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La strenna più bella: sentirsi riconosciuti al lavoro!


Le attuali modalità organizzative e di management in diverse occasioni moltiplicano le fratture all’interno delle comunità e dei percorsi di carriera, rendono fragili i contesti di appartenenza e di riconoscimento del lavoro, aumentando le criticità nei processi di socializzazione organizzativa e di costruzione delle identità professionali.

Occorre avere chiari questi nodi critici, se vogliamo comprendere gli atteggiamenti e i comportamenti di chi lavora insieme a noi, per realizzare una gestione consapevole e ponderata delle persone che vi lavorano.
Chi dirige un’azienda o è responsabile di un suo settore, deve tenere ben presente che l’incremento della produttività e la qualità dei servizi, si trova sempre più in relazione con il morale dei collaboratori e il benessere (nei termini di “qualità delle relazioni collaborative”) nei luoghi di lavoro.
Impegnarsi nella qualificazione complessiva della vita al lavoro, migliorare il clima organizzativo, significa in sostanza contribuire ad agevolare le transazioni relazionali di chi vi lavora, mettere a punto i relativi meccanismi di regolazione per garantire il successo dell’azienda e dei suoi prodotti/servizi. Non dimenticando che il benessere delle persone influisce sulle performance aziendali.

Ci rendiamo conto che il ruolo centrale della soggettività e dell’intersoggettività nelle relazioni di lavoro, dentro e fuori il perimetro aziendale, diventa sempre più evidente e importante.
È necessario affrontare con molto realismo il problema del riconoscimento al/del lavoro; al di là del semplice iter giuridico ed economico, senza temere etichette di idealismo o ingenuità.
Oltretutto il riconoscimento al lavoro sta richiamando sempre più l’attenzione, in quanto comporta un elemento di criticità che è legato anche ai problemi di salute mentale al lavoro. Abbiamo bene in mente che i vari fattori di rischio non positivi per la salute dei lavoratori e, di conseguenza, per quella delle aziende, comprendono tra gli altri anche il sovraccarico di lavoro, il deterioramento delle relazioni tra colleghi, la scarsità delle relazioni con i superiori diretti, la inadeguata circolazione delle informazioni relative alla governance e l’eccessiva limitatezza di comportamenti o pratiche di riconoscimento verso il lavoro svolto dai dipendenti.

Chi lavora spera in qualcosa di più di un salario, si aspetta che il suo lavoro sia riconosciuto; ad esempio, vedendo mettere in risalto i buoni risultati, sentendosi offrire incoraggiamento o segni d’apprezzamento. Una riconoscenza che può manifestarsi anche attraverso la creazione di uno spazio di discussione, che permette alle persone di esprimere il loro punto di vista sul lavoro e rinsalda i legami.
È possibile mettere in evidenza almeno due elementi di base del riconoscimento. Uno è il giudizio d’utilità del lavoro realizzato (riconoscere il rispetto delle gerarchie, il raggiungimento degli obiettivi, gli ostacoli superati, ecc.); l’altro è il giudizio estetico del lavoro (riconoscere la qualità delle azioni, la pertinenza delle decisioni, l’ingegnosità delle soluzioni, ecc.). Cercando di comprendere anche quali rischi incontra colui o colei che non si stente stimato/a e riconosciuto/a nel suo lavoro, tanto dai suoi superiori che dai suoi colleghi; ma anche quali inciampi possano emergere per le organizzazioni. Parecchi studi dimostrano che la mancanza di riconoscimento al lavoro è strettamente connessa con lo scarso coinvolgimento professionale, la demotivazione e l’assenteismo

Il lavoro rimane il luogo fondamentale della nostra vita e della ricerca d’identità e realizzazione personale; la qualità della nostra vita è direttamente proporzionale alla qualità del nostro lavoro. Un adeguato investimento di risorse morali e materiali per migliorare la qualità della nostra vita al lavoro è necessario.
Sfortunatamente, molto spesso, il lavoro è in genere percepito nella sua dimensione utilitaristica; ciò facendo non si rende giustizia agli sforzi di chi lavora e al contributo che egli offre. Trascurando che il riconoscimento al lavoro permette di realizzare le proprie attese, la immagine identitaria; che costituisce un elemento fondamentale di salute mentale.

L’assenza di riconoscimento genera spesso la perdita di riferimenti professionali e personali importanti. Con conseguenti aspri sentimenti quali l’amarezza, la frustrazione, l’inutilità e l’indegnità, che contribuiscono a mortificare la qualità dei rapporti tra il dipendente e l’azienda. Innesca anche una serie di comportamenti, costanti e tenaci, che invischiano a loro volta i dipendenti in un subdolo processo di vittimizzazione. È proprio l’importanza dello sguardo che l’azienda rivolge al proprio dipendente che da un senso a questo fenomeno; non importa tanto la natura dello sguardo, quanto lo sguardo stesso. Molto spesso chi si sente vittima, ad esempio di mobbing, o molestie morali, sente drammaticamente la mancanza di uno sguardo rassicurante. Che lo/la rassicuri soprattutto dell’importanza che l’altra parte gli riconosce in seno all’azienda.

Il riconoscimento e la riconoscenza al lavoro rappresentano la dimostrazione chiara che quanto noi realizziamo, gli sforzi investiti nel nostro lavoro e la stessa persona, sono apprezzati nel loro giusto valore. Il salario non è tutto. Occorre ugualmente sentirsi apprezzati per rinfrescare la nostra motivazione, sviluppare il proprio sentimento d’appartenenza e la voglia di sentirsi coinvolti nell’impresa.

Una psicologia per tutti

ANALISI DEL CONTESTO

Superati i tabù sul ricorso alla psicoterapia come cura di un disagio mentale grave e per questo passibile di vergogna, ogni individuo avverte la necessità di “curare la propria anima”, di attuare un percorso finalizzato all’auto consapevolezza, a un maggior benessere psicofisico e soprattutto a una ritrovata gioia di vivere. Star bene con se stessi e con gli altri sono certamente degli obiettivi ambiziosi e faticosi da raggiungere, ma perseguibili con facilità proprio partendo dal presupposto che è un diritto dovere curare e confortare la propria anima. E dato che il benessere psicologico di ciascuno di noi dovrebbe essere considerato il nucleo fondamentale e indispensabile per una buona qualità della vita, ad esso dovrebbe essere conferito il giusto merito ed attribuito un adeguato valore. Pertanto chi si trova nella condizione di voler richiedere un supporto psicologico, ma non ha le possibilità economiche per conseguire tale obiettivo privatamente e deve purtroppo confrontarsi con liste d’attesa lunghissime per accedere ai servizi pubblici, va aiutato.

Non si può trascurare che, in tema di salute e qualità della vita, il lavoro (inteso in senso lato come investimento di energie personali per il conseguimento di un determinato fine) è innanzitutto fonte di riconoscimeto psicologico e quindi matrice identitaria.
Se proviamo a renderci conto che viviamo la maggior parte della nostra giornata al lavoro, non potremo nasconderci che oggi la qualità della nostra vita è rappresentata soprattutto dalla qualità della vita professionale; cioè dalla qualità del lavoro (sia quando c’è lavoro che quando non c’è).
Stiamo veramente vivendo una mutazione “genetica” nelle nostre condotte di lavoro. In alcune circostanze possiamo verificare una vera alterazione nei parametri qualitativi della nostra vita e sono presenti nuove disfunzioni che attualmente stanno affliggendo la salute delle persone. Da una parte vi sono problematiche di tipo “fisico”: disturbi molto spesso cronicizzati e in stretto rapporto con la fatica mentale e lo stress; dall’altra sono evidenti le problematiche di natura “animica” o “mentale”, derivanti da un non armonico rapporto con se stessi, i propri colleghi, i dipendenti, il lavoro e il ruolo. Si tratta di campanelli d’allarme che mostrano molto chiaramente la necessità di una riflessione sulla salute al lavoro nell’attuale clima di accresciuta competizione e di cambiamenti nei modelli di occupazione.

Con sempre maggiore frequenza oggi proviamo una certa inquietudine per le conseguenze di modelli organizzativi e di procedure di lavoro che sembrano aumentare soprattutto la gravosità dei carichi mentali. Alla richiesta di fare presto, meglio e a meno costi, le aziende e le organizzazioni sono costrette a introdurre nuove pratiche e procedure organizzative che comportano l’assunzione di compiti nuovi e più impegnativi per le persone che vi lavorano. Le difficoltà e i problemi nuovi, sono segnali che impongono di aggiornare i nostri strumenti professionali i quali, naturalmente, coinvolgono a vario livello specifiche competenze e professionalità.
Tutto ciò presuppone che venga posta una attenzione più marcata alla “socializzazione” della psicologia, che essa non resti solo appannaggio degli esperti, ma faccia parte delle competenze di base di ogni individuo: per la vita quotidiana, per il lavoro, per le relazioni che essa vorrà intessere.
Emerge la necessità di trasformare le disfunzioni e gli elementi critici emergenti in esperienze pro-positive, avviare interventi di formazione e di ricerca adeguati alle mutate condizioni. La psicologia e gli psicologi non sono esclusi in queste trasformazioni;
In futuro qualsiasi intervento di promozione della salute, qualsivoglia attività di prevenzione in fatto di salute, non potrà prescindere dalla cultura della psicologia
La psicologia ha davanti a sé una lunga strada di continua ricerca azione, un costante “cimento” che offrirà a ciascuno la opportunità di sentirsi al passo con le evoluzioni dei bisogni professionali autodiretti ed eterodiretti.

Si parla quotidianamente nei mass media di disagio ma sono poco diffuse le conoscenze su quanto si può fare e si fa per promuovere il benessere psicologico.
Una manifestazione per promuovere il benessere psicologico dovrà basarsi sulla convinzione, ormai diffusa, che il migliore modo di prevenire il malessere delle persone non è quello di intervenire direttamente su di esso, ma di perseguire iniziative volte a potenziare abilità fondamentali per l’adattamento nei diversi contesti di vita.
Le condizioni di autoefficacia in questo caso costituiscono gli indicatori più possibili di tali capacità e pertanto rappresentano importanti determinanti del benessere delle persone.
Occorre considerare le persone come agenti attivi del loro sviluppo, perché essi sono in grado di trarre vantaggio dalle relazioni con se stessi, gli altri, il lavoro, la famiglia, ecc.
Ciò che contraddistingue le convinzioni di autoefficacia delle donne e degli uomini è la loro specificità: tali convinzioni variano in relazione alle diverse aree del funzionamento umano ed in relazione ai diversi ambiti in cui si declina l’esperienza individuale.
Molti studi, anche nel contesto italiano, hanno sottolineato l’importanza del senso di autoefficacia, nelle sue diverse articolazioni relazionali, nel promuovere il benessere psicologico ed ostacolare le condizioni di rischio.
Lo psicologo è in grado di fornire suggerimenti di indirizzo e intervento, per agevolare nelle persone le abilità cognitive, emotive ed interpersonali indispensabili per il loro benessere.

OBIETTIVI

– Fornire informazioni sulla capacità professionale, la qualità degli interventi e la specificità della formazione degli psicologi e della psicologia

– Aiutare a riconoscere che le strategie proattive per agevolare il benessere psicologico, legato alla attività lavorativa, all’allevamento dei figli, ecc., possono avere un ruolo importante sulla collaborazione interna e l’aumento di partecipazione dei collaboratori.

– Contribuire ad eliminare i pregiudizi sul disagio psichico e facilitare lo scambio di buone pratiche per agevolare nelle persone abilità cognitive, emotive ed interpersonali indispensabili per il loro benessere.

– Rendere evidente che è sempre più necessario tener conto dei bisogni di donne e uomini, bambini, giovani e anziani, più esplicitamente e dichiaratamente psicologici

– Informare che lo psicologo oggi opera sempre più in contatto con il medico, il sociologo, l’assistente sociale, le istituzioni socio assistenziali, ecc., per affrontare in una prospettiva multidisciplinare i principali problemi che coinvolgono più o meno indirettamente la salute e il benessere delle persone in rapporto con la loro cittadinanza e la loro vita lavorativa.

CONTATTI:
Studio Dott. Vittorio Tripeni, 3470469694 tripeni@fastwebnet.it

La violenza e le molestie sul luogo di lavoro aumentano in Europa

La violenza, le intimidazioni e le molestie sul luogo di lavoro sono fenomeni sempre più comuni in Europa, stando a quanto emerge da una nuova relazione dell’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (EU-OSHA). Tuttavia, la risposta delle organizzazioni e dei governi nazionali è avvertita in larga misura come inadeguata.

La violenza e le molestie da parte di terzi riguardano dal 5% al 20% dei lavoratori europei, a seconda del paese, del settore e della metodologia impiegata. La relazione “Workplace Violence and Harassment: a European Picture” (violenza e molestie sul luogo di lavoro: un quadro europeo) presenta statistiche internazionali raccolte dall’Osservatorio europeo dei rischi, che fa parte dell’EU-OSHA. In base alla sua recente indagine paneuropea sui luoghi di lavoro, ESENER, il 40% dei dirigenti europei è preoccupato per la violenza e le molestie sul luogo di lavoro; tuttavia solo circa il 25% (e non più del 10% in molti paesi dell’UE) ha attuato procedure per affrontare questo fenomeno. Il problema è ancora più accentuato nei settori dei servizi sanitari e sociali e dell’istruzione, dove per più del 50% dei dirigenti è rilevante in termini di salute e sicurezza.
“La violenza e le molestie costituiscono minacce gravi per la sicurezza e il benessere dei lavoratori in Europa, ma non sempre vengono segnalate”, afferma Jukka Takala, direttore dell’Agenzia. “La violenza, le aggressioni verbali o le minacce cui i dipendenti vengono sottoposti da clienti o pazienti sono problemi importanti per la salute e la sicurezza. E le conseguenze psicologiche sono a volte più pericolose delle ferite fisiche. Le molestie sul luogo di lavoro possono portare a stress, a congedi di malattia di lunga durata e persino al suicidio. Le ripercussioni economiche sono una ridotta produttività, un aumento delle assenze per malattia, un più rapido avvicendamento del personale e il pensionamento anticipato dovuto a disabilità spesso in giovane età.”
La relazione evidenzia inoltre che in numerosi paesi europei il fenomeno della violenza sul luogo di lavoro non è ancora sufficientemente riconosciuto e che le iniziative specifiche destinate ad affrontarlo sono scarse. A livello nazionale e tra le singole organizzazioni è necessario promuovere una sensibilizzazione e attuare politiche e procedure per far fronte e prevenire la violenza e le molestie sul lavoro.
L’EU-OSHA ha organizzato un seminario di due giorni in cui responsabili delle politiche, ricercatori e rappresentanti di datori di lavoro e dipendenti si sono confrontati sulle sfide da sostenere per affrontare efficacemente la violenza sul luogo di lavoro e hanno esaminato modi nuovi e concreti per tutelare la salute e il benessere dei lavoratori, in linea con le esigenze specifiche dei paesi e delle organizzazioni.
Link
Versione completa della relazione “Workplace Violence and Harassment: a European Picture” http://osha.europa.eu/en/publications/reports/violence-harassment-TERO09010ENC/view
Leggi una sintesi del seminario http://osha.europa.eu/en/seminars/seminar-on-violence-and-harassment-at-work
Indagine europea tra le imprese sui rischi nuovi ed emergenti (ESENER) http://osha.europa.eu/it/riskobservatory/enterprise-survey/enterprise-survey-esener
Stress sul lavoro http://osha.europa.eu/it/topics/stress

(fonte: Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro)

Del buon uso del potere in azienda

Due storie a confronto che ci aiutano a comprendere quanto può essere esteso il divario di cultura organizzativa tra due grandi aziende tecnologicamente avanzatissime e conosciute in tutto il mondo.
Il primo caso riguarda la vicenda in cui Mazda motors – secondo le notizie di stampa – è stata condannata a versare un indennizzo di 63 milioni di yen, circa 550.000 euro, alla famiglia di un suo impiegato che si uccise nel 2007. Secondo gli aventi causa, tra le ragioni che avevano spinto al suicidio il proprio familiare, che aveva allora 25 anni, vi sarebbero state il troppo lavoro e le eccessive pressioni da parte dei superiori. Che avrebbero posto in essere un comportamento antigiuridico definito in Giappone come “pawahara“; termine mutuato dall’inglese “power harassment“ che connota la violenza di potere, ovvero l’arbitrario esercizio del potere sui propri dipendenti.
L’azienda ha sostenuto di aver protetto l’uomo e che il suo suicidio non aveva alcuna relazione con il suo lavoro.
I ricorrenti avevano dichiarato che il lavoro extra svolto dal loro familiare superavano il limite legalmente consentito e sostenevano che Mazda non supportava il lavoro dell’uomo, costringendolo a lavorare eccessivamente anche quando già era ammalato. L’ufficio di Hiroshima, incaricato della vigilanza sul lavoro, nel 2009 aveva riconosciuto che il ragazzo soffriva di una malattia dovuta al forte stress causato dal suo incarico, legittimando la richiesta d’indennizzo da parte della famiglia, in quanto proprio questo stress l’aveva portato al suicidio.
Il giudice Ryuji Nakamura, della Corte del distretto di Kobe, lo scorso 28 febbraio, ha accertato che il venticinquenne era caduto in uno stato depressivo a causa degli estenuanti ritmi aziendali, affermando che l’azienda avrebbe potuto evitare il suicidio e riconoscendo che le condizioni di lavoro dell’uomo erano state troppo dure. “Il lavoro svolto dalla vittima prima di suicidarsi era eccessivo sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo e la sua decisione di togliersi la vita è attribuibile a questo”.
Le morti per eccesso di lavoro, fenomenicamente definite karoshi, hanno avuto il primo caso in Giappone nel lontano 1969 e da allora sono stati registrati migliaia di casi simili. Soltanto nell’ultimo anno in questo paese almeno cento persone sono morte per l’eccessivo carico di lavoro e ben 63 lavoratori si sono uccisi per lo stesso motivo.
Dal 2007 (lo stesso anno in cui avvenne il suicidio narrato prima) BMW lavora su un progetto pilota che ha un nome eloquente: Heute für morgen, oggi per domani. In questo modo la casa automobilistica si confronta con il problema dell’invecchiamento della mano d’opera e allo stesso tempo testimonia che il lavoro degli anziani è efficace quanto quello dei più giovani e risulta essere di migliore qualità. Tale è la conclusione alla quale l’azienda è giunta dopo le prime esperienze fatte nello stabilimento di Dingolfing, nella Germania del sud. Si tratta di un’iniziativa su misura per operai ‘anziani’ dei quali il gruppo tedesco non vuole perdere l’esperienza. Il piano è stato avviato proprio per mantenere in attività i lavoratori senior e maggiormente esperti affinché l’invecchiamento delle risorse umane non abbia come conseguenza uno svantaggio concorrenziale per l’impresa.
Nel segnalare che si tratta di una novità mondiale, la Bmw annuncia che nell’impianto di Dingolfing lavorano operai di ogni età ma la fabbrica è dedicata soprattutto a quelli più anziani ed esperti che il gruppo automobilistico bavarese spera così di mantenere al lavoro più a lungo anche grazie a una serie di interventi ad hoc con l’obiettivo di limitare i problemi di salute dei lavoratori della catena di montaggio che esercitano un lavoro ripetitivo e usurante.
L’intervento per migliorare i posti di lavoro è stato ispirato dalle stesse idee dei lavoratori con il supporto di alcuni fisioterapisti che hanno valutato con precisione i rischi relativi a ciascuna postazione. Di conseguenza, i pavimenti di cemento sono stati sostituiti dal parquet; sono state distribuite scarpe a pianta larga, più adatte per i piedi e il peso dei senior; i monitor di controllo sono stati abbassati e inclinati al punto giusto, in modo da evitare i movimenti ripetitivi del capo; le informazioni sono state scritte con caratteri più evidenti; il cambio del turno di lavoro avviene ogni quattro ore; è stata proposta una formazione specifica sull’igiene personale e l’alimentazione; hanno a disposizione una sala relax e ricevono settimanalmente la visita di una kinesiterapista per gli eventuali interventi di rieducazione funzionale. Sono molti i dettagli che fanno la differenza e spesso sono stati messi in pratica semplici e poco onerosi accorgimenti.
I cambiamenti sono stati molto apprezzati sia dai lavoratori con maggiore anzianità che dai più giovani e hanno permesso di aumentare la produttività del gruppo coinvolto del 7%. Soddisfatta di questi risultati, la casa automobilistica ha esteso il suo progetto pilota agli stabilimenti di Monaco, Steyr e Leipzig.
Due esempi che non hanno bisogno di molti commenti; da parte mia, rimango fedele ad un approccio europeo dell’innovazione organizzativa e soprattutto al coinvolgimento attivo dei lavoratori. Il futuro delle imprese è legato alla responsabilità sociale e “societaria” delle persone.

Per approfondire la storia BMW: https://www.press.bmwgroup.com/pres….