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Emergenze, eventi critici e situazioni di disagio

Le situazioni nelle quali le persone si ritrovano a confronto di eventi critici, sono molteplici e possono presentarsi in modo diverso, secondo gli agenti scatenanti il fatto e le conseguenze dirette e indirette. Sia nel caso si tratti di un processo di “vittimizzazione primaria”, in cui le persone si trovano loro malgrado a subire conseguenze dirette, sia che riguardi un “coinvolgimento di servizio” in qualità di operatori del soccorso o dell’emergenza. In ambedue i casi concorrono diversi elementi comuni:
– il contenuto emotivo/affettivo dell’esperienza;
– la percezione e la valutazione del rischio;
– la gestione della comunicazione e l’elaborazione delle informazioni, in stretta relazione con la “presa della decisione” e la “motivazione” delle persone coinvolte.

In ogni caso influiscono anche le caratteristiche ambientali, perché freddo, caldo, altitudine, umidità, ecc., possono avere conseguenze fisiopatologiche che, oltre a comportare eventuali patologie specifiche, interferiscono in ogni caso con le condizioni psicologiche e sociali delle persone coinvolte.

1. Gli eventi naturali
Per quanto riguarda il coinvolgimento della popolazione, in genere gli eventi critici possono essere classificati come attesi e non attesi. Ad esempio, chi si confronta con il rischio e il pericolo in modo continuativo (pensiamo a tutti gli sport cosiddetti “estremi”) sa che può aspettarsi da un momento all’altro di rimanere coinvolto in una situazione critica. Invece chi, ad esempio, si trova coinvolto in un terremoto non ha certo previsto ciò che gli sarebbe capitato.
Su un altro versante, vi sono quelli che si confrontano con i rischi in quanto “implicati per scelta”. Come nel caso del personale dei servizi di soccorso e emergenza, oppure le forze dell’ordine. Che sebbene abbiano accettato di correre dei rischi scegliendo quella professione, possono trovarsi di fronte a situazioni che non hanno provocato, né alimentato o sostenuto e tantomeno auspicato.
Oltre alle diverse modalità di far fronte all’evento, teniamo conto anche della distinzione tra evento critico d’origine naturale ed evento critico di origine umana (accidentale o volontaria). Che segna anche il punto di svolta indispensabile per una efficace comprensione dei fenomeni fisiopatologici, eziopatogenetici e clinici correlati con l’evento o gli eventi.

Quali sono i fattori di maggiore nocività degli eventi critici d’origine naturale?
Il pericolo, talvolta l’isolamento (inteso anche come mancanza di informazioni), la condizione di profugo degli sfollati e degli evacuati, le condizioni di vita dei soccorritori nel corso di missioni di lunga durata. Queste sono alcune variabili che influiscono più o meno a lungo termine sulle persone coinvolte.
La eventuale aggressività fisica delle vittime e talvolta dei soccorritori, potrebbe avere relazione con l’aggressività derivante dagli effetti patogeni dell’evento traumatico, soprattutto presso le persone con una non sufficiente capacità di coping .
Nel contesto sociale possono emergere delle manifestazioni comportamentali, legate al panico ad esempio, ma anche esordi psicopatologici, come nel caso della nevrosi traumatica. Tutto ciò avrà degli effetti anche sugli operatori che, indipendentemente dalla gestione iniziale della situazione, rischiano di ritrovarsi a confronto con ulteriori eventi di cui essi potrebbero essere contemporaneamente i gestori, i soccorritori, ma anche gli attori passivi e le vittime.

Le catastrofi e gli incidenti
Il termine catastrofe è attualmente inteso nel senso di situazione accidentale grave, collettiva, che ha origine naturale e/o artificiale. La catastrofe si definisce essenzialmente come un evento che risulta dannoso per la collettività umana che la subisce.
Sono molteplici gli elementi caratterizzanti una catastrofe:
coinvolge la collettività;
– ha caratteristiche di brutalità, di accadimento inaspettato;
– è un evento non abituale;
– provoca danni e distruzioni di massa.
Louis Crocq, uno dei massimi esponenti della psicotraumatologia, nel 1987 ha aggiunto a questa descrizione la nozione di perturbazione sociale, di alterazione dei sistemi sociali funzionali (evidenziando in questo modo le caratteristiche della “criticità”).
Gli eventi critici classificati come “catastrofe naturale”, citati dalla letteratura scientifica, possono essere raggruppati:
– in rapporto con gli elementi geologici: eruzione vulcanica, frana, sisma, erosione, straripamento;
– in rapporto agli elementi climatici: tempeste, trombe d’aria, uragani, cicloni, maremoti, inondazioni, siccità, variazioni termiche, ecc.
– in relazione alla popolazione: malattie endemiche, epidemie, sovrappopolazione, carestie, ecc.
– invasioni animali: cavallette, termiti, topi, ecc.

2. Gli eventi di origine antropica
Sono direttamente dipendenti dal fattore umano e i loro effetti psicopatologici sulle vittime dirette e le “professioni a rischio” si presenteranno in modo diversi dai precedenti. Dal momento che, il fattore (umano) scatenante, diretto o indiretto, volontario o involontario, orienterà il pensiero delle persone direttamente e/o indirettamente coinvolte, a una logica fondata su un’opposizione radicale di vero e falso, bene e male (o bianco o nero) e alla loro moralistica opinione personale sul caso.
Ad esempio:
– “ non è possibile che un essere umano faccia una cosa simile! ”
– “ io non sarei capace di arrivare fino a quel punto! ”
– “ perché non ci difendiamo da tali comportamenti? ”

In generale, è possibile raccogliere schematicamente in due gruppi gli eventi critici imputabili all’uomo:

1. Quelli non voluti direttamente, risultanti dalla civiltà industriale e in relazione con:
– la terra: rottura di dighe, negligenze di natura ambientale, contaminazione radioattiva, ecc.;
– l’aria: piogge acide, esplosioni, nubi radioattive, smog;
– il fuoco: origine elettrica, chimica, vapori pericolosi, combustioni spontanee;
– l’acqua: contaminazione delle falde, marea nera, siccità, ecc.;
– la popolazione: incidenti di lavoro, incidenti causati dalla folla durante le partite di calcio, sommosse, incidenti marittimi, ferroviari, aerei.

2. Quelli voluti direttamente: il cui effetto psicologico avrà intense ripercussioni nel momento in cui le persone coinvolte e il “professionista” prendono coscienza del potenziale aggressivo e distruttivo dell’azione posta in essere:
– che chiamano in causa un numero limitato di individui: ingorghi, aggressioni urbane, presa di ostaggi, attentati, dirottamento di aerei, incendi, estorsioni criminali attraverso l’uso di virus o di veleni, violenze familiari;
– coinvolgenti un numero elevato di individui che agiscono contemporaneamente: guerre, guerriglie, guerre civili, terrorismo di stato, sommosse scatenate volontariamente da agitatori con l’obiettivo di destabilizzazione sociale, deportazioni, genocidi.

3. I fattori che possono innescare effetti dannosi

Il pericolo
Le persone coinvolte da un evento critico di particolare gravità si confrontano con il pericolo a diversi livelli e in diverse situazioni, sia di origine naturale che antropica. In tutti i casi, la risposta al pericolo corrisponde a una mobilitazione della vigilanza, che nelle persone ben adattate o ben preparate, comporterà conseguenze fisiche o psichiche minori.
Ciò che si dovrà temere, nel lungo periodo, è l’esaurimento delle risposte adattive in possesso di ciascun individuo (e diverse da individuo a individuo), un esaurimento contemporaneamente psichico, neurosensoriale e fisico, che porta ad abbandonare la lotta e cadere nella depressione.

L’isolamento
Parola diversa da “solitudine”, può ingenerare comportamenti aggressivi o depressivi. I professionisti impegnati in particolari interventi di soccorso possono essere a confronto con questa particolare situazione. Quella di ritrovarsi isolati, cioè vivere durante un lasso di tempo lontano dal mondo abituale e delle proprie radici. Ad esempio in occasione di un soccorso in montagna, in ambienti ostili, in occasione di grandi catastrofi (terremoti, eruzioni) i nostri operatori, anche se sono in gruppo, possono incontrare situazione di stress direttamente legate a questo isolamento, che viene ad aggiungersi agli altri parametri relativi alle criticità.
Le frustrazioni affettive, sociali, la perdita del contesto abituale di vita, delle relazioni amicali, familiari, del confort di vita elementare, la rottura dei ritmi circadiani rappresentano una pressione reale. La mancanza di stimoli abituali può innescare un rimuginio di idee e di problemi non risolti.
Situazioni simili si presentano nel corso di una prolungata assenza di informazioni che restituiscano un quadro comprensibile della situazione in cui si è direttamente coinvolti.

Il confinamento
Riguarda soprattutto le operazioni di soccorso di lunga durata, il confinamento può favorire l’emergenza di conflitti interpersonali con formazione di sottogruppi di opposizione.
Un argomento specifico o una critica diventano l’oggetto di sviluppi immaginativi poco razionali che traggono il loro alimento e la loro crescita da essi stessi, finché un qualche stimolo esterno non viene a cambiare il motivo di interesse.
Talvolta mal tollerato a livello individuale e fonte di manifestazioni patologiche, il confinamento può essere anche mal sopportato a livello di gruppo, il quale cessa di essere operativo oppure si rivolta contro il leader o contro l’autorità lontana dalla quale dipende (Bluth, 1979; Rivolier, 1979).
Del resto, è frequente, nelle condizioni estreme, che il dialogo risulti difficile per incomprensione reciproca tra il campo delle operazioni e i lontani responsabili.
Anche in questo caso la mancanza o la scarsità di informazione, comunicazione e relazione, con chi “ha in mano” il punto della situazione, risulta fonte di confinamento e di stress.

Le specifiche attività
Se lo stress originato dalla situazione differisce enormemente secondo i casi configurati, non è da meno il fatto che l’ambito lavorativo è all’origine di scariche aggressive che esprimono le difficoltà di adattamento della persona: il materiale non va bene o non è adatto, il procedimento non è idoneo, l’impiego del tempo è impossibile da rispettare, ecc. Spesso (e talvolta superficialmente) si è tentati di dare un’interpretazione psicopatologica realistica rispetto al momento. Ma non è raro appurare che la rivendicazione espressa in quella circostanza si fondi sulla realtà incombente.

La linea d’ombra nella continuità dell’azienda familiare

Lasciare il timone è un’impresa eroica; il senior che lo cede compie un grande sacrificio. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquisire credito e ispirare fiducia, hanno sostenuto nel tempo gli investimenti d’energie e di capitali; allo stesso tempo hanno reso la sua vita un viaggio interessante ed avventuroso. In futuro sarà tutto diverso per lui.

Chi sarà chiamato a succedergli, ancora prima di assicurare continuità all’azienda e dare inizio ad un nuovo ciclo d’espansione, dovrà attraversare la sua linea d’ombra. Si troverà da una parte a sentirsi in obbligo di garantire la continuità aziendale – perché non è certo utile ad alcuno che l’azienda perda valore – dovendo allo stesso tempo assumersene le responsabilità.

Dall’altra parte proverà sentimenti ed emozioni contrastanti come ha descritto efficacemente in una bella canzone il cantante Jovanotti (cfr. La linea d’ombra, nell’album “l’albero”).

Egli da voce ad un giovane a cui è affidato un incarico di responsabilità e per la prima volta nella vita si trova a considerare quello che lascia e a non sapere immaginare ciò che troverà.
Incaricato di portare una “nave” verso una rotta che nessuno conosce in dettaglio e in un momento di stabilità precaria, egli considera quanto è più facile stare in mare se sono gli altri a far la direzione.

Gli è stato detto “che una nave ha bisogno di un comandante, che la paga è interessante e che il carico è importante”. Il pensiero della responsabilità però è enorme.

Quella del giovane protagonista – narra la canzone – è un’età in cui si sa come si stava e non si sa dove si sta andando e che cosa si sarà. Nella quale la dimensione delle responsabilità che si hanno nei confronti degli esseri umani che ti vivono accanto non è ancora ben chiara. Un’età dove ogni mossa “può cambiare la partita intera e si ha paura di essere mangiato”.

In cui non si sa ancora cos’è il coraggio, “se prendere o mollare tutto, se scegliere la fuga o affrontare questa realtà difficile da interpretare ma bella da esplorare”.

Tuttavia, pur non potendo ancora immaginare cosa avverrà, una volta “attraversato il mare e portato questo carico importante a destinazione”, quel timoniere accetterà un compito così sfidante e dirà che è pronto a partire. Studierà le carte e quando sarà il momento dirà “levate l’ancora diritta, avanti tutta: questa è la rotta, questa è la direzione, questa è la decisione”.

Tornando al passaggio del timone aziendale, dobbiamo riconoscere che in realtà è del tutto assente, nell’agire di molte aziende familiari, la definizione di obiettivi e modalità per raggiungerli e verificarli. Appare spesso inconcepibile, per l’imprenditore che vuole cedere il comando, riflettere sulla opportunità di pianificare una successione sulla base di una ponderata valutazione della strategia aziendale, delle deleghe da assegnare, delle competenze necessarie per raggiungere quegli obiettivi.

In un modo del tutto implicito, un senior si aspetta che anche i successori, da lui immaginati identici per competenze e conoscenze, riusciranno nell’impresa così come lui è riuscito a raggiungere il successo, superando le prove e gli ostacoli insiti nel proprio percorso imprenditoriale.

Quest’implicita riflessione o, meglio, attribuzione di senso e significato, porta il senior ad organizzare per il successore o i successori delle prove di ingresso che riecheggiano quelle alle quali egli è stato sottoposto in giovane età e che ritiene “naturale” far passare anche ai successori. Nell’inconscio tentativo di guidare il destino del figlio/figli, quasi fosse il prolungamento di quello proprio e in una dinamica emotiva, già nota alla psicologia sociale dalla seconda metà del secolo scorso, che Heider (1958) aveva definito con il termine Fundamental Attribution Error.

Ciò rappresenta un elemento di criticità, in quanto pone un insieme di problemi nei rapporti interpersonali e scarsa chiarezza di ruoli. Generando spesso, nella fase del passaggio generazionale e anche successivamente, conflitti a partire dalla omogeneità/eterogeneità degli schemi cognitivi (i cosiddetti assunti di base) delle persone in gioco e delle loro rappresentazioni della realtà e delle evoluzioni future.

Pertanto, non si tratta più semplicemente di un “ricambio” o “passaggio” generazionale quanto di una “integrazione” di generazioni; o, meglio, di una mediazione di punti di vista legittimamente differenti), volta a definire un piano di Sviluppo Generativo Competitivo, capace di creare nuove opportunità e nuove ricchezze per l’azienda e la famiglia.

Vogliamo le soluzioni ma evitiamo i problemi. Un punto di vista sul coaching

C’è un’opinione diffusa e molta propensione a pensare che il moloch intelligenza artificiale divorerà l’intelligenza umana. Una prospettiva che preoccupa tanto e allo stesso modo affascina.
Gli studi che riguardano l’impatto della intelligenza artificiale sul mondo del lavoro iniziano a diffondersi e talvolta alimentano la preoccupazione appena accennata. Alcuni mettono in evidenza la complementarietà dei tre tipi di intelligenze che sarà necessario saper combinare nel prossimo futuro: l’intelligenza emotiva, l’intelligenza artificiale e l’intelligenza collettiva. All’interno di questa prospettiva si sta aprendo un notevole spazio evolutivo per le attività di consulenza organizzativa. In particolare, per il counseling e il coaching.

Le aziende sono fatte principalmente di persone, non di procedure, e spesso non basta un “programma” (o, meglio, una “ricetta”) per risolvere le criticità. Di conseguenza, se l’intelligenza di un manager non riuscirà a competere con le vertiginose capacità di memorizzazione, calcolo e diagnosi di una intelligenza artificiale, avrà tuttavia da svolgere un ruolo importante attraverso la sua “intelligenza del cuore”. Perché saranno necessarie le abilità socio emotive che il leader dovrà sviluppare nella sua organizzazione per completare il lavoro delle tecnologie intelligenti.
Ad esempio, le competenze relazionali sono ormai diventate essenziali perché son inaccessibili (per ora) all’IA. Di conseguenza, là dove sarà necessario dar prova di intuizione, creatività, immaginazione, pensiero concettuale e buon senso, l’Umano dovrà svolgere il suo pieno ruolo a fianco delle macchine.
La sfida del leader del prossimo futuro sarà triplice. Dovrà governare i cambiamenti organizzativi e culturali generati dall’IA, organizzare la collaborazione uomo-macchina e accelerare lo sviluppo di nuove abilità emotive e cognitive per aggiungere valore alle attività automatizzate. Per questo, dovrà sapere come tenere insieme le tre forme di intelligenza.
Da parte mia, nel corso di oltre tre decenni di consulenza manageriale da un lato e psicologia clinica e del lavoro dall’altro (come counselor, ricercatore, terapeuta, didatta) ho svolto attività di coaching accompagnando manager e team di ogni genere e ho svolto varie attività di supporto per la riconfigurazione e lo sviluppo dell’intelligenza collettiva in diverse situazioni. Negli anni ho avuto modo di seguire le trasformazioni dell’attività del manager, che da una pedissequa applicazione dei principi di Henry Fayol, vale a dire la pianificazione degli obiettivi, l’organizzazione dei compiti e delle responsabilità, la gestione delle persone e il controllo delle attività, ha via via compreso la necessità di acquisire competenze “non tecniche” opportune per migliorare la loro missione. Vestendo in questo modo – dopo un’adeguata formazione – i panni del manager-coach.

Una forma di elicitazione legata al “saper fare” e al “saper essere”
Di fonte al susseguirsi di domande nuove e complesse che le organizzazioni aziendali si trovano ad affrontare, il coaching diventa non soltanto un nuovo stile di management ma soprattutto una necessità per gestire in modo efficace le risorse umane e raggiungere una coerenza interna con le politiche gestionali e con gli obiettivi e le strategie dell’azienda. Esso è una forma di accompagnamento che ha come obiettivo lo sviluppo delle attitudini, il miglioramento della performance, l’adattamento a situazioni nuove e costituisce un valido supporto per la presa di decisioni quando le condizioni sono difficili o complicate. È una forma di elicitazione legata al “saper fare” e al “saper essere” riguardanti il modo di governare la propria attività, di organizzarla, di attivare la sfera relazionale e la comunicazione; mira allo sviluppo dell’identità professionale, dell’autonomia e della responsabilità, non alla riproduzione di modelli. Apporta una nuova chiarezza (introduce ulteriori punti di vista) sulle situazioni reali, ricercando evoluzioni significative in materia di comportamenti e di performance. È un volano di facilitazione dell’adattamento (attivo, non passivo) ai cambiamenti intensi sia in ambito organizzativo che sociale.

Il coaching come attività specializzata di consulenza
Per quanto riguarda la formazione appena accennata in precedenza, quella che un tempo era definita “executive coaching” e che attualmente è nota come “coaching manageriale”, è un approccio di coaching professionale incentrato sullo sviluppo di competenze relative a una posizione attuale o futura. Si basa su un processo in cui la fase di preparazione è importante quanto la fase di sviluppo stessa ed esistono diversi modelli di intervento che possono guidare la pratica del coaching. L’importante per il coach è determinare e spiegare il modello o i modelli che guidano il suo intervento, tenendo presente che il coaching manageriale può essere utilizzato in molti contesti in cui obiettivi e target differiscono.
Tra le varie definizioni di coaching manageriale, voglio considerare quella di Douglas e Morley (2000) del Center for Creative Leadership, poiché mi sembra la più operativa e completa. “Il coaching manageriale è un processo finalizzato a fornire agli individui gli strumenti, le conoscenze e le opportunità di cui hanno bisogno per crescere e diventare più efficaci […]. Implica l’insegnamento di abilità in un contesto di relazione personalizzata con il cliente, fornendogli feedback sulle sue capacità e relazioni interpersonali […]. Una serie di attività su misura finalizzate alle problematiche attuali o rilevanti incontrate dall’individuo che sono prese in considerazione insieme al coach, al fine di aiutare il primo a mantenere un’attenzione costante e rivolta all’integrazione delle sue forze e la gestione dei suoi punti deboli […].”
In realtà il processo del coaching è molto più complesso, in quanto si configura come un’attività specializzata di consulenza tipicamente individuale e squisitamente di carattere psicologico. Esso si differenzia nettamente da ogni forma ed indirizzo di psicoterapia e, d’altro canto, non appare affatto corretto identificarlo semplicisticamente come un’attività di formazione. Il coachee è il più delle volte una risorsa sulla quale l’organizzazione sta puntando nel contesto di un percorso di sviluppo o di riposizionamento mirato; in altre casi si tratta di soggetti che hanno necessità di un supporto esperto per direzionarsi o per utilizzare al meglio le proprie capacità. In ogni caso, il cliente del coaching è quasi sempre un soggetto che ha alle spalle una certa esperienza di lavoro e/o che ricopre ruoli di responsabilità.

Il problema del riconoscimento
A differenza degli psicologi, la cui acquisizione di competenze legate alla pratica della psicologia deve soddisfare gli standard specifici di un ordine professionale, la formazione dei coach non è ancora normata. Alcune associazioni offrono formazione in coaching manageriale che danno accesso a un accreditamento gestito da esse. Tuttavia, questi corsi di formazione rimangono opzionali, poiché l’esercizio del coaching non è limitato a coloro che sono stati accreditati. Pertanto, ad oggi, chiunque desideri dichiararsi un coach e offrire i propri servizi a un’organizzazione può farlo. In altre parole, significa che i profili di competenze dei coach possono essere molto variabili. Di conseguenza, le organizzazioni di riferimento dovrebbero attuare un rigoroso processo di selezione per i coach e, in attesa della professionalizzazione del coaching, spetterebbe alle organizzazioni di riferimento (in realtà alcune lo stanno facendo) creare il proprio quadro etico in cui il coaching manageriale potrà esprimere tutte le proprie potenzialità, conoscenze e valori. Ciò non è solo possibile ma necessario.

Sarà capace il nostro paese di adeguare velocemente il suo capitale umano ai nuovi scenari ?

Oggi – scrive Salvatore Improta – l’Italia delle imprese improvvisamente scopre che il capitale umano disponibile nel nostro paese non è del tutto qualitativamente sufficiente per affrontare le sfide del prossimo futuro. Chiedendosi e chiedendoci: Sarà sufficiente il capitale umano dell’Italia a fronte delle sfide del terzo millennio?
Sono convinto che per affrontare il futuro e le sfide dell’economia digitalizzata non sarà sufficiente avviare un generico reskilling degli occupati, quanto invece occorrerà concepire (e realizzare) un sistema formativo che, a partire dalla scuola, vada a incoraggiare e coltivare quelle competenze che il WEF ha già indicato come “basilari”. Ma come si fa (solo un piccolissimo esempio) se si è appena azzerata la prospettiva dell’alternanza scuola-lavoro che iniziava a dare già i primi frutti? 
Il contributo di Salvatore Improta, che desidero condividere, è ricco di spunti utili per continuare a riflettere e… tirarsi su le maniche.

Sarà capace il nostro paese di adeguare velocemente il suo capitale umano ai nuovi scenari ? (2. parte)

La soluzione è complessa e va ricercata su tre dimensioni concorrenti, in uno spirito di totale cooperazione di tutti principali attori del sistema Paese.

1. Bisogna rendere più attraente l’istruzione per i nostri giovani

Ispirata dalle nuove prospettive occupazionali, una certa luce si intravede in questa direzione, nei dati delrapporto Anvur : la quota di laureati è cresciuta dal 2007 di 8 punti e negli ultimi tre anni, l’incremento è stato in media di quasi un punto all’anno, anche se concentrato prevalentemente al Nord.

Dopo la discesa negli anni della crisi, dal 2014 le immatricolazioni sono tornate a salire: in rapporto alla popolazione dei diciannovenni, siamo passati dal 46,2 al 50,3 per cento. 

Significativa è anche riduzione degli abbandoni, piaga cronica dell’università italiana che conduce alla laurea appena il 60 per cento degli immatricolati entro otto anni. In particolare, il tasso di rinuncia dopo il primo anno, pari al 16 per cento dieci anni fa, è ora sceso al 12, lasciando presagire un possibile aumento della percentuale di laureati in futuro. 

Rimaniamo però al momento penultimi ,come già detto, in Europa, seguiti solo dalla Romania con un grande gap con paesi quali la Francia (44%), Il regno Unito(52%), l’Irlanda(53,3%), la Svizzera(48,3%), la Svezia(47,3%).

Tra i nostri concorrenti più agguerriti la Germania è quella che ha un tasso di laureati non drammaticamente più alto del nostro (31,3%), ma ben il 37% ha una laurea appartenente all’area Stem contro il nostro 25%.

Noi invece conserviamo il primato dei laureati nelle materie umanistiche, lingue ed arte ( il 23%), pari più del doppio della media Ocse.

Inoltre la Germania ha una formazione terziaria professionalizzante, con università dedicate di pari dignità accademica alle altre, le Fachhochschulen. Da noi esistono solo gli ITS (Istituti Tecnici Superiori), corsi biennali non universitari, con appena 4 mila iscritti ogni anno e di cui i nostri imprenditori non sono completamente soddisfatti.

Le immatricolazioni in area Stem stanno però velocemente salendo (36%) e questo è un segnale nella giusta direzione.

Aumentare i salari di ingresso al mondo del lavoro dei profili più ricercati, sarebbe anche questo un segnale nella giusta direzione.

2. Bisogna incrementare l’investimento in istruzione e formazione.

Le imprese italiane da anni investono molto poco in formazione: secondo dati Eurostat, fra il 2013 e il 2014 solo il 5 per cento ha tenuto corsi di formazione per l’Information Technology, contro il 16 per cento delle imprese tedesche. Cominciare a investire seriamente in formazione tecnica, sia a livello di istruzione scolastica che di formazione sul lavoro, è un passo fondamentale per migliorare le prospettive della nostra economia. I dati Ocse relativi al 2014, riportano una spesa 11500 dollari annui a studente per l’istruzione terzaria che scendono a 7100 se si estrapola il contributo alla ricerca. La media Ocse e superiore di 3900 dollari

Rispetto al 2017, la finanziaria del 2018 prevede risorse per la formazione, sotto forma di un credito d’imposta per le spese di formazione 4.0 sostenute dalle imprese e di un potenziamento degli istituti tecnici superiori. Un timido passo avanti.

Quello che è certo (dati Anvur) che all’università rispetto al 2008 è andato il -20& di risorse economiche in termini reali, ed il numero dei docenti si è ridotto del 13%.
 
3. Bisogna avere una maggiore interazione tra università, istituzioni e industria.

Questa è una direzione fondamentale, una conditio sine qua non.

Bisogna introdurre lauree specifiche professionalizzanti per favorire l’utilizzo immediato ed efficace delle nuove leve. Cercare di ideare sistemi efficaci, sia per l’apprendimento lungo tutto l’arco della vita sia per la formazione sul posto di lavoro, in modo che l’aggiornamento delle competenze possa essere sempre in linea con il rapido ritmo dei cambiamenti tecnologici.
Inoltre dato che la complessità di molte tecnologie emergenti supera le capacità di ricerca anche delle imprese più grandi, si rende necessaria un’ampia gamma di partenariati di ricerca pubblici e privati.
 
La diffusione tecnologica è fondamentale. Specialmente tra le piccole e medie imprese (PMI), una sfida importante consiste nella trasformazione digitale di quelle che non sono native digitali.

La disponibilità alla cooperazione dell’accademia italiana appare al momento limitata.

La maggior parte dei professori dei 96 atenei italiani ritiene che ricerca e didattica sono le sole missioni dell’università e che esse debbano essere svolte in totale autonomia e indipendenza.

L’ università italiana rimane sostanzialmente nella idea, disegnata da Wilhelm von Humboldt in Germania all’inizio del XIX secolo, con la sua unione di didattica e ricerca per il superamento del sapere cristallizzato dei manuali scolastici, un distacco deciso dalla concezione francese della scuola superiore professionale. Dai professori ci si aspettava che portassero avanti i propri compiti di docenti di ricercatori in “solitudine e libertà” . L’”autonomia” era una massima per tutti i membri dell’università.

Forse i tempi sono un poco cambiati. Il sapere dei professori e degli studenti non proviene più dalla ricerca di una singola università, ma è un sapere globalizzato, frutto della ricerca di diversi enti in diverse regioni del mondo, che andrebbe raccolto e trasferito non solo agli studenti ma anche al territorio secondo le esigenze proprie del territorio stesso.

Il successo dell’economia del nostro paese dipenderà in futuro sempre più dall’efficacia di questo trasferimento e molto meno dalla ricerca specifica delle sue università.

Questo vuol dire che tutte le università devono accettare una terza missione : servire la società di cui fanno parte .

Le università dovrebbero anche sentirla importante come le prime due.

Le università dovrebbero instaurare un forte rapporto con il tessuto economico, sociale e culturale che le circonda, a partire dal territorio di appartenenza. Capirne le necessità e le carenze nel medio e lungo termine e agire per quanto di loro competenza e capacità per accrescerne il livello di civiltà e di benessere.

Con in mente questo obbiettivo, le università dovrebbero attingere conoscenze, esperienze ed elementi di cultura da tutto il mondo, produrre eventualmente nuova conoscenza attraverso la ricerca ed in fine tradurre il tutto in insegnamenti pratici per trasferirlo non solo agli studenti attraverso il tradizione processo di didattica ma anche alle imprese, alle istituzioni, ai gruppi sociali del territorio di appartenenza attraverso varie forme di cooperazione .

Occorrerebbe avere una finestra costantemente aperta sul mondo e sul territorio, a partire dalle imprese, con l’obiettivo di aiutarle ad innovare, attraverso collaborazioni di vario tipo, trasferimento di conoscenza, sviluppo di brevetti, avvio di spin-off. e a migliorare e ad aggiornare le competenze del personale, attraverso un processo di apprendimento continuo in cui professori universitari possono avere un ruolo fondamentale. Le università nell’ ambito della terza missione dovrebbero aver un ruolo di interlocutore privilegiato con la Pubblica Amministrazione, con i Comuni e gli Enti locali fornendo e ricevendo linee di indirizzo, servizi di consulenza, formazione al personale. C’è infine la società civile, a cui si può parlare tramite la divulgazione scientifica, le iniziative culturali e formative.

Dell’importanza della terza missione per lo sviluppo e la crescita dell’economia europea, c’è piena coscienza nell’Unione Europea da parecchi anni. Già nel 2009 la commissione europea all’interno del Lifelong Learning programme , affidò ad un pool di università europee un progetto per” promuovere e valutare la terza missione nelle Università Europee (Fostering and Measuring ‘Third Mission’ in Higher Education).

Una buona parte dell’ Università italiane, spinte anche dall’inclusione della valutazione della terza missione nel Ranking Anvur, hanno avviate varie attività in tale ambito. L’analisi dei dati tuttavia mette in rilievo la forte eterogeneità tra le iniziative e la loro incongruenza e incollegabilità.

Le collaborazioni tra alcune università e impresa per quanto non ancora centrali nella crescita del sistema Paese, sono comunque una realtà frammentata ma con forti potenzialità. 

Forse basta solo insistere.

fonte: Salvatore Improta – http://www.quadratodellaradio.it/node/110

Sarà sufficiente il capitale umano dell’Italia a fronte delle sfide del terzo millennio?

Oggi – scrive Salvatore Improta – l’Italia delle imprese improvvisamente scopre che il capitale umano disponibile nel nostro paese non è del tutto qualitativamente sufficiente per affrontare le sfide del prossimo futuro. Chiedendosi e chiedendoci: Sarà sufficiente il capitale umano dell’Italia a fronte delle sfide del terzo millennio?
Sono convinto che per affrontare il futuro e le sfide dell’economia digitalizzata non sarà sufficiente avviare un generico reskilling degli occupati, quanto invece occorrerà concepire (e realizzare) un sistema formativo che, a partire dalla scuola, vada a incoraggiare e coltivare quelle competenze che il WEF ha già indicato come “basilari”. Ma come si fa (solo un piccolissimo esempio) se si è appena azzerata la prospettiva dell’alternanza scuola-lavoro che iniziava a dare già i primi frutti? 
Il contributo di Salvatore Improta, che desidero condividere, è ricco di spunti utili per continuare a riflettere e… tirarsi su le maniche.

Il capitale umano di un paese è l’insieme delle conoscenze e delle capacità produttive possedute dalla sua forza lavoro attraverso l’istruzione, la formazione e l’esperienza lavorativa.

Produttività, sviluppo e crescita saranno sempre più dipendenti dalla capacità del paese di sviluppare il suo capitale umano tenendolo costantemente allineato alle nuove esigenze frutto dei dirompenti sviluppi tecnologici. L’inerzia al cambiamento del capitale umano è uno dei più grossi rischi che un paese in questo momento possa correre.

Fondamentale è prevedere in tempo la necessità e la direzione del cambiamento, perché il cambiamento per la complessità dei fattori in campo non può che avvenire con una certa isteresi temporale rispetto al presentarsi delle necessità.

Fondamentale è anche di cercare ridurre questa isteresi, velocizzando il cambiamento attraverso processi di istruzione e formazione continua nella cui progettazione e attuazione sia il mondo della formazione, che quello dell’impresa si devono sentir coinvolti

Oggi l’Italia delle imprese improvvisamente scopre che il capitale umano disponibile nel nostro paese non è del tutto qualitativamente sufficiente per affrontare le sfide del prossimo futuro

In una recente intervista al quotidiano “La nazione” Giovanni Brugnoli, vice presidente di Confindustria con la delega per il capitale umano, ha dichiarato : “Le imprese sono affamate di talenti per Industria 4.0, ma non li incrociano. L’indagine da noi svolta ha riguardato 5 settori-chiave per l’Italia: la meccanica, l’agroalimentare, la chimica, la moda e l’Ict. Tenendo conto del saldo tra pensionamenti e diplomati dagli istituti tecnici, il gap previsto per i prossimi 5 anni è di 280.000 super-tecnici che la nostra manifattura non riuscirà a trovare”. 

Gianni Potti, presidente di Confindustria Servizi innovativi e tecnologici, parla di una figura ideale ambita dagli imprenditori di supertecnico di Industria 4.0 che dovrebbe avere competenze “di ingegneria gestionale, di economia, It e digitali”, che risulta al momento poco reperibile 

A maggio di questo anno il sistema Informativo Excelsior (Union Camere) nella pubblicazione “Previsione de fabbisogni occupazionali e professionali in Italia a medio termine (2018-2022)” ha previsto che nei prossimi 5 anni ci sarà la necessità di 2,5 milioni di nuovi occupati nel privato e nel pubblico (di cui 780mila laureati) e che oltre il 70%, ossia 1,8 milioni, dovrà possedere competenze specialistiche nelle discipline tecniche Stem (science, technology, engineering, maths).

Dalla analisi delle disponibilità nell’arco temporale analizzato il report arriva alla conclusione che la domanda di laureati non potrà essere completamente soddisfatta sia in termini numerici, che soprattutto in termine di profili adeguati, anche nell’ipotesi di assorbire tutti gli attuali disoccupati.

Oggi una richiesta su tre di laureati di area Stem, rischia di rimanere vacante.

“Tutto questo potrà nel medio tempo portare ad una semi-paralisi degli investimenti e dell’espansione malgrado i notevoli incentivi fiscali per l’industria 4.0, con conseguente perdita di competitività del manifatturiero italiano” .

La maggior parte degli imprenditori italiani attribuisce al sistema formativo la causa primaria di questa carenza soprattutto per quanto riguarda i profili dei giovani laureati, a cui l’università non darebbe uno “skilling” adeguato alle attuali esigenze.

Indubbiamente il sistema formativo non è esente da colpe, ma le cause di queste situazione sono da ricercare in un più ampio spettro di deficienze strutturali del nostro paese.

Vediamo dove si innesta questa improvvisa e pressante domanda di molti, giovani e brillanti laureati.

I laureati nel nostro paese non sono mai stati tantissimi e il sistema Italia fino adesso non ne ha mai sentito la mancanza.

L’Italia oggi registra appena il 18% di laureati nella fascia 25-64 anni, dato superiore solo a quello del Messico, contro il 37% della media nella zona Ocse.

Per quanto riguarda la fascia giovane della popolazione (25 – 34 anni ) nel 2017 il numero dei laureati i è stato il 26,9% contro una media europea UE27 del 39%.

L’80% dei 25-64enni con un’istruzione terziaria ha un lavoro, ma il tasso di occupazione si riduce al 64% per la fascia 25-34 anni, il livello più basso dei paesi industrializzati, dove la media è dell’83%. Solo l’Arabia Saudita ha un tasso inferiore (62%).

Nel 2016 solo il 57,7% dei laureati risultava occupato entro tre anni dalla laurea. Un dato in miglioramento rispetto al 2015 (53,5%) e al 2014 (49,6%) ma che pone l’Italia tra i peggiori paesi dell’Unione Europea, avanti solamente alla Grecia. Imbarazzante il confronto con la Germania, dove il 92,6% dei laureati lavora entro tre anni dal conseguimento del titolo.

Solo il 21% del personale non direttivo in Italia ha un titolo di laurea e di questi il 27,6% di quelli nella fascia 25-34 anni, risulta “overeducated” cioè più competente di quanto serva all’azienda che l’assunto (dati Cedefop). Inoltre il 35% dei lavoratori è occupato in un settore non correlato ai propri studi.

Quindi fino ad adesso il mondo delle imprese e la pubblica amministrazione non sono stati mai capaci di assorbire completamente lo scarso numero dei laureati che il sistema formativo ha prodotto, ma non sono stati neanche capaci, una volta assunti, a sfruttarne a pieno le competenze.

In Italia lo stipendio medio dei laureati nei primi 5 anni di lavoro, una volta stabilizzati, si aggira tra i 27 e i 28 mila euro a fronte dei 46mila euro della Germania e dei 35mila euro della Francia.

Laurearsi in questo paese può in alcuni casi peggiorare la probabilità di trovare un lavoro.

L’Italia è uno dei pochi paesi in cui le prospettive di lavoro (49%) per i 25-34enni con un livello di studi terziario sono inferiori ai diplomati dei percorsi di studio professionali della scuola secondaria superiore che è pari al 68%. 

A fronte della attuale pressante domanda di alti profili professionali, nel 2015, secondo dati Istat, le assunzioni non stagionali, previste dalle imprese per livello di istruzione, hanno riguardato per il 40% lavoratori in possesso del solo diploma secondario, per il 28% soggetti in possesso di alcuna formazione specifica e solo per il 16,5% e il 15,4% rispettivamente lavoratori in possesso di qualifica professionale e di laurea.

Abbiamo infatti tuttora un primato per l’ impiego di lavoratori in possesso di un basso livello di istruzione (31,8%), al quarto posto in Europa e precediamo, come abbiamo visto solo la Romania per la bassa quota di occupati altamente qualificati 21%, con un divario dalla media europea di 12 punti percentuali.

E’ un dato di fatto quindi , anche se sembra che tutti non ne siano pienamente coscienti, che fino ad ora l’Italia ha avuto bisogno, nell’attività lavorative, soprattutto di buoni esecutori e non tanto di laureati, super-tecnici, ne tanto meno di scienziati, anche se adesso se ne piange con tanto clamore la mancanza.

L’Italia è il secondo paese manifatturiero in Europa ed il settimo nel mondo, ma una parte importante del nostro sistema industriale rimane ancora legato a una base di competenze artigiane, che si sono evolute, ma che fondamentalmente traggono il loro sapere, che è un “sapere fare”, piuttosto che dalla formazione accademica delle sue risorse umane, da una tradizione antica che fortunatamente pochi altri hanno saputo conservare, e che al momento è un vantaggio competitivo in parecchi campi. Questo legame è presente nel mondo del design, in quella della moda, nella produzione di macchine utensili, ed è profondo e vitale nelle grandi imprese di lusso e nelle piccole imprese della meccanica di precisione.

Oggi il grande timore di questi imprenditori è che il gap che il nostro “saper fare” ha creato in alcuni campi con le imprese manifatturiere dei paesi concorrenti possa essere nel medio termine colmato, dall’avvento delle nuove tecnologie, e dall’affermarsi dell’industria 4.0 in questi paesi.

Il solo saper fare forse non basterà più. Per continuare a battere la concorrenza anche la nostra industria, pur mantenendo i piedi ancora ancorati a quella tradizione che è stata vincente nel passato, dovrà evolvere velocemente verso l’industria 4.0 ed è fondamentale che il suo capitale umano venga rafforzato con sostanzioso ingresso di knowledge worker, il cui profilo non potrà che essere preparato dall’accademia con corsi laurea specifici, anche professionalizzanti , ma di alto livello. 

Sarà capace il nostro paese di adeguare velocemente il suo capitale umano ai nuovi scenari ? 

La soluzione è complessa e va ricercata su tre dimensioni concorrenti, in uno spirito di totale cooperazione di tutti principali attori del sistema Paese.

(fine della 1 parte)

fonte: Salvatore Improta – http://www.quadratodellaradio.it/node/110