di numerosi lettori.

Quando mangio delle ciliege comprate, in fondo non ne ricevo un grande godimento. Esse compaiono alla fine del pasto, a mezzogiorno. E, mentre le mangio, devo comportarmi bene, a tavola. Nel mangiare le ciliege, i sensi che entrano in attività sono: la vista, il gusto e il tatto. Naturalmente anche il senso del proprio movimento, nel masticare e nell’estrarre dalla bocca col cucchiaio i noccioli. Anche il senso del calore; non tanto però, perché le ciliege comprate non sono così fresche. Le ciliege conservate in frigorifero non hanno un buon sapore. Mangiando le ciliege comprate, a colazione, non si ha un vero godimento.
Del tutto diverso è quando le ciliege son colte direttamente dall’albero. In tal caso bisogna essere possibilmente in due, per poter meglio stare all’erta e sfuggire all’occhio del contadino o della guardia.

In questo modo di mangiare le ciliege risulta che entrano in attività tutti i sensi, nella stessa successione in cui sono menzionati nell’insegnamento dell’antropologia.

Come primo il senso del tatto. Tante cose questo senso ha da sperimentare sull’albero del ciliegio. Non soltanto con la mano che afferra le ciliege e le stacca dal ramo, ma anche col ginocchio nudo che si appoggia alla liscia corteccia del ciliegio, con l’altra mano che abbraccia il ramo entrando così in contatto con la vischiosa resina e, in modo del tutto particolare, con le labbra e con la lingua che tastano la forma tonda e liscia della ciliegia e che poi alla fine sputano fuori il nocciolo.

Il senso della vita ci da anch’esso il sentimento del nostro proprio corpo. Mangiando le ciliege sull’albero, si ha proprio un senso tutto particolare di benessere. Si sente il proprio corpo nei muscoli, perché ci si deve tener stretti all’albero con la forza dei muscoli. Ciò vale ancor più per il senso del proprio movimento che ci fa sperimentare i movimenti dei nostri muscoli. E questi movimenti sono tanti! Il torso e gli arti, le labbra e la lingua, perfino i muscoli degli occhi si muovono e ci danno perciò la possibilità di guardare in molte direzioni. Il movimento più sottile però lo facciamo quando con gran forza riusciamo a sputare il nocciolo. Questo, a tavola è proibito. Eppure, nel mangiare le ciliege, è qualcosa di particolarmente bello!

Un altro senso, quello dell’equilibrio, è necessarissimo sull’albero del ciliegio, specialmente quando si sale sulla cima, dove le ciliege sono migliori. Io credo, che per il funambolo il senso dell’equilibrio sia il più importante.

E adesso veniamo ai quattro sensi della vista, del gusto, dell’odorato e del calore. Questi sensi sono impegnati al massimo sull’albero del ciliegio. Lì ci sono le ciliege rosse nel verde fogliame, la lucida corteccia del ramo, il cielo azzurro, d’estate, con le nuvole bianche. Tutti questi colori sono cosi belli, come non possono esserlo a mezzogiorno, a tavola. Perciò non ha proprio nessun senso di rubare le ciliege di notte, sebbene allora, se si sta un poco attenti, il pericolo non sia tanto grande. Ma, sull’albero del ciliegio, anche per gli occhi è particolarmente bello!

Che le ciliege abbiano un buon sapore, è chiaro. Altrimenti non si cercherebbe di rubarle. Non si può descrivere un sapore, né in fondo si può descrivere nessuna impressione dei sensi, perché queste cose si possono solo sperimentare. Tuttavia è particolarmente buono nella ciliegia il fatto che essa sia insieme e dolce e aspra. Le ciliege troppo dolci non mi piacciono tanto. Devono essere anche un po’ sode. Ma questo rientra nel senso del tatto. E’ incredibile tutto quello che sull’albero del ciliegio si può odorare. In primo luogo il profumo del fieno che viene dai prati, che è una cosa particolarmente bella quando il sole risplende. Poi l’odore delle foglie e della resina. E l’odore stesso delle ciliege che si nota solo quando si addentano. Occorrono sempre molte specie di odori, se ha da sorgere un profumo piacevole. Nell’industria del profumo perciò vengono mescolate sempre molte sostanze odorose, magari anche male odoranti, per produrre un profumo particolarmente piacevole. In estate sull’albero del ciliegio si riuniscono i più delicati profumi della natura.

Quanto al calore, noi lo sperimentiamo come la differenziazione del calore che sentiamo nell’ambiente circostante, rispetto al calore del nostro proprio corpo. In un giorno estivo, sull’albero del ciliegio si sentono molti diversi gradi di calore. Il legno dell’albero è fresco se è all’ombra, caldo nei punti in cui è illuminato dal sole. Talora si sta all’ombra fresca delle foglie, talora in pieno sole. La cosa più bella è la delicata frescura delle ciliege quando si ficcano in bocca.

Quanto al senso dell’udito, mi ricordo di un componimento che abbiamo dovuto svolgere in settima classe nella lezione di fisica. La nostra insegnante ci ha dato per compito di stare, a casa, per cinque minuti silenziosi in ascolto, e di descrivere poi tutto quello che abbiamo udito in quei minuti. Mi ricordo ancora che ci ho messo un mucchio di tempo a svolgere quel tema, perché c’erano tante cose da ascoltare. Anche sull’albero del ciliegio è così. Prima di tutto c’è il lieve fruscio delle fronde al vento d’estate. Poi c’è it rumore dei veicoli che viene di lontano, dalla strada. Si possono udire le voci degli uccelli. Poi la voce del mio amico che sta seduto su un altro grosso ramo dello stesso albero e che chiacchiera con me. Ma particolarmente bello è il suono che si produce quando con gran forza si sputa fuori un nocciolo di ciliegia. Io lo faccio spesso, perché mi piace. A casa non è permesso farlo.

Ora ci sono ancora i tre sensi superiori, con cui si percepisce il linguaggio, i pensieri, e anche l’io dell’altro uomo. Io metto in attività tutti questi sensi, quando ascolto quello che il mio amico mi racconta lassù sull’albero del ciliegio. Credo che il senso dell’io occorra in modo del tutto speciale quando da lontano si vede arrivare la guardia campestre. Si può a mala pena distinguerla dai cespugli dietro a cui spunta, eppure si vede subito che si tratta di un uomo e non di uno spaventa passeri.

Essendo il piacere e il godimento tanto maggiori quanti più sensi vi partecipano, bisogna dire che le ciliege che si mangiano sull’albero sono di gran lunga le migliori.

Io lo so che non si deve rubare. Ma in primo luogo noi a casa non abbiamo ciliegi. In secondo luogo, se si fa attenzione a non danneggiare l’albero, non è poi un gran male quello che si fa. E in terzo luogo io so dal mio amico che il fittavolo a cui il prato dei ciliegi appartiene, da ragazzo ne rubava molte di ciliege anche lui ».

Collettivi di lavoro, tecnologie della collaborazione e deprivazione delle relazioni

Ci sono occasioni in cui le tecnologie impongono procedure che mettono in discussione i consueti criteri di qualità della professionalità e allo stesso tempo indeboliscono le pratiche socio-tecniche che regolano i processi di lavoro.
Alcuni spunti di riflessione per portare a consapevolezza una realtà spesso sottovalutata.

In un contesto socio-economico contraddistinto da forte competitività e pressione performativa, le organizzazioni del lavoro continuano a modificare i loro assetti attraverso l’uso delle tecnologie digitali che consentono una circolazione incalzante di flussi operativi e di informazioni.

Le fasi dell’attività, dalla progettazione alla immissione sul mercato di un prodotto o un servizio, subiscono una notevole accelerazione grazie alla digitalizzazione. Compaiono nuove forme di lavoro non più soggette ai vincoli tradizionali del tempo e dello spazio che, attraverso le opportunità della collaborazione remota, dell’attività in coworking e della nuova modalità (nomade) di svolgere il lavoro sempre e ovunque, consentono una maggiore autonomia delle persone e, probabilmente, una migliore gestione dei costi.
Tuttavia, queste nuove forme di lavoro pongono nei confronti dei collaboratori obblighi di maggiore rendimento e sollecitudine, un controllo costante sulle attività svolte e addirittura una sorta di ingiunzione continua ad aumentare le performance. Le tecnologie accompagnano ormai tutte le attività, influenzano le pratiche, le orientano e, in alcune circostanze possono persino indurre a seguire determinati modelli di compiti prescritti dall’organizzazione. Capita anche che l’artefatto tecnologico supervisioni la dinamica delle risorse in gioco e talvolta essere utilizzato come leva di azione e controllo sui dipendenti.

Tecnologie della collaborazione

Limitandoci in questo momento a considerare le tecnologie cosiddette della collaborazione, un campo di osservazione anche per la psicologia, l’ergonomia e la medicina del lavoro, possiamo tener conto di alcuni dati emersi dagli studi e le ricerche empiriche che, seppure brevemente, vale la pena mettere in evidenza.

Ormai da qualche anno, stiamo assistendo alla moltiplicazione di strumenti di collaborazione aziendale (dai social network alle piattaforme cloud-based) fondata sul convincimento che le pratiche professionali, per produrre pienamente l’effetto voluto e contemporaneamente coinvolgere i collaboratori, devono svolgersi in comunione di intenti e allo stesso tempo essere condivise tra tutte le persone interessate. In realtà, secondo studi recenti, si tratta di tecnologie che rischiano di chiudere gli spazi di mobilitazione dell’intelligenza delle persone e limitano fortemente le capacità di espressione e iniziativa dei dipendenti. Perché, molto spesso, riducono l’attività a dimensioni puramente esecutive e allo stesso tempo impediscono la individualizzazione della relazione al lavoro. Un processo psicologico, mediante il quale l’individuo interiorizza e personalizza la cultura del gruppo e, allo stesso tempo, costruisce la sua identità sociale. Questo potrebbe essere il caso di chi è coinvolto in operazioni di picking, dove l’operatore di magazzino interagisce con il WMS che detta vocalmente il percorso e le diverse operazioni da compiere, stabilendo modalità e tempi. In realtà, è stato evidenziato dalla letteratura scientifica, in questa circostanza specifica la tecnologia non dice solo cosa fare e come farlo ma legittima soprattutto l’attività, convalidando il suo svolgimento e riconoscendo la qualità del lavoro attraverso gli indicatori che preleva e di cui rende conto all’azienda.

E’ una situazione in cui il potere di agire di chi lavora viene notevolmente ridotto, alterando di conseguenza la soggettività e imponendo la rinuncia di una parte del sé della persona e della sua ampiezza decisionale, dell’iniziativa, della valutazione diretta e della conseguente progettualità, della decisione e dell’autonomia gestuale. Insomma, impedisce di essere se stessi in quanto lavoratori capaci.

Vi sono inoltre software applicativi pensati per facilitare e rendere più efficace il lavoro cooperativo da parte di gruppi di persone, le applicazioni del workflow management, i social work aziendali, ecc., che vengono presentati (e molto spesso utilizzati al proposito) come strumenti in grado di ordinare, o addirittura imporre, le modalità di azione e, di conseguenza, organizzare il lavoro collettivo a spese del collettivo di lavoro. Spesso si dimentica che il gruppo di lavoro si costruisce e vive attraverso la condivisione di regole ed esperienze su cosa fare e non fare, di riconoscimento reciproco e di supporto sociale. Perciò, l’assenza o lo smembramento di questi collettivi è in gran parte responsabile della sofferenza dei dipendenti che, nel caso specifico, si trovano soli a gestire le difficoltà, le problematiche e le pressioni dell’organizzazione. Tenendo conto che il gruppo di lavoro funziona da ammortizzatore delle tensioni, da mediatore delle conflittualità ed è capace di regolare la densità e l’intensità delle energie produttive.

Diventa perciò necessario renderci conto che stanno funzionando soluzioni tecniche che impongono una ridefinizione radicale dell’esperienza di chi le usa, perché richiedono nuovi modi di fare, di pensare e collaborare nel lavoro, spesso comportando il rischio di indebolimento dei gruppi e delle reti sociali, fisicamente e psichicamente viventi tra le persone che lavorano.

In questo caso, il gruppo di lavoro non è più un tutto unico, una totalità diversa dalla somma delle sue parti che singolarmente hanno proprietà diverse. Secondo un assioma derivante dalla psicologia del “campo” che Kurt Lewin ha sistematizzato nella prima metà del XX secolo.

Lavorare insieme?
Ora è possibile lavorare insieme tramite le tecnologie digitali, ma nei fatti vuol dire lavorare insieme separatamente, davanti al proprio computer. Si presenta così una situazione in cui gli strumenti digitali aggregano dipendenti e competenze con diversi background sociali, professionali e culturali, in una sorta di incitamento all’attività collettiva. Un ambiente (virtuale) in cui una “collezione” di individui e una combinazione di competenze intercambiabili, interconnesse attraverso relazioni fittizie (virtuali) espongono le persone all’isolamento.

Può comparire anche un ulteriore effetto perverso che riguarda la possibile competizione/conflittualità tra i dipendenti in grado di essere molto distruttivo nel caso in cui il “vivere/lavorare insieme” lascia il posto a “ognuno per sé”. Condizione che – lo evidenziano le ricerche sul campo – può essere amplificata dai sistemi panottici attraverso i quali è possibile esercitare un controllo quasi permanente sui dipendenti che, in casi del genere, aumentano la conflittualità e l’isolamento.

Ecco alcune annotazioni esemplificative per comprendere che le nuove tecnologie digitali possono anche modificare i riferimenti contestuali e gli ambienti di lavoro stessi, incidendo contemporaneamente sulla struttura identitaria delle persone.
Spesso questi strumenti tecnologici sono utilizzati in maniera consapevole per quanto riguarda la possibilità di generare effetti positivi sul business aziendale e allo stesso tempo in modo inconsapevole, in quanto non ci si rende conto delle potenzialità dirompenti nei confronti della qualità del lavoro e della qualità della vita al lavoro. E, sovente, l’applicazione e l’implementazione di una nuova tecnologia in un ambito di lavoro, avviene prima che ci sia una buona comprensione degli eventuali effetti sulla salute e il benessere delle persone.

Tenendo come punto di riferimento il fatto che non può esserci “benessere” al lavoro, senza un certo “benessere” del lavoro, queste brevi le riflessioni indicano che in certe situazioni professionali l’uso delle tecnologie è in grado di alterare la relazione con il lavoro e con le persone che lavorano.

Ciò nonostante, se le tecnologie rappresentano potenziali fattori che possono alterare e deteriorare l’attività professionale, possono anche diventare una opportunità per ridiscutere il lavoro e il ruolo che i dispositivi tecnologici svolgono nell’attività. Affinché gli specialisti delle risorse umane possano cogliere la importanza di queste discussioni per coinvolgere i dipendenti su progetti veramente partecipativi e centrati sulle loro azioni e sulla loro partecipazione. Quindi non solo sulle tecnologie.

Occorre allo stesso tempo tener presente che l’individuo non rimane passivo di fronte agli artefatti tecnologici perché ha la capacità di agire e reagire per dare un senso alla tecnologia, egli può apportare un’efficienza individuale e collettiva attraverso l’uso della tecnologia e mantenere capacità di azione e iniziativa in queste attività mediatizzate, può continuare a lavorare per sviluppare la sua attività. e preservare la sua salute. Affinché ciò possa accadere, l’organizzazione del lavoro ha bisogno di mobilitare approcci differenti, attingendo anche dalla cultura scientifica (psicologia del lavoro, ergonomia, sociologia, medicina del lavoro) per la ricerca, la valutazione, la progettazione e la diffusione di strumenti innovativi perché la tecnologia diventi una autentica leva di sviluppo non solo per le imprese ma anche per le persone che fanno le imprese.

 

* L’autore può fornire – a richiesta – ulteriori informazioni ed eventuale documentazione bibliografica, nonché pareri specialistici sullo specifico argomento