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Il benessere delle relazioni

Spesso quando incontro dirigenti o manager, per un parere professionale o anche per un breve scambio di impressioni a margine di un evento, ogni tanto li sento raccontare di “problemi umani” verso i quali provano una legittima difficoltà. A volte la situazione rischia di degenerare miseramente, in altre si corre anche il pericolo di essere oggetto di aggressioni verbali o fisiche. Talora non è infrequente incontrare elementi veramente difficili da gestire, eterni insoddisfatti, persone continuamente scontente che rendono la vita pesante a colleghi e collaboratori.

I miei interlocutori vogliono farmi capire quanto certe volte possa essere complicato, se non impossibile, portare avanti una iniziativa, una attività nuova o un progetto. Svolgere un compito di guida o di coordinamento, mantenere un minimo di agio all’interno di una riunione. Talora si fa molta fatica a organizzare le persone e il gruppo, farle partecipare attivamente, ricondurre le discussioni sul tema all’ordine del giorno, gestire le tensioni e i conflitti. Far fronte ai pensieri negativi, alle frasi killer, al fuoco incrociato per evidenziare tutte le difficoltà e tentare di affossare definitivamente l’idea.

Un collaboratore “problematico” è una spina nel fianco per un capo diretto. Talvolta, lo è anche per i suoi colleghi e spesso questi ultimi fanno pressione sul dirigente affinché egli possa risolvere il problema e faciliti un’atmosfera di lavoro più tranquilla. In alcuni casi la stanza del capo può diventare l’ufficio del pianto (“il mio ufficio è diventato un ufficio reclami …”) di eventuali clienti insoddisfatti o addirittura offesi dal comportamento del dipendente.

Sarà forse perché in azienda si è più interessati alla valutazione delle performance, ai bilanci e ai risultati delle vendite e meno all’interesse per le relazioni tra le persone che lavorano? Senza dubbio i numeri sono fondamentali per la sopravvivenza e il progresso dell’organizzazione aziendale e per la definizione delle strategie future. Tuttavia è necessario considerare che il successo passa anche attraverso un esame approfondito della disposizione mentale dei dipendenti e di quel loro patrimonio di competenze e abilità individuali specificamente umane. Ad esempio, chiedersi chi fa che cosa, come, in quale stato d’animo, è fondamentale per considerare il valore della relazione tra le persone e il loro lavoro.

Le aziende stanno di nuovo lasciando il passo a logiche autoritarie di funzionamento organizzativo. Probabilmente questo è dovuto ai cambiamenti in corso e soprattutto alla pressione del breve termine dovuta agli imperativi dei “numeri”, Ad esempio, è vero che i dirigenti attualmente sono meno numerosi di un tempo, tuttavia non è una spiegazione sufficiente quando alcuni di essi si fanno notare per il loro sbrigativo modo di porsi in relazione con i collaboratori.

Sembra quasi che la cultura manageriale moderna, in fatto di miglioramento dei processi comunicativi interni e di un cambiamento di cultura e di comportamenti nella gestione delle risorse umane, non sia ancora entrata del tutto nelle nostre aziende. Forse c’è una scusante, tenendo conto che i manager vengono valutati più volentieri rispetto alla realizzazione di risultati quantitativi (tassi di produttività, riduzione dei costi, standard di lavoro o quote di vendita) e quasi mai rispetto alle loro capacità di mettere in collegamento idee e persone. È raro che li si giudichi sulla base delle loro abilità di far crescere una equipe o sulla perizia di far crescere i propri collaboratori; ambedue elementi fondamentali per l’evoluzione dell’azienda e la sostenibilità organizzativa.

A loro volta molti i manager affermano che, per loro esperienza, è difficile ottenere i rendimenti desiderati senza esercitare una certa autorità sui dipendenti; che ci si arrabbia perché costoro non prendono iniziative e stanno ad aspettare che gli si dica cosa fare. Vero che si può ottenere, attraverso l’autorità, che i dipendenti eseguano i loro compiti, però … per ottenere di più, occorre farseli alleati, mobilitarli, ma soprattutto tenere conto delle loro attese di riconoscimento e rispetto. Ciò che di solito prelude a una maggiore motivazione.

All’interno delle aziende le difficoltà relative ai problemi tecnici sono abbastanza limitate; è veramente difficile riscontrare lacune nelle competenze specifiche (soprattutto se sono state ben valutate in ingresso). Tuttavia, nei gruppi di lavoro, tra le persone coinvolte in un progetto, talvolta, non è facile coordinare gli elementi e articolare le differenze. Il ruolo di responsabilità spesso richiede ora capacità prima impensate; ad esempio, fluidificare i meccanismi della comunicazione interna, lavorando sull’ascolto, la gestione dello stress e delle emozioni, i problemi relazionali. In azienda diventa sempre più importante “curare” un clima di reciproca fiducia e migliorare la coesione del gruppo dei collaboratori.

Chi dirige una azienda o è responsabile di un settore di essa, deve considerare che l’incremento della produttività e la qualità dei servizi si trova sempre più in relazione con il morale dei collaboratori e il benessere (nei termini di “qualità delle relazioni interpersonali”) nei luoghi di lavoro.

Contribuire alla qualificazione complessiva della comunicazione interna, migliorare il clima organizzativo, significa in sostanza agevolare le transazioni relazionali di chi vi lavora, metterne a punto i relativi meccanismi di regolazione per garantire il successo dell’azienda e dei suoi prodotti/servizi.

Le ricerche scientifiche di Psicologia delle Organizzazioni hanno da tempo dimostrando che chi lavora in un contesto relazionale sano e privo di tensioni, da alle aziende un netto vantaggio sulla concorrenza. Le aziende che investono sul clima interno ne traggono benefici, per il fatto che favoriscono un lavoro di qualità, una più grande creatività e un miglior servizio alla clientela. Riducono il numero dei contenziosi e mantengono un basso tasso di assenteismo. Riescono a far crescere i talenti migliori e fidelizzare le persone più competenti.

Promuovere il benessere delle relazioni che le persone hanno con il proprio lavoro e nei luoghi di lavoro, risolvere i problemi relazionali che intossicano l’atmosfera, è un investimento fondamentale per l’azienda. Soprattutto quando recuperiamo il valore delle persone valutando e, allo stesso tempo, incoraggiando un atteggiamento mentale positivo dei collaboratori.

I rapporti interpersonali, il clima relazionale ed organizzativo nei vari settori dell’azienda, il ruolo dell’emotività e della passione, sono alcuni degli elementi fondamentali costituenti le condizioni favorevoli per “fare squadra”, che scaldano i cuori e le menti delle persone e delle organizzazioni. Non basta mettere in atto una buona idea per renderla realtà operativa e nemmeno è sufficiente che il capo la comprenda perché i collaboratori la mettano in pratica.

La tecnica o le tecniche in questo caso non sono sufficienti. Ecco perché diventa legittima una psicologia delle risorse umane: in termini di opportunità di lettura, di messa a fuoco, necessaria per trovare il bandolo della matassa e avviare un processo di crescita a partire da una situazione critica. Una psicologia come “capacità relazionale”, di “comprensione della psicologia delle persone”, per fornire opportune chiavi di accesso ai problemi di comunicazione e permettere a ciascuno di aprire la porta alla sua personalità e trovare la propria strada, dando prova di intelligenza e autonomia.

Sviluppare capacità collaborative non è facile e tantomeno alla portata di ognuno. I manager tuttavia sono chiamati ad essere all’altezza del compito perché tale risultato è uno dei punti cardine delle loro capacità. Ovvio pertanto che dalla qualità del management dipenderà in gran parte il successo o l’insuccesso dell’organizzazione. Ma come può un manager garantirsi il successo?

È facile perdersi. Se proviamo a metterci nei panni di chi è chiamato a navigare in queste acque, è facile vivere insieme ad essi un senso di smarrimento.

A volte è stato sufficiente svolgere una serie di 8-10 incontri di consulenza, per risolvere in modo soddisfacente situazioni completamente degenerate, frutto di un lungo processo di impoverimento delle relazioni. Spesso i dirigenti, ne sono usciti più forti come persone di fronte alle reazioni emotive che prima li destabilizzavano e, ancora di più, l’apprendimento che ne hanno tratto, è stato acquisito per il resto della vita.

Talora è necessario ricreare una dimensione più umanizzata del lavoro e delle organizzazioni, tenendo conto che le conquiste tecnologiche sono per noi irrinunciabili, per la nostra crescita e il nostro benessere; allo stesso tempo, che le donne e gli uomini fanno la differenza, soprattutto per quanto riguarda il loro valore immateriale.

Dunque, diventa importante per il “capo” essere consapevole delle proprie capacità relazionali, farle emergere e canalizzarle, saper gestire le proprie difficoltà e diventare cosciente del loro funzionamento per aumentare la propria lucidità, per cambiare il proprio modo (legittimamente soggettivo) di vedere gli altri e le proprie relazioni. Apprendere a osservare con obiettività la propria situazione per rafforzare la efficacia delle proprie azioni e i relativi margini di manovra. Formarsi.

La proposta è quella di incentivare un’ecologia del lavoro e delle relazioni umane a tutto vantaggio delle aziende, dei loro clienti e, naturalmente, di chi vi lavora. Insomma, scoprire che si può lavorare e allo stesso tempo si può anche vivere in salute e trarre soddisfazione da ciò che si sta facendo. Questo, va a vantaggio delle persone e delle loro relazioni, ma è anche un’opportunità – in termini di valore aggiunto – per le aziende.

Bisogna ascoltare, fare un uso intelligente delle competenze dei collaboratori e prendere in considerazione (far emergere dalla loro esperienza diretta) ciò che occorre per far crescere l’azienda, in modo da interessare le persone al processo collettivo. A partire dal momento in cui si da la parola ai nostri collaboratori e in cui si prendono in considerazione le loro conoscenze, la qualità delle decisioni che vengono prese da noi è naturalmente migliore. Inoltre, se le persone sono coinvolte nella ricerca di soluzioni, esse saranno anche più motivate a metterle in pratica. E in genere fanno di tutto perché la cosa vada in porto, anche se in partenza esse potrebbero trovarsi in difficoltà.

Vittorio Tripeni
psicologo del lavoro e delle organizzazioni

( pubblicato anche in: https://hei.network/wp-admin/post.php?post=5852&action=edit )

La leadership che verrà

Attraverso la robotizzazione e la digitalizzazione il lavoro sta cambiando forma e, di conseguenza, subisce una trasformazione anche la “presenza” umana al lavoro. Alla luce delle sfide che le aziende stanno affrontando, quali saranno le competenze chiave per mobilitare i collaboratori e raggiungere il successo? Quale potrebbe essere un profilo tipico del leader di domani?

Attraversiamo una lunga fase di mutevoli e continui adattamenti. All’interno di uno scenario che da tempo – e a ragione – viene indicato attraverso l’acronimo VUCA

La V (volatility) della volatilità, si riferisce alla natura e alle dinamiche dei cambiamenti caratterizzati da fluttuazioni, turbolenze e disruption. Un fenomeno che si sta verificando con maggiore frequenza rispetto al passato ed è incrementato, oltre che dalla liberalizzazione del commercio e della concorrenza globale, dalla crescita esponenziale della digitalizzazione e della connettività. Maggiore è la volatilità, più i cambiamenti sono veloci. Ragion per cui la natura, i ritmi e l’ampiezza di ciò che cambia non sono più prevedibili e non è possibile ricondurre il cambiamento ad un quadro di riferimento conosciuto e stabile.

La U (uncertainty) indica l’incertezza o la mancanza di prevedibilità degli eventi. Oggi è praticamente impossibile utilizzare le esperienze passate per prevedere il futuro, in quanto il futuro ormai non rappresenta più una pacifica proiezione del passato. Basarsi sulle esperienze trascorse per fare previsioni non ha più senso e all’incertezza si accompagna spesso la difficoltà di comprendere pienamente cosa sta succedendo. Più il mondo è incerto, più difficile fare previsioni e più complicato prendere decisioni sensate.

La C (complexity) è quella della complessità. Caratteristica di un aggregato organico e strutturato in parti tra loro interagenti, in base alla quale il comportamento globale del sistema non è immediatamente riconducibile a quello dei singoli elementi, perché dipende dal modo in cui essi interagiscono. Un contesto è tanto più complesso quanto più i fattori da considerare sono numerosi, diversi tra loro e diverse sono le relazioni tra gli elementi. Questo è quanto sta accadendo nella vita delle nostre aziende, dove aumentano sempre di più fattori interni ed esterni da gestire contemporaneamente. Ad esempio, la maggiore capacità di interconnessione, aumenta la complessità del sistema e questo rende sempre più complicato analizzare la quantità complessiva delle informazioni.

L’ultimo elemento in gioco è la ambiguità (ambiguity). Cioè la difficoltà di farsi un’idea precisa di ciò che sta accadendo. Poca chiarezza sugli eventi e, di conseguenza, difficoltà di decifrarli e addirittura comprenderli. Si presenta pertanto una situazione ambigua data la incompletezza delle informazioni, incompleta, contraddittoria o poco definita, che non permette di giungere a conclusioni certe. Sono occasioni in cui ci si trova di fronte a eventi che denotano incerta natura o provenienza, che lasciano perplessi sugli sviluppi o le intenzioni, che creano molta ansia.

Le organizzazioni del lavoro stanno affrontando cambiamenti impegnativi paragonabili a quelli che hanno preceduto il passaggio dal mondo agricolo a quello industriale. La digitalizzazione, la robotizzazione e l’intelligenza artificiale stanno cambiando radicalmente il mondo del lavoro. Gli artefatti tecnologici svolgeranno molte delle attività sinora eseguite dagli esseri umani e, allo stesso tempo, creeranno nuovi posti di lavoro, sosterranno nuove attività produttive di beni e di servizi.

Tutto ciò richiederà nuovi assetti organizzativi e modalità di gestione più appropriate delle risorse umane e delle relazioni di lavoro, sia nell’ambito dei rapporti tra persone che tra queste ultime e le tecnologie. Le evoluzioni nel mondo del lavoro e nelle organizzazioni del lavoro producono inevitabili disruption anche nel campo del management e della leadership. Al crocevia delle problematiche tecnologiche, strategiche e umane, la posizione del leader sarà davvero delicata.

Il management e la leadership hanno un’influenza diretta e tangibile sull’impegno dei dipendenti. Anche se rimane ancora valido il vecchio principio che la loro funzione è soprattutto quella di garantire una efficace collaborazione all’interno di un’organizzazione, sarà il modo di attuare questa collaborazione che avrà bisogno di adattarsi con le esigenze dei tempi attuali.

Molto probabilmente, alcune caratteristiche specifiche della leadership come passione, impegno, disciplina, carisma saranno combinate con nuovi valori: flessibilità, creatività, curiosità, innovazione, ottimismo. Un nuovo stato mentale dovrà essere coltivato, fatto di auto-accettazione, di umiltà, di resilienza. Grazie a una nuova modalità di porsi in relazione con gli altri, basata sulle competenze emozionali e comunicative, le situazioni difficili e gli inevitabili conflitti che inevitabilmente ne derivano, potranno essere gestiti. Tutte queste capacità dovranno essere dispiegate in un contesto dinamico, in perpetuo cambiamento. In definitiva, l’obiettivo principale sarà quello di sviluppare una serie di competenze per far avanzare l’intelligenza collettiva all’interno dell’azienda.

È certo difficile fare previsioni. Però trovo interessante uno scenario che è emerso già qualche anno fa, da una serie di interviste a un gruppo di esperti di fama internazionale realizzate da Suzanne Dansereau, delle quali è stata pubblicata un’ampia sintesi su Gestion, la rivista canadese di management (vol. 41/2016, pag. 70-73).

Tutti concordano sul fatto che in un ambiente volatile, incerto, complesso e ambiguo, la scelta di un leader non si concentrerà su competenze specifiche, ma sul suo potenziale di successo.

Ecco dieci qualità che lo aiuteranno a sviluppare questo potenziale.

A differenza del leader eroico degli anni ’80, egli si renderà conto che non potrà affrontare tutte le sfide che gli si presenteranno. E sarà consapevole che in un mondo digitale in cui tutto è interconnesso (interrelato/interdipendente), la sua influenza sarà limitata e non sarà più l’unico a essere in possesso delle risposte. Probabilmente non sarà in prima linea, ma piuttosto dietro perché il suo ruolo non sarà quello di comandare, ma di creare un contesto in cui tutti possano svolgere un ruolo di protagonista e quindi assumere la leadership, prendere il suo posto e realizzare progetti. In questo modo, la leadership nell’organizzazione di domani sarà federata. Ci sarà un leader al vertice, ma la funzione sarà ovunque nell’organizzazione e anche fuori perché il leader di domani non controllerà l’organizzazione ma soprattutto contribuirà a dargli forma.

La curiosità sarà una qualità essenziale. Il suo ruolo sarà quello di indirizzare nuove idee, assorbirle e tradurle in azioni concrete che permetteranno di cambiare le regole del gioco. Mentre il leader di ieri era un esperto nel suo campo e aveva una visione chiara delle azioni da intraprendere, quello di domani manifesterà una curiosità insaziabile, non solo sul campo che riguarda la sua azienda, ma anche in molte altre aree. Questo leader che vuole apprendere porrà molte domande piuttosto che offrire risposte.

Si dice spesso che il leader deve pensare fuori dagli schemi, ma domani penserà riferendosi a diversi “frame”. L’organizzazione non è più una macchina ma un organismo vivente, un sistema aperto. È finita l’epoca in cui un leader poteva tracciare un percorso seguito da tutti: il leader di domani dovrà affrontare imprevisti. Imparerà ad amare l’ambiguità perché questa imporrà “nuove abitudini mentali” che gli permetteranno di affrontare la complessità. Invece di gestire il probabile, il leader dirigerà il possibile; invece di cercare di rendere tutti d’accordo, adotterà diverse prospettive; invece di semplificare e ottimizzare le attività una per una, imparerà a distinguere dei sistemi; infine, invece di decidere e definire “la” strategia, sperimenterà alla periferia, attraverso verifiche che potrebbero fallire senza minacciare l’impresa.

Durante la sua carriera, il leader del domani occuperà diverse posizioni, farà esperienze diverse. Potrà spostarsi anche in tutto il mondo e si confronterà con varie culture; molto probabilmente non rimarrà confinato solo nel suo paese, soprattutto perché una buona parte dei mercati sarà incuneata all’interno di zone in via di sviluppo.

Una delle grandi differenze tra il leader di domani e il leader di ieri sarà che dovrà eccellere in tutti i campi della comunicazione, sia di persona, sui social media, di fronte a un pubblico di 300 persone o parlando con dipendenti che lavorano a migliaia di chilometri da casa e che non si saranno mai incontrati. Queste abilità sono già ricercate più che mai, l’organizzazione chiede al leader di sapere come evidenziare i messaggi da trasmettere al pubblico, di sviluppare il potenziale della propria personalità digitale e, di conseguenza, migliorare l’immagine del marchio. Facendo molta attenzione, perché l’autenticità è fondamentale.

Il leader di domani dovrà essere vicino alle persone che lo circondano e non solo creerà legami ma li manterrà anche. Non vorrà vincere una discussione quanto essere in contatto con le persone. Non eviterà il conflitto, ma mostrerà rispetto ed empatia per gli altri pur non avendo paura dello scontro. Sarà pronto a dare di più e saprà che ne riceverà da parte degli altri. Più che mai, le relazioni saranno significative e autentiche. In effetti, la fine della leadership eroica annuncia l’arrivo di una cultura di stretta collaborazione. In questo contesto, la vicinanza è fondamentale.

Il necessario equilibrio famiglia-lavoro è diventato un tema importante per la generazione X. Il leader di domani sarà ancora più multidimensionale. Dovrà abbracciare la complessità, cogliere la moltitudine di punti di vista e opinioni e comprendere bene gli ambienti che sono spesso multiformi e multiculturali. Un buon bagaglio di esperienze e background variegato diventa estremamente redditizio in questo contesto.

Il leader di domani vorrà che la sua azienda abbia un impatto positivo sulla società, l’ambiente, il pianeta, oltre a creare valore per gli azionisti. Il mondo del lavoro richiede un leader sempre più responsabile, più etico, onesto e generoso; anche perché i dipendenti saranno orientati a scegliere un’organizzazione che li impieghi in funzione della sua missione, della sua responsabilità sociale, dei suoi prodotti, in breve degli impatti che tuto questo avrà sul bene comune. È quasi una certezza che in dieci anni, i rischi sociali e umani di qualsiasi progetto saranno anche calcolabili come i rischi ambientali. Agire in modo responsabile sarà nell’interesse di ogni azienda.

Dovrà avere il coraggio di agire, non aver paura di lasciare il confort per andare avanti, non rinviare decisioni difficili, dispiacere ad alcune parti interessate, avere il coraggio di dire la verità e non quello che gli altri vogliono sentire, saper riconoscere quando si sbaglia. Il leader dovrà incoraggiare tutto il suo staff a parlare francamente e offrire loro più opportunità di apprendimento non avendo paura che falliscano o cambino la loro organizzazione. L’intera attitudine al fallimento deve essere diversa: il fallimento insegna e rende umili.

Dal momento che sarà in grado di navigare da una cultura all’altra, il leader di domani sarà più aperto alla diversità. Cercherà di circondarsi non di persone che saranno come lui ma con persone che lo completeranno e che non penseranno come lui. La diversità sarà una leva. Per progredire, un’organizzazione che opera in un mondo complesso e ambiguo ha bisogno di diversità e “dissidenza costruttiva”. È tanto una questione di diversità culturale, etnica e sessuale quanto di diversità di valori. Il leader di domani avrà un maggiore rispetto per le differenze. La sua forza risiederà nella sua capacità di mettere in collegamento idee e persone.

Nuove forme di lavoro e nuove esigenze cognitive

Qual è l’impatto delle tecnologie digitali dell’informazione e della comunicazione sulla qualità della vita e del lavoro? Il loro uso è ormai inevitabile. Proprio per questo è necessario conoscere gli eventuali effetti dirompenti nei confronti del benessere e della qualità della vita al lavoro.

Ognuno può rendersi conto in ogni momento, qualunque cosa stia facendo, che l’uso delle ICT ha determinato una notevole riconfigurazione delle pratiche quotidiane e una definizione del quadro di riferimento delle attività e delle competenze nel lavoro. Queste trasformazioni sono accompagnate da nuove sollecitazioni, ad esempio la necessità di elaborare in pochissimo tempo le informazioni ricevute o l’urgenza di organizzare la valanga di dati che ogni giorno richiamano la nostra attenzione. Portano con sé anche delle opportunità tra le quali la possibilità di gestire meglio il proprio orario di lavoro. Ma soprattutto hanno dato vita a nuovi profili di attività professionali caratterizzate da forme inedite di organizzazione del lavoro e una notevole dominanza delle tecnologie digitali.

Accelerazione digitale
In questi ultimi anni l’accelerazione del ritmo dei cambiamenti è in costante crescita a causa delle continue innovazioni e conseguente messa a punto di soluzioni tecnologiche. Si tratta di processi di implementazione che innovano le modalità di azione e di apprendimento di chi usa le tecnologie e che, a volte, generano evidenti situazioni dirompenti nell’ambito del loro utilizzo. Soprattutto perché esse richiedono una ristrutturazione radicale dell’esperienza dell’utilizzatore, in quanto elicitano nuovi modi di fare, di pensare, di organizzare le attività e mantenere vive le collaborazioni. Ragion per cui è necessario inventare nuovi modelli organizzativi e socio-cognitivi per lavorare con gli strumenti digitali e, allo stesso tempo, tenere conto che l’uso delle tecnologie può avere effetti sulla salute e il benessere di chi le usa.

Gli studi scientifici e le ricerche empiriche hanno messo in evidenza l’emergere di collegamenti tra le condizioni di lavoro, in cui le ICT svolgono un ruolo importante, e la salute di chi lavora. Diventa pertanto importante tenerne conto, soprattutto per motivarci ad analizzare ancora più in profondità il ruolo delle ICT rispetto alla salute e alla qualità della vita e del lavoro.

Ad esempio, il tempo e le risorse liberate grazie all’uso delle ICT possono essere investite in occupazioni che producono maggiore valore aggiunto e sono più stimolanti. Tuttavia, mentre le tecnologie possono migliorare il lavoro e riqualificare la professionalità, esse tendono anche a snaturare il lato umano dell’attività e a sviare la persona che lavora da tutto ciò che ha senso per essa; per esempio: le pratiche e i contatti professionali, oppure i margini individuali di manovra e la relazione che ha con il “suo” lavoro. La mediatizzazione tecnologica dell’attività può dunque correre il rischio di svolgersi in danno della salute di chi lavora e della qualità della vita al lavoro perché ha un impatto sulla struttura psichica della persona.

Come si diceva, in questo costante processo di cambiamento alimentato dalle continue innovazioni tecnologiche, possiamo mettere in evidenza anche una certa varietà di destabilizzazioni. Si tratta di cambiamenti costanti che influenzano la struttura e il contenuto delle decisioni e delle comunicazioni e di conseguenza influenzano i tradizionali parametri di riferimento dello spazio e del tempo di lavoro. Mentre nello spazio (di lavoro), le ICT hanno completamente smaterializzato la relazione dei dipendenti con il proprio ufficio, l’azienda, la famiglia e la vita privata; tanto che i confini tra i diversi tipi di ambito sono divenuti permeabili, se non addirittura scomparsi. Nella prospettiva temporale, dato che l’orario di lavoro è sempre più scandito dal tempo (velocissimo) degli strumenti tecnologici e il ritmo batte la misura al nanosecondo, l’immediatezza diventa la modalità prevalente di organizzazione della vita professionale e sociale. In questo caso, il tempo umano è diventato tempo della processazione che rimpalla sull’aumento del carico di lavoro. Ciò che può essere brevemente definito come la relazione tra sollecitazioni e capacità che possono essere mobilitate dall’individuo. In questo caso, cresce in modo esponenziale il volume dei dati (in quantità e qualità) ragion per cui il lavoro subisce una compressione dovuta alla maggiore quantità di informazioni da gestire e, allo stesso tempo, l’attività si intensifica con l’accelerazione del ritmo di lavoro e delle sequenze di lavoro. Rapidità delle comunicazioni, immediatezza della risposta e reattività della persona diventano così alcune delle caratteristiche del compito smaterializzato. Il riflesso sostituisce la riflessione e la simultaneità delle attività diventa una condotta pregnante dell’attività mediatizzata. E’ quanto risulta, in modo ben evidenziato e documentato, proprio dagli studi specialistici. L’accumulo di compiti in corso, avviati, ma mai completamente completati, si sta dimostrando estenuante e, allo stesso tempo, angosciante. Il dipendente si disperde in compiti concorrenti e contemporanei che deve gestire secondo le sollecitazioni tecnologiche per progredire nonostante tutto nel lavoro.

Frammentazione e destabilizzazione
Si tratta di situazioni marcate da continui disapprendimenti e/o riapprendimenti, che sono cognitivamente estenuanti e professionalmente molto destabilizzanti, in grado addirittura di imporre le regole di condotta e di lavoro perché strettamente associate all’uso degli strumenti digitali. In questi casi, parliamo anche di stress associato alle paure, le ansie, le frustrazioni provocate dalla introduzione e dall’uso delle tecnologie sul lavoro.

Gli artefatti tecnologici guidano e scandiscono il lavoro, pongono frequenti sollecitazioni. Interrompono il lavoro, determinano le modalità di azione e gli impieghi del tempo (ad esempio, attraverso le agende condivise), orientano e costantemente reindirizzano azioni e compiti da realizzare (al esempio, attraverso la messaggistica sincrona e asincrona). Tutti casi in cui i dipendenti si sentono privati della loro capacità di agire e prendere decisioni sulla propria attività. Di fronte a queste interruzioni permanenti, il lavoro è frammentato e ridotto a micro-compiti che devono essere costantemente raccordati per ritrovarne il senso. Si ha allora la sensazione di perdere il controllo del proprio lavoro per subire ciò che impone il sistema. Alla fine, ci si trova davanti a un lavoro che richiede sempre più frequentemente di affrontare gli imprevisti e raccordare i compiti frammentati, vale a dire un lavoro sul lavoro. Che potremmo anche definire un “meta-lavoro”.

Sottoposto a tale frammentazione, l’individuo è dunque obbligato a ridefinire costantemente l’organizzazione e le priorità della sua attività per dare una parvenza di coerenza e raggiungere i suoi obiettivi professionali.

In questa attività spezzettata, ognuno deve sapere come gestire il passaggio tra i diversi frammenti di attività, e anche tra i diversi mondi professionali ad esso collegati e in cui si ritrova proiettato secondo le sollecitazioni della tecnologia digitale.

Propongo un quadro emerso da una ricerca pubblicata recentemente. Si tratta di una dirigente che si trova ad assumere, nello spazio di qualche decina di minuti, ruoli e responsabilità diverse. Cioè, svolgere il ruolo di responsabile della comunicazione, del project manager, collaborare a un altro progetto, essere cliente di un fornitore, collega … ecc. Ove ogni contesto professionale è stato avviato da una interruzione tecnologica (mail, smartphone, strumenti collaborativi, agenda condivisa, ecc.) e ha richiesto specifici riferimenti commerciali: conoscenza del vocabolario dedicato, implementazione di un particolare know-how, padronanza degli strumenti e metodi appropriati, conoscenza degli obiettivi di ciascun progetto e loro temporalità, posizionamento e ruolo sociale appropriato. Alla fine, la dirigente doveva essere in grado di adattarsi permanentemente a questa “poli contestualità professionale”. In questo caso diventano necessarie capacità cognitive specifiche (gestione della dispersione, contestualizzazione, anticipazione, articolazione delle differenze, organizzazione, ecc.) In modo che l’attività possa raggiungere un obiettivo che si trova oltre l’assemblaggio caotico di frammenti dispersi di lavoro. In assenza di tale impegno di articolazione, il rischio è che l’attività perde il suo significato, si svuota della sua sostanza e alla fine scoraggia l’individuo che è costretto a confrontarsi con una serie di attività frustrate e frustranti, incomplete o prevenute, in breve a un lavoro che gli sfugge e in cui non si riconosce.

Tutto ciò – possiamo comprenderlo – rappresenta una fonte di malessere per le persone e, di conseguenza, può avere un impatto non positivo sulla qualità della vita al lavoro.

 

* L’autore può fornire – a richiesta – ulteriori informazioni ed eventuale documentazione bibliografica, nonché pareri specialistici sullo specifico argomento

Dare un senso alle trasformazioni in atto

Ci troviamo ormai al centro di una nuova rivoluzione tecnologica e, di conseguenza, socio-economica e antropologica. Cosa è cambiato e come stiamo cambiando? Abbiamo adeguata consapevolezza di ciò che sta accadendo e siamo in grado di aggiornare le informazioni in nostro possesso, su noi stessi e il mondo che ci circonda?
Questo articolo propone una breve riflessione sui nuovi sistemi economici e allo stesso tempo un tentativo di inquadrare sommariamente alcuni elementi delle trasformazioni in atto e l’impatto sulle persone e gli organismi sociali.

Sono ancora poco frequenti gli studi sulla portata della trasformazione digitale nei confronti del benessere e il funzionamento delle persone e delle organizzazioni; molto spesso essa viene percepita come utilizzo di “tecnologie soft”, che agevolano la qualità della vita di chi se ne avvale. In realtà, non è ancora possibile inquadrare con certezza il ruolo che questi cambiamenti stanno avendo sul comportamento individuale o organizzativo delle nostre occupazioni.

Sembra che possa cambiare tutto, a partire dal lavoro. E’ quanto emerge da un recente rapporto del World Economic Forum (2016), il 65% dei bambini che in questo momento frequentano la scuola primaria, probabilmente avrà un’occupazione che oggi non esiste ancora. È possibile che i lavori attuali non scompariranno del tutto ma saranno certamente ridefiniti e cambieranno le competenze necessarie per svolgerli in congruenza con le esigenze organizzative della produzione e dei servizi del futuro.

Un nuovo mondo del lavoro
Negli ultimi due decenni, le nuove tecnologie hanno gradualmente modellato un “nuovo mondo del lavoro”. Questi nuovi ambienti di lavoro mettono a confronto i lavoratori e le loro organizzazioni con molteplici sfide all’insegna della “economia digitale”. Quest’ultima, come si sa, ha caratteristiche molto peculiari. Innanzitutto, le informazioni digitalizzate, prodotte in grande abbondanza (big data) e sfruttabili da algoritmi molto potenti, rappresentano una risorsa economica sempre più strategica, in tutti i settori di attività e su scala mondiale. Inoltre si sta delineando un nuovo modello di produzione industriale all’insegna della “Industria 4.0”, che si avvale di una nuova generazione di oggetti comunicanti (l’Internet delle cose), macchine capaci di imparare sfruttando grandi dati e muoversi autonomamente. Allo stesso tempo, il concetto di rete sta diventando un principio organizzativo non solo dell’economia, ma anche della vita nella società perché è cambiata profondamente la nostra concezione della distanza e del tempo. Infine, lo specifico modello di business delle piattaforme online, noto anche come mercati a due lati, sta diventando sempre più importante e tende a sostituire modelli di business più tradizionali nella fornitura di servizi o nella distribuzione di beni. Queste funzionalità non sono completamente nuove, ad eccezione del modello di piattaforma. Combinano tendenze di lunga data, con lo sviluppo della società dell’informazione e cambiamenti più radicali, spesso definiti “disruptive”.

Sotto l’effetto di questa nuova generazione di tecnologie digitali pervasive e di cambiamenti in costante accelerazione nelle organizzazioni aziendali, sono in corso importanti trasformazioni nelle situazioni di lavoro e nella vita delle persone. Nelle aziende l’ambiente di lavoro ha accolto nuovi oggetti: microchip comunicanti, dispositivi di geolocalizzazione, robot autonomi, software incorporati in tutti i dispositivi. Dietro queste tecnologie, ci ricorda G. Vallenduc (Toeing the line. Working conditions in digital environments. HesaMag, 16/2017) vi sono algoritmi potenti e alquanto misteriosi che generano miliardi di gigabyte per pilotare dispositivi industriali remoti, tracciare merci e persone, prevedere comportamenti, influenzare le preferenze e molto altro che sarebbe andato oltre la nostra immaginazione dieci anni fa, quando i primi smartphone furono messi sul mercato.

In questa “economia digitale”, come si presentano i problemi di benessere organizzativo?
L’economia digitale fa già parte delle nostre vite. È una rivoluzione che porta con sé molti lati positivi: un mondo connesso, più opportunità di collaborazione, macchinari che svolgono buona parte dei lavori pesanti, computer in grado di coadiuvare attività complesse ecc. Tuttavia, al di là di questi miracoli tecnologici, queste grandi trasformazioni avranno i loro effetti, oltre che sul mercato del lavoro, anche sulle condizioni di vita dei lavoratori dipendenti, sulle condizioni di lavoro e sulla formazione.

Il sovraccarico di informazioni è la forma più comune di tecnostress.
In questo scenario, l’attività di lavoro si svolgerà in connessione permanente con notevoli effetti sulla salute delle persone. Il “tecnostress”, legato al fatto di lavorare online in modo continuato (in pratica: permanente), è stato oggetto di numerosi studi lungo il corso degli anni; cito ad es. quelli di Mandl et colleghi (New forms of employment Eurofound, Publications Office of the EU, 2015) e voglio ricordare anche il recente “ICT e lavoro: nuove prospettive di analisi per la salute e la sicurezza sul lavoro” (Inail, 2017).

Quando si parla di technostress, si allude all’aumento del carico psicosociale correlato al lavoro, in quanto il potenziale offerto dai nuovi strumenti digitali molto spesso si trasforma in una pressione sul lavoratore. Sia a livello delle aspettative esplicite o implicite del suo datore di lavoro o dei suoi colleghi, sia delle aspettative o esigenze del cliente, per problemi di connettività che disturbano il lavoro o sotto forma di forte dipendenza da strumenti digitali come ad esempio gli smartphone e i tablet.

Vallenduc, nel lavoro appena citato, sottolinea che il sovraccarico di informazioni è la forma più comune di tecnostress. Dicendo anche che l’uso continuato di e-mail, messaggistica istantanea e social network comporta un elevato carico di informazioni e messaggi, nonché frequenti interruzioni del lavoro. Ciò causa una pressione costante per dare una risposta a tutti i segnali ricevuti o per segnalare la propria presenza. Inoltre, i messaggi di posta elettronica sono spesso caratterizzati dalla mancanza di indicatori organizzativi, quando gli stessi messaggi vengono inviati a un numero elevato di destinatari, senza ordine di priorità o destinazione preferita. Spetta a ciascun dipendente adottare i propri criteri di selezione e valutazione, con il rischio di essere criticato per aver trascurato le informazioni che aveva ricevuto. Il costante mix di informazioni significative e informazioni insignificanti, che caratterizzano Internet e i social network, è fonte di affaticamento mentale, oltre alla necessità di essere permanentemente accessibile e disponibile. Inoltre, i frequenti utenti di Internet possono essere influenzati da una perdita di riferimenti spaziali e temporali, legati all’apparente scomparsa di distanze e differenze temporali. Il “tempo reale” che caratterizza il lavoro online a volte è un momento che non è reale per nessuno.

Le conseguenze del tecnostress possono manifestarsi nella stanchezza cronica generalizzata, un atteggiamento apatico o cinico, compromissione della concentrazione, tensione muscolare e altri dolori fisici, oltre al burnout. Oltre a queste conseguenze, che sono abbastanza simili a quelle dello stress da lavoro in generale, il tecnostress può portare a disturbi neurologici di deficit dell’attenzione che rendono i lavoratori incapaci di gestire correttamente le loro priorità e il loro tempo e che generano sentimenti di panico o senso di colpa.

Ciò che è nuovo oggi, è che una crescente proporzione di lavoratori è interessata da questi fenomeni di eccessiva sollecitazione digitale: non solo i manager, ma anche i professionisti di tutte le discipline, i dipendenti tecnici e commerciali, gli operatori sanitari. Lo sviluppo del nomadismo digitale è una delle cause di questa espansione. Si tratta una forma di organizzazione del lavoro che utilizza costantemente strumenti digitali connessi e moltiplica i luoghi di lavoro: in varie sedi dell’azienda, presso i clienti, in viaggio, a casa, negli spazi condivisi, ecc., fino alla evanescenza della nozione stessa di luogo di lavoro. Secondo gli studi di Mandl e colleghi (cit.), la moltiplicazione dei luoghi di lavoro oggi riguarda quasi un quarto dei lavoratori europei.

Oltre al tecnostress, i nomadi digitali sono anche esposti al rischio di dipendenza o di assuefazione ai dispositivi mobili e onnipresenti: l’uso compulsivo, la difficoltà di disconnessione sarebbe solo temporanea, stato di astinenza dopo l’interruzione dell’uso cronico, rischio di recidiva dopo periodi di disconnessione, ecc. Per molti lavoratori mobili, la gestione dei tempi di connessione e disconnessione diventa un problema importante, non solo in termini di stress ma anche in termini di equilibrio tra lavoro e vita privata e in termini di responsabilità all’interno delle organizzazioni. Di fronte a questi rischi, alcuni rapporti ufficiali (ricordo il “Rapporto Mettlin del 2015 per il Governo francese) raccomandano l’istituzione di un “diritto alla disconnessione”, già inserito in alcuni accordi negoziati nelle aziende.

La necessità di esserci

Le attuali evoluzioni tecnologiche sono rappresentate dalla diversità, la continuità, la velocità e talvolta da una certa inesorabilità nella diffusione di innovazioni riguardanti tutti gli ambiti della nostra vita. Si tratta di una sfida importante per il management delle risorse umane e coinvolgerà tutte le persone perché implicherà un cambio di mentalità profondo e un nuovo modo di “essere” (da-sein) nell’effettività dei processi in atto.

 

Che cosa sta accadendo?
Che lo si voglia o no, il digitale 4.0 continua a produrre cambiamenti permanenti nelle pratiche professionali, nei modelli organizzativi e anche nelle regole del mercato.

Questa ri-evoluzione socio-economica, oggi soprattutto considerata dal punto di vista tecnologico delle applicazioni, è anche e specialmente una questione di persone, di donne e uomini, quelle Risorse Umane tuttora fondamentali nel mondo del lavoro, che vivono intensamente i radicali cambiamenti delle imprese e dei mercati.
Il ruolo del manager sta cambiando e i leader di domani hanno bisogno di imparare come ascoltare le persone e comprenderle, come padroneggiare l’arte del coinvolgimento di esse, perché essere leader nel vortice della trasformazione digitale dell’azienda non vuol dire solo essere presenti sui social network ma occorre soprattutto esprimere competenza nell’uso di tecniche di comunicazione appropriate all’interno dell’azienda. Il cambiamento più profondo che occorrerà realizzare, riguarderà la “trasformazione” delle persone attraverso processi di sviluppo che non riguardano tanto la formazione tecnica quanto la incorporazione di una cultura organizzativa e un modo di pensare al passo con i tempi che attualizzi le modalità operative che meglio rispondono alle sfide delle continue trasformazioni.

Occorre tener conto che i cambiamenti in atto non sono riconducibili solo alle nuove metodologie organizzative e gestionali e alle tecniche che le supportano, ma hanno a che fare con aspetti che riguardano le persone che lavorano, nel loro rapporto con la tecnologia, la società e più in generale con la realtà. È piuttosto evidente che uno degli aspetti critici che desta maggiore attenzione riguarda l’impatto di queste innovazioni sul lavoro e sulle persone che lavorano.

Il lavoro è cambiato, non è più lo stesso di prima, continua a cambiare e sta cambiando le persone ed anche i loro stili di vita.
La fatica fisica si riduce mentre tende a crescere la tensione mentale e lo stress. Cresce pure l’autonomia e la creatività del lavoro, a prezzo però di un’accresciuta instabilità e incertezza dei posti di lavoro. Aumentano le differenze professionali: quelle con retribuzioni che vanno verso l’alto e quelle – come ad esempio, lavori manuali tradizionali – che si trovano sempre più marginalizzate.

Sono cambiamenti che nella mentalità comune stanno delineando due grandi gruppi di pensiero: quello degli scettici o contrari, che rifiutano a priori ciò che sta accadendo, e quello dei convinti sostenitori della rivoluzione 4.0 che immaginano organismi sociali più in linea con il tempo presente, in grado di rispondere con maggiore efficacia ai bisogni dell’umanità.
Tuttavia il problema non è tanto quello di schierarsi da una parte o dall’altra, ma piuttosto di comprendere quello che sta accadendo e quali implicazioni possono emergere da questa ampia fase di rinnovamento.

Con la comparsa di nuove generazioni di tecnologie digitali e il susseguirsi di rapidi cambiamenti nelle organizzazioni aziendali, avvengono importanti trasformazioni nei luoghi di lavoro che richiedono alle persone una “presenza di spirito” (effettività) sempre attiva e desta.
Questa grande varietà di tecnologie, ci dice Luciano Pero (Sindacato Futuro in Industry 4.0 – ADAPT University Press, 2015), potrebbero aprire la strada a una grande varietà di formule organizzative, assai diverse dalla organizzazione dominante delle tre rivoluzioni industriali di fine ‘700, di fine ‘800 e degli anni 80 del ‘900 e sarà un ambio ventaglio di forme organizzative.
Probabilmente tutto ciò avrà un notevole impatto che apre anche una grande opzione per l’umanità del futuro. Perché come è già accaduto in altri periodi dello sviluppo industriale, ci sarà bisogno di addomesticare e di adattare ai fabbisogni reali le enormi potenzialità tecnologiche che avremo a disposizione. L’umanizzazione di queste nuove tecnologie può essere compiuta sia dal punto di vista dell’utente, quindi dal punto di vista delle persone che usano queste tecnologie, sia dal punto di vista di quelli che le producono. In pratica, da tutti coloro che ne verranno a contatto.

Cambiano i mercati, cambia il lavoro, cambiano le persone nella loro professionalità ed anche nei loro modi di vivere il cambiamento.
Il lavoro cambia profondamente e le tradizionali distinzioni tra lavoro manuale e intellettuale tendono a ridursi o a scomparire. I lavoratori non solo si troveranno a lavorare in condizioni di lavoro migliori (meno fatica, ambienti più salubri, garanzie sulla salute e la sicurezza al lavoro) ma anche a far fronte alla richiesta di un maggiore impegno intellettuale e un conseguente aumento di tensione mentale e di stress. Saranno impegni complessi di notevole impegno cognitivo, come ad esempio l’analisi dei guasti, di errori e anomalie, la soluzione di problemi. I tecnici, a loro volta, hanno informazioni e strumentazioni avveniristiche, ma devono anche operare direttamente.

C’è da dire che le trasformazioni sono ormai evidenti e hanno riguardato sia il contenuto del lavoro, sia le macchine e gli strumenti, sia soprattutto le relazioni interpersonali, la socialità e la cultura. Ma, come dice giustamente L. Pero, l’attenzione che il paese ha dedicato a questi cambiamenti sembra essere inversamente proporzionale alla loro profondità. Sui grandi mezzi di comunicazione c’è stata una sorta di rimozione del problema del lavoro che cambia. Il lavoro reale e i lavoratori in carne e ossa sono quasi scomparsi dalla televisione, sostituiti dai ruoli di successo nel mondo virtuale: i presentatori, gli attori e i divi televisivi, i calciatori, le modelle e le veline e così via.

Diventa necessaria un’attenzione consapevole nei confronti di questi fenomeni e un riconoscimento adeguato della dimensione umana del lavoro. Che tenga conto della necessità di ESSERCI (di essere) nel cambiamento e nella trasformazione del lavoro e della produzione dando un senso ai processi in atto e trasformando le risorse umane in relazioni.
In primo luogo è necessario comprendere le forme complesse del cambiamento e le lunghe catene che lo causano, cercando di trovare categorie interpretative moderne e adeguate ai problemi di oggi. Ad esempio quale è il nuovo contenuto intellettuale e relazionale del lavoro e cosa implica, oppure quale rapporto si sviluppa tra le scelte di mercato “mondializzato” delle imprese e le reti professionali e sociali che si creano tra i lavoratori.
Ci sarà anche l’occasione di consentire alle persone e ai lavoratori un maggiore controllo dal basso dello sviluppo delle tecnologie e dei modi di produzione. Con la prospettiva di attivare nuove forme di partecipazione diretta dei lavoratori per favorire il coinvolgimento e la fiducia delle persone impegnate nei processi produttivi.

Quali potranno essere esattamente le competenze necessarie per il futuro? Non è chiaro come sembra a prima vista. Le abilità relazionali, la collaborazione e le capacità interfunzionali potrebbero essere le più utili. I manager delle Risorse Umane dovranno creare un nuovo equilibrio e una fluida corrispondenza tra il contributo (fondamentale) dei dipendenti, il riconoscimento e il rafforzamento del loro impegno. Tenendo anche in considerazione che la relazione tra datore di lavoro e dipendente si costruisce sulla comprensione e sulla appropriazione da parte dei dipendenti del luogo e del ruolo dell’azienda nella società. Il loro impegno diventa la condizione di efficienza dell’azienda. E per questo l’azienda deve proporre un nuovo rapporto di lavoro basato sulla fiducia, l’autonomia e la responsabilità. La maggior parte dei compiti ripetitivi – sia per gli operai che per gli impiegati – sarà sempre più automatizzata/robotizzata, focalizzando le attività umane verso lavori iper-creativi e innovativi e verso attività in cui l’interazione umana è essenziale (consapevolezza desta, empatia, affettività, cura, convinzione, assunzione di rischi, capacità di prendere decisioni, autonomia, ecc.).

È ormai chiaro che nuove regole di comunicazione dovranno basarsi sulla condivisione continua e incessante delle informazioni. Attraverso gli strumenti rinnovati della comunicazione, l’azienda potrà sollecitare e mobilitare i suoi dipendenti attraverso lo sviluppo della cooperazione, del riconoscimento e della valutazione a 360° delle attività in essere.
Per gran parte dei compiti nel settore terziario, nel frattempo il lavoro è stato liberato dai limiti del tempo (orario di lavoro) e posizione (stabilimento, postazione di lavoro). Quindi il telelavoro, già presente, nelle attività intellettuali, si estenderà anche agli altri domini, in particolare attraverso gli oggetti connessi. Ciò richiederà maggiore considerazione sul tempo-spazio di lavoro e sul tempo-spazio della vita privata.

Bisogna tenere conto del fatto che la crescita dei collaboratori si realizza attraverso il lavoro. Ciò avviene per le opportunità di apprendimento che l’azienda è in grado di proporre. Le persone che lavorano si aspettano di imparare di più, di essere coinvolte nelle decisioni di alto livello e di progredire sia in termini di responsabilità che di retribuzione.
Offrire ai collaboratori delle opportunità di crescita è oltremodo motivante. Dimostra che l’azienda crede in loro, che li rispetta e ha a cuore il loro interesse. Trovare un modo per alimentare una passione con loro, rende il lavoro un posto dove i collaboratori vogliono e sono in grado di dare il meglio di loro stessi. Questo è il modo di esserci!