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La compassione non sarà sufficiente

A margine della giornata mondiale delle infermiere e degli infermieri che viene celebrata oggi, in coincidenza anche con i 200 anni dalla nascita di Florence Nightignale, fondatrice dell’infermieristca moderna,

credo sia chiaro a tutti noi che sorge o, meglio, rinasce un interesse generale per la sofferenza e il superlavoro del personale ospedaliero e di tutti gli operatori socio-sanitari.

Un interesse sicuramente spinto dalla terribile dall’emergenza della pandemia Covid-19, sollecitato anche dalla comunicazione mediatica che, giustamente, ci invita a prenderci cura di medici e infermieri e a sostenerli.

Sicuramente in molti lo stiamo facendo e in questo particolare momento, fintanto che il virus continua a limitare la presenza fisica, sono ovviamente disponibile ad ascoltare storie a volte terribili con la necessaria attenzione e compassione. Da parte mia, fornendo un supporto professionale che ho affinato nel corso degli anni anche grazie alle esperienze di altri professionisti che in precedenza ho assistito.

Tuttavia, mi rendo conto non sarà sufficiente questo aiuto psicologico e umanitario.

Secondo me non sarà sufficiente perché la maggior parte dei problemi che affrontano quotidianamente gli operatori sanitari, non dipendono dai loro spazi intrapsichici, dal loro inconscio, dai tratti della loro personalità o dalle loro nevrosi.

Certo, emerge in questo momento, in molti casi, una condizione di stress intenso che occorre alleviare attraverso debrifing adeguati o, nei casi più complessi, supportare con interventi più strutturati.

Tuttavia – continuo a credere – se vogliamo prenderci cura del lavoro dei medici e degli operatori sanitari, se vogliamo sostenerli e riconoscere il loro impegno e dare un senso al loro sacrificio,

dovremo prenderci cura delle loro condizioni di lavoro materiali, della carenza di personale, dell’assenza di dispositivi di protezione adeguati, degli orari di lavoro, del razionamento forzato delle risorse sul territorio, del sacrificio individuale che viene costantemente richiesto loro dietro la maschera dell’eroismo.

Ecco perché dico che la compassione non sarà sufficiente. L’eroizzazione del sacrificio degli operatori sanitari ancora meno.

La prevenzione della salute psicologica nei luoghi di lavoro come modalità di gestione delle risorse umane

Essendo ormai introvabile la raccolta degli Atti del Convegno che conteneva questo contributo, lo trascrivo integralmente a beneficio di quanti gentilmente hanno espresso il desiderio di leggerlo.

***

Il pensiero corre, con molta riconoscenza e ammirazione a Francesco Novara che ci ha sempre incoraggiato a “fratturare quello che siamo diventati, per divenire possibilità svelate”.

E non si può fare a meno di citare un suo concetto.
“Sovente l’organizzazione si ammala perché espia il tradimento della missione cui deve servire: le disfunzioni interne risultano – in un circolo vizioso di aggravamento – effetto e causa di una perdita di contatto con la realtà per la quale l’organizzazione deve operare.
Ciò impedisce un orientamento realistico e un mantenimento dinamico dell’equilibrio complessivo: l’avvio alla confusione prepara la disintegrazione”
.

Perché investire sulla prevenzione della salute psicologica attivando la gestione delle risorse umane?
Innanzitutto, occorre chiarire che il miglioramento della salute sul posto di lavoro non deve essere necessariamente complicato o dispendioso e tantomeno esigere molto tempo per la sua realizzazione.
È sufficiente impegnarsi per facilitare i processi relazionali alla base della salute mentale delle persone al lavoro. Attraverso una gestione funzionale proprio delle risorse umane, quell’elemento che costituisce il fondamentale capitale fondamentale dell’azienda.

Qui vorrei fare un piccolo inciso richiamando quanto ricordato dall’amico e collega William Levati (W. Levati, M. Saraò: Psicologia e sviluppo delle risorse umane nelle organizzazioni, FrancoAngeli)
Se riformuliamo i tre classici fattori della produzione (capitale, terra e lavoro come finanza, tecnologia/organizzazione e risorse umane) possiamo constatare che di fatto le prime due hanno conquistato nelle organizzazioni una credibilità, un peso e una visibilità che manca totalmente alla terza.
Prova ne è che raramente, (…) i direttori risorse umane fanno parte dei Board of Directors a differenza degli altri primi livelli aziendali.
In altri termini a un direttore di finanza o a un direttore commerciale viene chiesto di contribuire alla formulazione delle strategie attraverso la pianificazione di loro competenza, mentre al direttore risorse umane viene chiesto solo a valle di eliminare i possibili ostacoli legali, amministrativi, sindacali o al massimo di presentare una analisi quantitativa del fabbisogno di risorse umane.

In realtà le risorse umane non sono un semplice fattore della produzione, ma rappresentano un meta fattore, nel senso che la finanza, l’organizzazione o la tecnologia non esistono in sé, ma esistono uomini (e donne) che fanno funzionare la finanza, la tecnologia, l’organizzazione.

Quindi un’indagine qualitativa che riguardi queste persone dovrebbe essere l’elemento portante di un discorso di pianificazione economica dell’azienda. Invece alla funzione Risorse umane si chiede quanti sono gli individui e quanti potranno essere, non quali sono e quali dovranno essere per rendere fattibile la strategia aziendale.

In questo modo, precludendosi la possibilità di formulare una pianificazione qualitativa, si impedisce alla funzione Risorse Umane di passare da un ruolo tattico a un ruolo strategico all’interno dell’organizzazione.

La promozione della salute psicologica al lavoro riguarda innanzitutto le relazioni esistenti tra la salute e il benessere dei dipendenti – da una parte – e il successo della azienda dall’altra. Successo che a sua volta può essere inteso come “salute” (dei bilanci, delle relazioni, ecc.) e “sofferenza” (ahimè è ormai costante la sofferenza dei mercati!)

Riguardo ai costi e ai vantaggi
Va subito detto che è più impegnativo e costoso sostituire i dipendenti qualificati o affrontare gli aumenti dei costi di gestione dipendenti da una non puntuale organizzazione del lavoro. Si pensi ad esempio ai costi legati alla ricerca del personale, ai relativi colloqui, alla formazione, al reclutamento, ecc. Si rifletta sul valore della perdita delle competenze, delle conoscenze e della “memoria istituzionale”, che viene a mancare nel momento in cui un valido collaboratore ci lascia.

Per non parlare poi dei costi aggiunti derivanti da assenteismo, bassa produttività, insoddisfazione al lavoro, ecc. Tenendo presente che, secondo le ricerche e la letteratura scientifica sull’argomento, il fatto di investire sulla salute e sulla sicurezza permette di risollevare il morale dei dipendenti e aumentare il successo dell’azienda.

Investiamo quindi sulla promozione della salute psicologica per il successo della nostra azienda!
Come dirigenti o collaboratori di una azienda siamo consapevoli dei problemi derivanti dalla demotivazione del personale, dell’organizzazione del lavoro, dal tasso di assenteismo cronico, dei numerosi conflitti da gestire, e degli sforzi necessari per trovare la “persona giusta per il posto giusto” soprattutto quando un dipendente molto stimato decide di lasciare il posto di lavoro.

Oltre ad essere lunghi, costosi e onerosi, questi compiti impediscono di spendere tutte le energie in un progetto più vantaggioso per l’azienda, come la cura della clientela e la pianificazione strategica dell’azienda.

Investiamo per migliorare la nostra salute mentale!
Sapendo che la maggior parte delle persone trascorre i 2/3 della giornata al lavoro, parlando di qualità della vita non possiamo fare a meno di riferirci alla qualità del nostro lavoro

Di fatto, le ricerche evidenziano che il luogo di lavoro ha una certa incidenza sulla salute e il benessere dei dipendenti e anche sulla salute dell’azienda.
Ormai conosciamo molto bene la incidenza dello stress professionale sulla salute e molti fattori che possono determinarlo. Ad esempio: il livello di controllo sul lavoro, il carico di lavoro, la responsabilità nei confronti degli altri, le esigenze di riconoscimento personale, l’ambiguità rispetto all’avvenire dell’impiego, ecc. Tra questi elementi la variabile principale che incide sulla salute – e contemporaneamente sul livello di soddisfazione che il dipendente ha verso il suo ambiente di lavoro – è il controllo che egli esercita sul suo lavoro stesso, ossia la sua sfera (ampiezza) decisionale. Più semplicemente, l’ampiezza decisionale può essere definita come il grado di controllo che una persona può esercitare sul suo ambiente di lavoro e sulle sue attività quotidiane, le decisioni che vengono prese e i risultati di tali decisioni. Essa è anche correlata con la capacità di poter dire “no” o di negoziare il carico di lavoro senza timore di rappresaglie o di reprimende.

Dirigere, essere a capo di un comparto o di una equipe, insegnare, delegare delle responsabilità, significa trasmettere esperienza. Ciò che viene trasmesso o trasferito dovrebbe essere garantito dalla storia della persona che avvia tale scambio e dai suoi “maestri” di riferimento.
Dirigere, comandare, essere leader, vuol dire anche “drammatizzare” la propria storia e il proprio vissuto professionale e personale.

Una gestione delle risorse umane che si basa sull’esperienza, non dovrebbe ridursi alla ripetizione di un corpus asettico di norme e procedure.
Non è un caso che molti autori in questi ultimi anni abbiano affrontato l’argomento, mettendo in relazione la funzionalità e le competenze di “facilitazione” insite nella leadership con la qualità del lavoro e il benessere delle persone.

Cito tra i molti:

• BACHMANN Kimberley, 2000, La création de milieux de travail sains: pas juste une histoire de casques e de battes de securité, Le Conference Board du Canada, (novembre), p. 37
Bachmann discute sul bisogno per i quadri superiori di affrontare la salute e il ben essere in ambito lavorativo in modo integrato; affinché si possa successo in una economia globale competitiva. Definisce un approccio globale in grado di promuovere la elaborazione di politiche e di programmi capaci di affrontare le questioni relative all’ambiente fisico, all’ambiente psico sociale e alle pratiche di salute individuale. Il lavoro suggerisce che tutti i diretti interessati, compreso i governi, i datori di lavoro, le organizzazioni non governative, le organizzazioni sindacali e i fornitori di servizi profit, hanno un ruolo da giocare creando un approccio globale alla salute nell’ambito lavorativo.

• BADARACCO Joseph L. Jr. 2001. “We Don’t Need Another Hero”, Harvard Business Review, vol. 79, n. 2 (settembre). P. 120 (7).
Questo testo descrive le caratteristiche dei leaders morali che agiscono in modo trasversale in prospettiva di vittorie discrete. Esso suggerisce che i leader discreti sono pratici, efficaci e validi. Sostiene che spesso è più efficace per i leader scegliere accuratamente i loro combattimenti piuttosto che “immergersi in una fiammata di gloria per un semplice sforzo drammatico”.
Badaracco fornisce linee direttrici di base per i leader morali: riportare le cose al domani, scegliere il combattimento, aggirare i regolamenti senza violarli, trovare un compromesso. Utilizza degli aneddoti per illustrare come ciascuna di queste linee direttrici può essere utilizzata per gestire dei dilemmi di ordine etico. Include un inserto che descrive due caratteristiche distintive dei leader morali discreti: le loro motivazioni sono definitivamente sfumate e la loro visione del mondo è chiaramente realista.

• BUHLER Patricia M., 2001, “Managing in the New Millennium: the agile manager”, Supervision, vol. 6, n. 8 (agosto), p. 13 (3)
Buhler descrive la necessità per i dirigenti di essere flessibili affinchè possano efficacemente incoraggiare la vivacità nel loro ambiente di lavoro. Fa emergere la necessità di trattare i dipendenti in modo eqanime e di rispondere ai loro bisogni individuali. Il documento fornisce esempi del modo in cui i dirigenti possono dare prova di flessibilità nel loro modo di ricompensare i dipendenti, di pianificare per il futuro, di utilizzare le nuove tecnologie per incentivare il lavoro, di far fronte ai giochi politici interni all’ufficio e di risolvere dei problemi.

• Canada. SOUS-COMITE’ DU CHF SUR LE MIEUX ETRE EN MILIEU DE TRAVAIL. 2000, Le mieux etre en milieu de travail – un défi a relever; Rapport du Sous Comité. (settembre), 74 p. Bilingue
Questo rapporto definisce il senso del benessere al lavoro e discute sulla sfida attuale da accogliere affinché la funzione pubblica federale diventi un “datore di lavoro di prima qualità”. Discute le principali questioni sollevate dai dipendenti nel Sondaggio promosso presso i funzionari federali nel 1999: carico di lavoro, equità nei processi di selezione, molestie morali e discriminazione, avanzamento professionale e apprendimento. Raccomanda anche dei mezzi secondo i quali i dirigenti possono abbordare tali questioni nel quadro della funzione pubblica federale. Contiene anche degli esempi di iniziative prese da diversi ministeri ed organismi di governo per affrontare tali questioni.

• Centre syndacal et patronal du Canada. 2000, Point de vue 2000: Le milieu de travail sain, 15 p., 17 grafiques.
Questo rapporto presenta i risultati di un sondaggio presso i dirigenti del settore pubblico e privato e di organizzazioni sindacali. Presenta un confronto di punti di vista degli intervistati in merito al ciò che costituisce un ambiente di lavoro sano.

Non volendo trascurare la importanza della qualità dell’organizzazione del lavoro per la salute psicologica dei lavoratori. Cito ad esempio:

• CANADA. SANTE’ CANADA, 2002, Conseil sur la gestion des risques associés au stress en milieu de travail, partie 2, p. 23-38
Questo documento fornisce delle informazioni sulle cause di stress organizzativo e le sue ripercussioni per le organizzazioni e le persone. Cerca di “aumentare la presa di coscienza e a ispirare l’azione concernente i rischi molto reali per la salute e la sicurezza portati da diversi agenti di stress tossico presenti in ambiente di lavoro”. Fornisce dei consigli sia alle direzioni che ai comitati per l’ambiente sulle modalità di affrontare efficacemente la questione dello stress. Include una serie di lucidi che possono essere utilizzati nel corso di una presentazione.

• DUGDILL L., 2000, “Developing a Holistic Undestanding of Workplace Health: The Case of Bank Workers”, Ergonomic, vol. 43, n. 10, p. 1738 (12).
Dugdill esamina i risultati di uno studio riguardante gli impiegati di una banca del Regno Unito e riferito al loro punto di vista sul rapporto tra i fattori psicologici, lo stile di vita e la salute. Enumera alcuni fattori che contribuiscono alla salute dei dipendenti includendovi il contenuto del lavoro, le relazioni, la concezione dei compiti, l’ampiezza del processo decisionale e il controllo del lavoro. Suggerisce che le strategie di promozione della salute in ambiente di lavoro devono affrontare sia questioni di stile di vita psicosociali che individuali.

• DYCK Dianne e Tony ROITHMAYR, 2001, “The Toxic Workplace”, Benefits Canada, vol. 25, n. 3 (marzo), p. 52 (1=9
Gli autori riferiscono dell’impatto di agenti stressanti dell’ambiente di lavoro su individui e organizzazioni. Sottolineano i costi dello stress e pongono dei dubbi sul livello dei successi dei programmi che hanno come finalità il benessere nel trattare le cause dello stress. Presentano uno schema per individuare e misurare le cause fondamentali dello stress in ambito lavorativo.

• GEMIGNANI Janet, 2001, “When Work Becomes Toil”, Business & Health, vol. 19, n. 6 (giugno) p. 7 (1)
L’autrice presenta i risultati di un sondaggio riferito su 1000 operai americani effettuato da Families and Work Institute. Essa discute della prevalenza dei sentimenti di surmenage tra gli operai americani. Enumera una serie di fattori relativi all’ambiente di lavoro che contribuiscono al surmenage. Descive le conseguenze del surmenage per le persone e le organizzazioni. L’articolo include brevi statistiche riguardo le differenze dei sentimenti di surmenage dichiarati per età e professione.

• LEITER Michael P. e Christina MASLACH, 2001, “Burnout and Quality in a Sped-Up World”, The Journal for Quality and Participation, vol. 24, n. 2 (estate), p. 48-51
In questo articolo, gli autori trattano della importanza di affrontare la questione dell’esaurimento all’interno delle organizzazioni. Presentano uno schema diagnostico del potenziale di esaurimento nei dipendenti. Segnalano un metodo per valutare la situazione attuale nelle organizzazioni e avviare il processo di cambiamento.

• LYNCH Wendy D., 2001, “Health Affects Work and Work Affects Health: We Know How Health Affects Productivity, But Do We Undestand How Work Affects Healt?”, Business & Healt, vol. 19, n. 10 (nov-dic) p. 31 (4)
Questo articolo tratta degli inconvenienti del lavorare per tante ore e rinunciare alle vacanze. Presenta i risultati delle ricerche che evidenziano il costo per i dipendenti dei comportamenti ad alto rischio come ad esempio il tabagismo. Formula dei dubbi riguardo i provvedimenti in cui piccoli compromessi da parte dei dipendenti in favore del lavoro possono avere un impatto negativo a lungo termine sulla produttività. Enumera alcune conseguenze negative delle troppe ore di lavoro includendo la privazione del sonno, la depressione e la diminuzione delle competenze interpersonali. Tratta anche dei problemi acuti ai quali fanno fronte i dipendenti in situazioni di lavoro di forte domanda e debole controllo, in particolare coloro che devono anche trattare con un cattivo dirigente. Sottolinea il bisogno di affrontare i problemi sistemici nel contesto di lavoro piuttosto che semplicemente concentrarsi su interventi circoscritti come i programmi di gestione dello stress.

• MASLACH Christina e Michael P. LEITER, 1999, “Take This Job and Love It!”, Psychology Today, vol. 32, n. 5, p. 50 (6)
Questo articolo mette in luce come gli ambienti di lavoro contribuiscono all’esaurimento dei dipendenti. Gli autori pongono in evidenza sei fattori chiave che contribuiscono al senso di benessere di un dipendente: un carico di lavoro ragionevole, il sentimento di avere il controllo della situazione, l’occasione di ricevere dei riconoscimenti (ricompense), un sentimento di comunità, la fiducia nel luogo di lavoro e la condivisione di valori. L’articolo fornisce esempi della manifestazione di questi fattori nell’ambito lavorativo e descrive degli scenari che mostrano come i dipendenti possano far fronte alle situazioni e alle sfide che possono sorgere. Include una lista di misure da prendere per provocare miglioramenti dell’ambiente di lavoro.

• Mental Health in the Workplace, 2001, Worklife Report, vol. 13, n. 2, p. 11 (2)
Questo articolo riassume i risultati di uno studio dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro sulla incidenza e il costo dei problemi di salute mentale in ambito lavorativo. Fornisce informazioni sulla incidenza e le cause delle malattie legate alla salute mentale in cinque paesi: gli Stati Uniti, l’inghilterra, la Germania, Finlandia e Polonia. Tratta dei costi malattia mentale per le persone e i datori di lavoro ma anche dei progressi fatti fino a questo momento nelle soluzioni da apportare a questo problema.

• RAIMY Eric, 2001, “Back to the Table”, Human Resource Executive, (15 marzo) p. 1, 28-32
Questo autore presenta il concetto di un processo doppio di ristrutturazione degli orari di lavoro nel quale degli sforzi vengono fatti per concepire i compiti con la finalità di aumentare la produttività e allo stesso tempo ridurre le ore di lavoro. Include degli esempi che mostrano come delle organizzazioni come FleetBoston, Bank of America e Marriot International hanno messo in opera questo processo con successo.

Ho citato solo due aspetti della questione, vi è però un certo numero di dati comuni che emergono dalle ricerche e che possono essere riassunti in tre ambiti: le caratteristiche di un buon posto in cui lavorare, le condizioni che facilitano la creazione di salutari posti di lavoro e allo stesso tempo gli strumenti e le tecniche per aiutare i datori di lavoro a creare dei posti di lavoro di qualità.
Ecco un riassunto di questi messaggi:

Le caratteristiche di buoni posti di lavoro
–  le persone sono dedite al lavoro
–  vi è una reciprocità di rispetto e fiducia tra i dipendenti e i dirigenti
–  le persone ritengono di essere trattate con equità
–  vi è uno scopo ben preciso
–  i dipendenti sono capaci di garantire un equilibrio tra il loro lavoro e le loro responsabilità personali
–  i dipendenti si sentono al riparo dalle molestie psicologiche o morali e dalla discriminazione

Condizioni che aiutano a creare dei posti di lavoro salutari
–  la direzione è dedita al compito
–  i quadri intermedi sono motivati e vengono adeguatamente riconosciuti e compensati
–  comunicazioni aperte e oneste vengono incoraggiate dovunque nell’organizzazione
–  il rendimento viene valutato in funzione dei risultati piuttosto che sulle apparenze
–  la partecipazione dei dipendenti al processo decisionale viene incoraggiata e facilitata
–  viene delegata ai dipendenti una parte del controllo sul loro lavoro

Strumenti per agevolare la crescita delle persone e dell’azienda
–  sondaggi sul clima organizzativo
–  programmi di formazione e di perfezionamento “centrati”
–  impiego di strumenti di valutazione per misurare i progressi
–  elaborazione e messa in opera di strategie e programmi che favoriscono l’impegno responsabile sul piano professionale e personale
–  elaborazione di progetti pilota e creazione di gruppi di lavoro impegnati sugli elementi chiave dell’ambiente di lavoro
–  programmi di gestione del cambiamento che facciano perno sui comportamenti come mezzi per realizzare un cambiamento culturale durevole
–  tecniche specifiche per definire meglio il compito, l’impegno, carico di lavoro e la programmazione delle attività

Per una più accurata descrizione dei casi di “sofferenza” organizzativa e individuale e degli interventi di prevenzione che possono essere realizzati, sono a disposizione per i vostri quesiti. Sia durante la pausa che inizierà a breve, subito dopo avere ringraziato tutti voi per la presenza e la cordiale attenzione. Sia nel caso vogliate incontrami o scrivermi in un altro momento.

Grazie.

 

Contributo di Vittorio Tripeni al convegno:

Qualità dell’organizzazione del lavoro e salute psicologica – Una riflessione nell’ottica della Psicologia del Lavoro e dell’Organizzazione per prevenire i rischi della salute psicologica correlati al lavoro.

Milano, Via Bernardino Luini 5 – 29 maggio 2003

 

La strenna più bella: sentirsi riconosciuti al lavoro!


Le attuali modalità organizzative e di management in diverse occasioni moltiplicano le fratture all’interno delle comunità e dei percorsi di carriera, rendono fragili i contesti di appartenenza e di riconoscimento del lavoro, aumentando le criticità nei processi di socializzazione organizzativa e di costruzione delle identità professionali.

Occorre avere chiari questi nodi critici, se vogliamo comprendere gli atteggiamenti e i comportamenti di chi lavora insieme a noi, per realizzare una gestione consapevole e ponderata delle persone che vi lavorano.
Chi dirige un’azienda o è responsabile di un suo settore, deve tenere ben presente che l’incremento della produttività e la qualità dei servizi, si trova sempre più in relazione con il morale dei collaboratori e il benessere (nei termini di “qualità delle relazioni collaborative”) nei luoghi di lavoro.
Impegnarsi nella qualificazione complessiva della vita al lavoro, migliorare il clima organizzativo, significa in sostanza contribuire ad agevolare le transazioni relazionali di chi vi lavora, mettere a punto i relativi meccanismi di regolazione per garantire il successo dell’azienda e dei suoi prodotti/servizi. Non dimenticando che il benessere delle persone influisce sulle performance aziendali.

Ci rendiamo conto che il ruolo centrale della soggettività e dell’intersoggettività nelle relazioni di lavoro, dentro e fuori il perimetro aziendale, diventa sempre più evidente e importante.
È necessario affrontare con molto realismo il problema del riconoscimento al/del lavoro; al di là del semplice iter giuridico ed economico, senza temere etichette di idealismo o ingenuità.
Oltretutto il riconoscimento al lavoro sta richiamando sempre più l’attenzione, in quanto comporta un elemento di criticità che è legato anche ai problemi di salute mentale al lavoro. Abbiamo bene in mente che i vari fattori di rischio non positivi per la salute dei lavoratori e, di conseguenza, per quella delle aziende, comprendono tra gli altri anche il sovraccarico di lavoro, il deterioramento delle relazioni tra colleghi, la scarsità delle relazioni con i superiori diretti, la inadeguata circolazione delle informazioni relative alla governance e l’eccessiva limitatezza di comportamenti o pratiche di riconoscimento verso il lavoro svolto dai dipendenti.

Chi lavora spera in qualcosa di più di un salario, si aspetta che il suo lavoro sia riconosciuto; ad esempio, vedendo mettere in risalto i buoni risultati, sentendosi offrire incoraggiamento o segni d’apprezzamento. Una riconoscenza che può manifestarsi anche attraverso la creazione di uno spazio di discussione, che permette alle persone di esprimere il loro punto di vista sul lavoro e rinsalda i legami.
È possibile mettere in evidenza almeno due elementi di base del riconoscimento. Uno è il giudizio d’utilità del lavoro realizzato (riconoscere il rispetto delle gerarchie, il raggiungimento degli obiettivi, gli ostacoli superati, ecc.); l’altro è il giudizio estetico del lavoro (riconoscere la qualità delle azioni, la pertinenza delle decisioni, l’ingegnosità delle soluzioni, ecc.). Cercando di comprendere anche quali rischi incontra colui o colei che non si stente stimato/a e riconosciuto/a nel suo lavoro, tanto dai suoi superiori che dai suoi colleghi; ma anche quali inciampi possano emergere per le organizzazioni. Parecchi studi dimostrano che la mancanza di riconoscimento al lavoro è strettamente connessa con lo scarso coinvolgimento professionale, la demotivazione e l’assenteismo

Il lavoro rimane il luogo fondamentale della nostra vita e della ricerca d’identità e realizzazione personale; la qualità della nostra vita è direttamente proporzionale alla qualità del nostro lavoro. Un adeguato investimento di risorse morali e materiali per migliorare la qualità della nostra vita al lavoro è necessario.
Sfortunatamente, molto spesso, il lavoro è in genere percepito nella sua dimensione utilitaristica; ciò facendo non si rende giustizia agli sforzi di chi lavora e al contributo che egli offre. Trascurando che il riconoscimento al lavoro permette di realizzare le proprie attese, la immagine identitaria; che costituisce un elemento fondamentale di salute mentale.

L’assenza di riconoscimento genera spesso la perdita di riferimenti professionali e personali importanti. Con conseguenti aspri sentimenti quali l’amarezza, la frustrazione, l’inutilità e l’indegnità, che contribuiscono a mortificare la qualità dei rapporti tra il dipendente e l’azienda. Innesca anche una serie di comportamenti, costanti e tenaci, che invischiano a loro volta i dipendenti in un subdolo processo di vittimizzazione. È proprio l’importanza dello sguardo che l’azienda rivolge al proprio dipendente che da un senso a questo fenomeno; non importa tanto la natura dello sguardo, quanto lo sguardo stesso. Molto spesso chi si sente vittima, ad esempio di mobbing, o molestie morali, sente drammaticamente la mancanza di uno sguardo rassicurante. Che lo/la rassicuri soprattutto dell’importanza che l’altra parte gli riconosce in seno all’azienda.

Il riconoscimento e la riconoscenza al lavoro rappresentano la dimostrazione chiara che quanto noi realizziamo, gli sforzi investiti nel nostro lavoro e la stessa persona, sono apprezzati nel loro giusto valore. Il salario non è tutto. Occorre ugualmente sentirsi apprezzati per rinfrescare la nostra motivazione, sviluppare il proprio sentimento d’appartenenza e la voglia di sentirsi coinvolti nell’impresa.

Dare un senso alle trasformazioni in atto

Ci troviamo ormai al centro di una nuova rivoluzione tecnologica e, di conseguenza, socio-economica e antropologica. Cosa è cambiato e come stiamo cambiando? Abbiamo adeguata consapevolezza di ciò che sta accadendo e siamo in grado di aggiornare le informazioni in nostro possesso, su noi stessi e il mondo che ci circonda?
Questo articolo propone una breve riflessione sui nuovi sistemi economici e allo stesso tempo un tentativo di inquadrare sommariamente alcuni elementi delle trasformazioni in atto e l’impatto sulle persone e gli organismi sociali.

Sono ancora poco frequenti gli studi sulla portata della trasformazione digitale nei confronti del benessere e il funzionamento delle persone e delle organizzazioni; molto spesso essa viene percepita come utilizzo di “tecnologie soft”, che agevolano la qualità della vita di chi se ne avvale. In realtà, non è ancora possibile inquadrare con certezza il ruolo che questi cambiamenti stanno avendo sul comportamento individuale o organizzativo delle nostre occupazioni.

Sembra che possa cambiare tutto, a partire dal lavoro. E’ quanto emerge da un recente rapporto del World Economic Forum (2016), il 65% dei bambini che in questo momento frequentano la scuola primaria, probabilmente avrà un’occupazione che oggi non esiste ancora. È possibile che i lavori attuali non scompariranno del tutto ma saranno certamente ridefiniti e cambieranno le competenze necessarie per svolgerli in congruenza con le esigenze organizzative della produzione e dei servizi del futuro.

Un nuovo mondo del lavoro
Negli ultimi due decenni, le nuove tecnologie hanno gradualmente modellato un “nuovo mondo del lavoro”. Questi nuovi ambienti di lavoro mettono a confronto i lavoratori e le loro organizzazioni con molteplici sfide all’insegna della “economia digitale”. Quest’ultima, come si sa, ha caratteristiche molto peculiari. Innanzitutto, le informazioni digitalizzate, prodotte in grande abbondanza (big data) e sfruttabili da algoritmi molto potenti, rappresentano una risorsa economica sempre più strategica, in tutti i settori di attività e su scala mondiale. Inoltre si sta delineando un nuovo modello di produzione industriale all’insegna della “Industria 4.0”, che si avvale di una nuova generazione di oggetti comunicanti (l’Internet delle cose), macchine capaci di imparare sfruttando grandi dati e muoversi autonomamente. Allo stesso tempo, il concetto di rete sta diventando un principio organizzativo non solo dell’economia, ma anche della vita nella società perché è cambiata profondamente la nostra concezione della distanza e del tempo. Infine, lo specifico modello di business delle piattaforme online, noto anche come mercati a due lati, sta diventando sempre più importante e tende a sostituire modelli di business più tradizionali nella fornitura di servizi o nella distribuzione di beni. Queste funzionalità non sono completamente nuove, ad eccezione del modello di piattaforma. Combinano tendenze di lunga data, con lo sviluppo della società dell’informazione e cambiamenti più radicali, spesso definiti “disruptive”.

Sotto l’effetto di questa nuova generazione di tecnologie digitali pervasive e di cambiamenti in costante accelerazione nelle organizzazioni aziendali, sono in corso importanti trasformazioni nelle situazioni di lavoro e nella vita delle persone. Nelle aziende l’ambiente di lavoro ha accolto nuovi oggetti: microchip comunicanti, dispositivi di geolocalizzazione, robot autonomi, software incorporati in tutti i dispositivi. Dietro queste tecnologie, ci ricorda G. Vallenduc (Toeing the line. Working conditions in digital environments. HesaMag, 16/2017) vi sono algoritmi potenti e alquanto misteriosi che generano miliardi di gigabyte per pilotare dispositivi industriali remoti, tracciare merci e persone, prevedere comportamenti, influenzare le preferenze e molto altro che sarebbe andato oltre la nostra immaginazione dieci anni fa, quando i primi smartphone furono messi sul mercato.

In questa “economia digitale”, come si presentano i problemi di benessere organizzativo?
L’economia digitale fa già parte delle nostre vite. È una rivoluzione che porta con sé molti lati positivi: un mondo connesso, più opportunità di collaborazione, macchinari che svolgono buona parte dei lavori pesanti, computer in grado di coadiuvare attività complesse ecc. Tuttavia, al di là di questi miracoli tecnologici, queste grandi trasformazioni avranno i loro effetti, oltre che sul mercato del lavoro, anche sulle condizioni di vita dei lavoratori dipendenti, sulle condizioni di lavoro e sulla formazione.

Il sovraccarico di informazioni è la forma più comune di tecnostress.
In questo scenario, l’attività di lavoro si svolgerà in connessione permanente con notevoli effetti sulla salute delle persone. Il “tecnostress”, legato al fatto di lavorare online in modo continuato (in pratica: permanente), è stato oggetto di numerosi studi lungo il corso degli anni; cito ad es. quelli di Mandl et colleghi (New forms of employment Eurofound, Publications Office of the EU, 2015) e voglio ricordare anche il recente “ICT e lavoro: nuove prospettive di analisi per la salute e la sicurezza sul lavoro” (Inail, 2017).

Quando si parla di technostress, si allude all’aumento del carico psicosociale correlato al lavoro, in quanto il potenziale offerto dai nuovi strumenti digitali molto spesso si trasforma in una pressione sul lavoratore. Sia a livello delle aspettative esplicite o implicite del suo datore di lavoro o dei suoi colleghi, sia delle aspettative o esigenze del cliente, per problemi di connettività che disturbano il lavoro o sotto forma di forte dipendenza da strumenti digitali come ad esempio gli smartphone e i tablet.

Vallenduc, nel lavoro appena citato, sottolinea che il sovraccarico di informazioni è la forma più comune di tecnostress. Dicendo anche che l’uso continuato di e-mail, messaggistica istantanea e social network comporta un elevato carico di informazioni e messaggi, nonché frequenti interruzioni del lavoro. Ciò causa una pressione costante per dare una risposta a tutti i segnali ricevuti o per segnalare la propria presenza. Inoltre, i messaggi di posta elettronica sono spesso caratterizzati dalla mancanza di indicatori organizzativi, quando gli stessi messaggi vengono inviati a un numero elevato di destinatari, senza ordine di priorità o destinazione preferita. Spetta a ciascun dipendente adottare i propri criteri di selezione e valutazione, con il rischio di essere criticato per aver trascurato le informazioni che aveva ricevuto. Il costante mix di informazioni significative e informazioni insignificanti, che caratterizzano Internet e i social network, è fonte di affaticamento mentale, oltre alla necessità di essere permanentemente accessibile e disponibile. Inoltre, i frequenti utenti di Internet possono essere influenzati da una perdita di riferimenti spaziali e temporali, legati all’apparente scomparsa di distanze e differenze temporali. Il “tempo reale” che caratterizza il lavoro online a volte è un momento che non è reale per nessuno.

Le conseguenze del tecnostress possono manifestarsi nella stanchezza cronica generalizzata, un atteggiamento apatico o cinico, compromissione della concentrazione, tensione muscolare e altri dolori fisici, oltre al burnout. Oltre a queste conseguenze, che sono abbastanza simili a quelle dello stress da lavoro in generale, il tecnostress può portare a disturbi neurologici di deficit dell’attenzione che rendono i lavoratori incapaci di gestire correttamente le loro priorità e il loro tempo e che generano sentimenti di panico o senso di colpa.

Ciò che è nuovo oggi, è che una crescente proporzione di lavoratori è interessata da questi fenomeni di eccessiva sollecitazione digitale: non solo i manager, ma anche i professionisti di tutte le discipline, i dipendenti tecnici e commerciali, gli operatori sanitari. Lo sviluppo del nomadismo digitale è una delle cause di questa espansione. Si tratta una forma di organizzazione del lavoro che utilizza costantemente strumenti digitali connessi e moltiplica i luoghi di lavoro: in varie sedi dell’azienda, presso i clienti, in viaggio, a casa, negli spazi condivisi, ecc., fino alla evanescenza della nozione stessa di luogo di lavoro. Secondo gli studi di Mandl e colleghi (cit.), la moltiplicazione dei luoghi di lavoro oggi riguarda quasi un quarto dei lavoratori europei.

Oltre al tecnostress, i nomadi digitali sono anche esposti al rischio di dipendenza o di assuefazione ai dispositivi mobili e onnipresenti: l’uso compulsivo, la difficoltà di disconnessione sarebbe solo temporanea, stato di astinenza dopo l’interruzione dell’uso cronico, rischio di recidiva dopo periodi di disconnessione, ecc. Per molti lavoratori mobili, la gestione dei tempi di connessione e disconnessione diventa un problema importante, non solo in termini di stress ma anche in termini di equilibrio tra lavoro e vita privata e in termini di responsabilità all’interno delle organizzazioni. Di fronte a questi rischi, alcuni rapporti ufficiali (ricordo il “Rapporto Mettlin del 2015 per il Governo francese) raccomandano l’istituzione di un “diritto alla disconnessione”, già inserito in alcuni accordi negoziati nelle aziende.