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Emergenze, eventi critici e situazioni di disagio

Le situazioni nelle quali le persone si ritrovano a confronto di eventi critici, sono molteplici e possono presentarsi in modo diverso, secondo gli agenti scatenanti il fatto e le conseguenze dirette e indirette. Sia nel caso si tratti di un processo di “vittimizzazione primaria”, in cui le persone si trovano loro malgrado a subire conseguenze dirette, sia che riguardi un “coinvolgimento di servizio” in qualità di operatori del soccorso o dell’emergenza. In ambedue i casi concorrono diversi elementi comuni:
– il contenuto emotivo/affettivo dell’esperienza;
– la percezione e la valutazione del rischio;
– la gestione della comunicazione e l’elaborazione delle informazioni, in stretta relazione con la “presa della decisione” e la “motivazione” delle persone coinvolte.

In ogni caso influiscono anche le caratteristiche ambientali, perché freddo, caldo, altitudine, umidità, ecc., possono avere conseguenze fisiopatologiche che, oltre a comportare eventuali patologie specifiche, interferiscono in ogni caso con le condizioni psicologiche e sociali delle persone coinvolte.

1. Gli eventi naturali
Per quanto riguarda il coinvolgimento della popolazione, in genere gli eventi critici possono essere classificati come attesi e non attesi. Ad esempio, chi si confronta con il rischio e il pericolo in modo continuativo (pensiamo a tutti gli sport cosiddetti “estremi”) sa che può aspettarsi da un momento all’altro di rimanere coinvolto in una situazione critica. Invece chi, ad esempio, si trova coinvolto in un terremoto non ha certo previsto ciò che gli sarebbe capitato.
Su un altro versante, vi sono quelli che si confrontano con i rischi in quanto “implicati per scelta”. Come nel caso del personale dei servizi di soccorso e emergenza, oppure le forze dell’ordine. Che sebbene abbiano accettato di correre dei rischi scegliendo quella professione, possono trovarsi di fronte a situazioni che non hanno provocato, né alimentato o sostenuto e tantomeno auspicato.
Oltre alle diverse modalità di far fronte all’evento, teniamo conto anche della distinzione tra evento critico d’origine naturale ed evento critico di origine umana (accidentale o volontaria). Che segna anche il punto di svolta indispensabile per una efficace comprensione dei fenomeni fisiopatologici, eziopatogenetici e clinici correlati con l’evento o gli eventi.

Quali sono i fattori di maggiore nocività degli eventi critici d’origine naturale?
Il pericolo, talvolta l’isolamento (inteso anche come mancanza di informazioni), la condizione di profugo degli sfollati e degli evacuati, le condizioni di vita dei soccorritori nel corso di missioni di lunga durata. Queste sono alcune variabili che influiscono più o meno a lungo termine sulle persone coinvolte.
La eventuale aggressività fisica delle vittime e talvolta dei soccorritori, potrebbe avere relazione con l’aggressività derivante dagli effetti patogeni dell’evento traumatico, soprattutto presso le persone con una non sufficiente capacità di coping .
Nel contesto sociale possono emergere delle manifestazioni comportamentali, legate al panico ad esempio, ma anche esordi psicopatologici, come nel caso della nevrosi traumatica. Tutto ciò avrà degli effetti anche sugli operatori che, indipendentemente dalla gestione iniziale della situazione, rischiano di ritrovarsi a confronto con ulteriori eventi di cui essi potrebbero essere contemporaneamente i gestori, i soccorritori, ma anche gli attori passivi e le vittime.

Le catastrofi e gli incidenti
Il termine catastrofe è attualmente inteso nel senso di situazione accidentale grave, collettiva, che ha origine naturale e/o artificiale. La catastrofe si definisce essenzialmente come un evento che risulta dannoso per la collettività umana che la subisce.
Sono molteplici gli elementi caratterizzanti una catastrofe:
coinvolge la collettività;
– ha caratteristiche di brutalità, di accadimento inaspettato;
– è un evento non abituale;
– provoca danni e distruzioni di massa.
Louis Crocq, uno dei massimi esponenti della psicotraumatologia, nel 1987 ha aggiunto a questa descrizione la nozione di perturbazione sociale, di alterazione dei sistemi sociali funzionali (evidenziando in questo modo le caratteristiche della “criticità”).
Gli eventi critici classificati come “catastrofe naturale”, citati dalla letteratura scientifica, possono essere raggruppati:
– in rapporto con gli elementi geologici: eruzione vulcanica, frana, sisma, erosione, straripamento;
– in rapporto agli elementi climatici: tempeste, trombe d’aria, uragani, cicloni, maremoti, inondazioni, siccità, variazioni termiche, ecc.
– in relazione alla popolazione: malattie endemiche, epidemie, sovrappopolazione, carestie, ecc.
– invasioni animali: cavallette, termiti, topi, ecc.

2. Gli eventi di origine antropica
Sono direttamente dipendenti dal fattore umano e i loro effetti psicopatologici sulle vittime dirette e le “professioni a rischio” si presenteranno in modo diversi dai precedenti. Dal momento che, il fattore (umano) scatenante, diretto o indiretto, volontario o involontario, orienterà il pensiero delle persone direttamente e/o indirettamente coinvolte, a una logica fondata su un’opposizione radicale di vero e falso, bene e male (o bianco o nero) e alla loro moralistica opinione personale sul caso.
Ad esempio:
– “ non è possibile che un essere umano faccia una cosa simile! ”
– “ io non sarei capace di arrivare fino a quel punto! ”
– “ perché non ci difendiamo da tali comportamenti? ”

In generale, è possibile raccogliere schematicamente in due gruppi gli eventi critici imputabili all’uomo:

1. Quelli non voluti direttamente, risultanti dalla civiltà industriale e in relazione con:
– la terra: rottura di dighe, negligenze di natura ambientale, contaminazione radioattiva, ecc.;
– l’aria: piogge acide, esplosioni, nubi radioattive, smog;
– il fuoco: origine elettrica, chimica, vapori pericolosi, combustioni spontanee;
– l’acqua: contaminazione delle falde, marea nera, siccità, ecc.;
– la popolazione: incidenti di lavoro, incidenti causati dalla folla durante le partite di calcio, sommosse, incidenti marittimi, ferroviari, aerei.

2. Quelli voluti direttamente: il cui effetto psicologico avrà intense ripercussioni nel momento in cui le persone coinvolte e il “professionista” prendono coscienza del potenziale aggressivo e distruttivo dell’azione posta in essere:
– che chiamano in causa un numero limitato di individui: ingorghi, aggressioni urbane, presa di ostaggi, attentati, dirottamento di aerei, incendi, estorsioni criminali attraverso l’uso di virus o di veleni, violenze familiari;
– coinvolgenti un numero elevato di individui che agiscono contemporaneamente: guerre, guerriglie, guerre civili, terrorismo di stato, sommosse scatenate volontariamente da agitatori con l’obiettivo di destabilizzazione sociale, deportazioni, genocidi.

3. I fattori che possono innescare effetti dannosi

Il pericolo
Le persone coinvolte da un evento critico di particolare gravità si confrontano con il pericolo a diversi livelli e in diverse situazioni, sia di origine naturale che antropica. In tutti i casi, la risposta al pericolo corrisponde a una mobilitazione della vigilanza, che nelle persone ben adattate o ben preparate, comporterà conseguenze fisiche o psichiche minori.
Ciò che si dovrà temere, nel lungo periodo, è l’esaurimento delle risposte adattive in possesso di ciascun individuo (e diverse da individuo a individuo), un esaurimento contemporaneamente psichico, neurosensoriale e fisico, che porta ad abbandonare la lotta e cadere nella depressione.

L’isolamento
Parola diversa da “solitudine”, può ingenerare comportamenti aggressivi o depressivi. I professionisti impegnati in particolari interventi di soccorso possono essere a confronto con questa particolare situazione. Quella di ritrovarsi isolati, cioè vivere durante un lasso di tempo lontano dal mondo abituale e delle proprie radici. Ad esempio in occasione di un soccorso in montagna, in ambienti ostili, in occasione di grandi catastrofi (terremoti, eruzioni) i nostri operatori, anche se sono in gruppo, possono incontrare situazione di stress direttamente legate a questo isolamento, che viene ad aggiungersi agli altri parametri relativi alle criticità.
Le frustrazioni affettive, sociali, la perdita del contesto abituale di vita, delle relazioni amicali, familiari, del confort di vita elementare, la rottura dei ritmi circadiani rappresentano una pressione reale. La mancanza di stimoli abituali può innescare un rimuginio di idee e di problemi non risolti.
Situazioni simili si presentano nel corso di una prolungata assenza di informazioni che restituiscano un quadro comprensibile della situazione in cui si è direttamente coinvolti.

Il confinamento
Riguarda soprattutto le operazioni di soccorso di lunga durata, il confinamento può favorire l’emergenza di conflitti interpersonali con formazione di sottogruppi di opposizione.
Un argomento specifico o una critica diventano l’oggetto di sviluppi immaginativi poco razionali che traggono il loro alimento e la loro crescita da essi stessi, finché un qualche stimolo esterno non viene a cambiare il motivo di interesse.
Talvolta mal tollerato a livello individuale e fonte di manifestazioni patologiche, il confinamento può essere anche mal sopportato a livello di gruppo, il quale cessa di essere operativo oppure si rivolta contro il leader o contro l’autorità lontana dalla quale dipende (Bluth, 1979; Rivolier, 1979).
Del resto, è frequente, nelle condizioni estreme, che il dialogo risulti difficile per incomprensione reciproca tra il campo delle operazioni e i lontani responsabili.
Anche in questo caso la mancanza o la scarsità di informazione, comunicazione e relazione, con chi “ha in mano” il punto della situazione, risulta fonte di confinamento e di stress.

Le specifiche attività
Se lo stress originato dalla situazione differisce enormemente secondo i casi configurati, non è da meno il fatto che l’ambito lavorativo è all’origine di scariche aggressive che esprimono le difficoltà di adattamento della persona: il materiale non va bene o non è adatto, il procedimento non è idoneo, l’impiego del tempo è impossibile da rispettare, ecc. Spesso (e talvolta superficialmente) si è tentati di dare un’interpretazione psicopatologica realistica rispetto al momento. Ma non è raro appurare che la rivendicazione espressa in quella circostanza si fondi sulla realtà incombente.

Trasformare le disfunzioni e gli elementi critici in esperienze pro-positive

Star bene con se stessi e con gli altri è certamente un obiettivo ambizioso e faticoso da raggiungere, ma perseguibile con facilità proprio partendo dal presupposto che è un diritto dovere curare e confortare il proprio stato d’animo.

E dato che il benessere psicologico di ciascuno di noi dovrebbe essere considerato il nucleo fondamentale e indispensabile per una buona qualità della vita, ad esso dovrebbe essere conferito il giusto merito ed attribuito un adeguato valore.

Proprio per questo, chi si trova nella condizione di voler richiedere un supporto psicologico, ma non ha le possibilità economiche per conseguire tale obiettivo privatamente e deve purtroppo confrontarsi con liste d’attesa lunghissime per accedere ai servizi pubblici, va aiutato.

Dobbiamo essere consapevoli che, in tema di salute e qualità della vita, il lavoro – inteso in senso lato come investimento di energie personali per il conseguimento di un determinato fine – è innanzitutto una fonte di riconoscimento individuale e, di conseguenza, con un forte impatto sulla nostra identità sociale.
Se proviamo a renderci conto che viviamo la maggior parte della nostra giornata immersi nelle nostre attività di lavoro, non possiamo nasconderci che attualmente la qualità della nostra vita è rappresentata soprattutto dalla qualità della vita professionale; cioè dalla qualità del lavoro (sia quando c’è lavoro che quando non c’è).

Viviamo già da tempo una mutazione “genetica” nelle nostre condotte di lavoro. In alcune circostanze possiamo verificare una vera alterazione dei parametri qualitativi della nostra vita e sono presenti nuove disfunzioni che attualmente stanno affliggendo la salute delle persone.
Da una parte vi sono problematiche di tipo “fisico”: disturbi molto spesso cronicizzati e in stretto rapporto con la fatica mentale e lo stress; dall’altra sono evidenti le problematiche di natura “psichica” o “mentale”, derivanti da un non armonico rapporto con se stessi, i propri colleghi, i dipendenti, il lavoro e il ruolo.
Si tratta di campanelli d’allarme che mostrano molto chiaramente la necessità di una riflessione sulla salute al lavoro nell’attuale clima di accresciuta competizione e di cambiamenti nei modelli di occupazione e trasformazioni nelle pratiche professionali.

Con sempre maggiore frequenza oggi proviamo una certa inquietudine per le conseguenze di modelli organizzativi e di procedure di lavoro che sembrano aumentare soprattutto la gravosità dei carichi mentali.
Alla richiesta di fare presto, meglio e a meno costi, le aziende e le organizzazioni sono costrette a introdurre nuove pratiche e procedure organizzative che comportano l’assunzione di compiti nuovi e più impegnativi per le persone che vi lavorano.
Le difficoltà e i problemi nuovi, sono segnali che impongono di aggiornare i nostri strumenti professionali i quali, naturalmente, coinvolgono a vario livello specifiche competenze e professionalità.

Questo presuppone che venga posta una attenzione più marcata alla “socializzazione” della psicologia, che essa non resti solo appannaggio degli esperti, ma faccia parte delle competenze di base di ogni individuo: per la vita quotidiana, per il lavoro, per le relazioni che essa vorrà intessere.

Da qui la necessità di trasformare le disfunzioni e gli elementi critici emergenti in esperienze pro-positive, avviando interventi di formazione e di ricerca adeguati alle mutate condizioni.

La psicologia e gli psicologi non sono esclusi in queste trasformazioni. Perché ormai qualsiasi intervento di promozione della salute, qualsivoglia attività di prevenzione in fatto di salute, non può prescindere dalla cultura della psicologia
La psicologia ha davanti a sé una lunga strada di continua ricerca azione, un costante “cimento” che offrirà a ciascuno la opportunità di sentirsi al passo con le evoluzioni dei bisogni professionali autodiretti ed eterodiretti.

In questo faticoso momento dell’emergenza Coronavirus (in cui è forte anche il pericolo di una pandemia mentale) si parla spessissimo nei mass media soprattutto del disagio esistenziale, ma sono poco diffuse le conoscenze su quanto si può fare e si fa per promuovere il benessere psicologico.

La nostra iniziativa per promuovere il benessere psicologico si basa sulla convinzione, ormai diffusa, che il migliore modo di prevenire il malessere delle persone non è quello di intervenire direttamente su di esso, ma di perseguire iniziative volte a potenziare abilità fondamentali per l’adattamento nei diversi contesti di vita.

Le condizioni di autoefficacia in questo caso costituiscono gli indicatori più possibili di tali capacità e pertanto rappresentano fondamentali determinanti del benessere delle persone.
Occorre considerare gli individui come agenti attivi del loro sviluppo, perché essi sono in grado di trarre vantaggio dalle relazioni con se stessi, gli altri, il lavoro, la famiglia, ecc.

Ciò che contraddistingue le condinzioni di autoefficacia delle donne e degli uomini è la loro specificità: tali condinzioni variano in relazione alle diverse aree del funzionamento umano ed in relazione ai diversi ambiti in cui si declina l’esperienza individuale.
Molti studi, anche nel contesto italiano, hanno sottolineato l’importanza del senso di autoefficacia, nelle sue diverse articolazioni relazionali, nel promuovere il benessere psicologico ed ostacolare le condizioni di rischio.

Lo psicologo è in grado di fornire suggerimenti di indirizzo e intervento, per agevolare nelle persone le abilità cognitive, emotive ed interpersonali indispensabili per il loro benessere. Aiuta a riconoscere che le strategie proattive possono agevolare il benessere psicologico, legato alla attività lavorativa, all’allevamento dei figli, ecc.
Mettendo in evidenza che esse svolgono un ruolo importante anche sulla collaborazione e l’aumento di engagement dei collaboratori.
Prende parte attiva nella eliminazione di pregiudizi sul disagio psichico e facilita lo scambio di buone pratiche per agevolare nelle persone abilità cognitive, emotive ed interpersonali indispensabili per il loro benessere.
Rendendo così evidente che è sempre più necessario tener conto dei bisogni più esplicitamente e dichiaratamente psicologici e spirituali, per mantenere una sana e soddisfacente qualità della vita.

La gestione dell’evento critico come processo evolutivo

Prevenire le conseguenze indesiderate del un evento critico, in fin dei conti significa saper gestire la situazione che si è palesata nell’occasione. Senza tale capacità sarebbe veramente difficile immaginare un’adeguata gestione degli eventi e la necessaria comprensione (e capitalizzazione) dell’accaduto. Per fare tutto questo, non basta elaborare un piano di interventi infarcito dei vari tecnicismi di grido; occorre soprattutto interrogarsi su quanto “comunica” il cambiamento e quali sono le azioni che “conducono” alla necessaria capacità di governo della situazione. L’esperienza mi ha fatto comprendere che è necessario, a fianco del sapere tecnico, esprimere capacità non necessariamente tecniche che, alla luce dei fatti, aiutano ad esprimere al meglio la tecnologia.

Mi riferisco, in questo caso, a quelle competenze di natura non tecnica necessarie per gestire in modo efficace le problematiche dipendenti dai comportamenti umani; quelle capacità che ci aiuteranno a comprendere ciò che ci spinge ad agire, a reagire o addirittura a non agire.

 

Le persone e le organizzazioni sono obbligate a adattarsi ai cambiamenti. È inevitabile. Spesso si tratta soltanto di passaggi evolutivi che coinvolgono, sia sul piano tecnico e strutturale che su quello organizzativo e culturale, gli organismi nel corso della loro esistenza. Non è una novità; anche se solitamente se ne enfatizza la portata, soprattutto in relazione ai necessari adattamenti che la nostra vita ci impone.

Cambiamento, evoluzione, mutazione, trasformazione, metamorfosi, progresso … sono alcuni dei temi legati alla storia dell’umanità e ai rapporti che essa ha stabilito, da Adamo in avanti, con la natura circostante. Sono le questioni della vita in generale, che hanno occupato sin dagli albori la mente di uomini e donne alla ricerca delle regole che sostengono tali processi. Con la prospettiva di dominarli, assecondarli, controllarli, riprodurli, manipolarli, dirigerli … giorno dopo giorno.
Si potrebbe dire che è attraverso tale ricerca che ognuno di noi riesce a trovare il sale o il gusto per la propria vita e i motivi sufficienti per crescere come persona, realizzando la propria individuazione.
Tuttavia, nonostante il “cambiamento” e i suoi vari processi o manifestazioni siano sempre esistiti, ciascuno di noi fa fatica a cambiare o, meglio, ad adattarsi. Meno per quanto riguarda le trasformazioni che avvengono fuori della propria consapevolezza desta; molto, per quei casi in cui ci si trova coinvolti direttamente e che ci chiedono una presenza e un impegno in prima persona.

È un cimento che cementa.
Una prova “impegnativa” o addirittura rischiosa (il cimento) sin dai tempi di quelle che F. Braudel definì “onde lunghe della storia” e che attualmente sono diventate sempre più brevi e interdipendenti.

Una condizione o situazione, in cui la persona vi si trovare volontariamente (in quanto ha deciso di cambiare qualche aspetto della sua esistenza) oppure coinvolta dalle circostanze. Una sfida che, in un certo senso, richiede di dimostrare se si possiedono determinate qualità o attitudini. Può trattarsi perciò di una “contingenza difficile”, che mette alla prova le nostre capacità o che può rendere evidente o meno la fondatezza di una nostra decisione oppure la realtà di un fatto. Il “cimento” diventa perciò per noi una “verifica” e un “ri-conoscimento”, che lo si voglia ammettere o No. Ed è per questo forse che ci rende ansiosi.

In generale il cambiamento è un evento che svela le qualità o inclinazioni di chi compie la prova e certamente anche di chi vi si trova sottoposto. Ma non ci si può contentare di sottoporsi o subirlo il cambiamento: occorre gestirlo, accompagnarlo, dirigerlo, guidarlo, attraverso un necessario processo di adattamento e una indispensabile ricerca di alleanze. Questo è il cemento che consolida la nuova opera, il nuovo percorso di sviluppo.
Tenendo in considerazione il complesso di relazioni personali e professionali della nostra vita attiva, sarà necessario agire adeguatamente per rettificare la percezione e la comprensione dei rapporti di interdipendenza relativi al cambiamento in atto.

Tutto si evolve ed è in costante mutamento. In ogni momento ciascuno è portato a confrontarsi con i continui e ripetuti sbilanciamenti (e, di conseguenza, le trasformazioni e gli adattamenti) che si ripetono in tempi sempre più ravvicinati e dei quali talvolta non comprendiamo il senso. Il cambiamento richiede una discreta vivacità intellettuale, una minima curiosità verso il nuovo, affinché ciascuno possa sentirsi pronto a cogliere l’occasione, a seguire un’intuizione e ed elaborare le necessarie fasi della realizzazione pratica di un progetto.

Bisognerà pretendere dai diretti interessati una capacità che tuttavia rimane ancora molto evanescente per la maggior parte di noi: la “creatività”. Ovvero l’attitudine verso nuove idee per trovare soluzioni inedite. Evitando di riprodurre puramente e semplicemente l’esistente; in breve, per decidere novità che, ahimé, metteranno in “crisi” la normalità del quotidiano e le nostre comode abitudini. Soprattutto per il fatto che – non nascondiamocelolo – di solito invochiamo la creatività, la capacità di innovare, purché ciò non disturbi o sconvolga la tradizione.

Alludo in questo caso alla capacità – o meglio, “abilità” – che non è tanto creatività o generatività, quanto “intelligenza che trasgredisce”, cioè che va fuori degli schemi prefissati. Precisando che la trasgressione creativa non è necessariamente l’anarchia, quanto il coraggio di andare “oltre” le diagnosi degli “esperti” e gli stereotipi della cultura tradizionale che, in fin dei conti, spesso riproducono solo quanto è certo e quindi già “dato”.

Ogni organismo, organizzazione, sistema, possiede forza e debolezza, limiti ed opportunità, sul piano delle persone, dei processi e delle strutture. In questi ambiti la psicologia, attraverso la professionalità e gli strumenti utilizzati dagli psicologi, può dare una mano ad orientarsi e “pesare” gli investimenti necessari.

Lo psicologo esperto può collaborare con le persone e le organizzazioni per elaborare insieme un piano per la gestione del cambiamento, affiancandole temporaneamente nelle decisioni, facilitare con adeguati apporti metodologici i gruppi di lavoro, contribuire alla elaborazione e alla realizzazione di una efficace attività di comunicazione interna.

L’affiancamento in forma di coaching, individuale o di gruppo, è talvolta indispensabile per permettere di seguire meglio l’azione del cambiamento, anticipare i problemi, affrontarli con ponderazione per evirare precipitazioni nelle decisioni e garantirsi una coerenza d’insieme.

Ogni forma di cambiamento o di riorganizzazione è anche un’opportunità per diventare ancora più capaci di apprendere dalle esperienze. Ed attraverso una consulenza specifica, è possibile valutare le attività realizzate, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo; anche le caratteristiche del successo, affinché l’esperienza possa essere capitalizzata dalle persone e dalla intera organizzazione.

I processi di cambiamento rappresentano una fonte inesauribile di opportunità per la crescita delle persone e delle aziende.

Il benessere delle relazioni

Spesso quando incontro dirigenti o manager, per un parere professionale o anche per un breve scambio di impressioni a margine di un evento, ogni tanto li sento raccontare di “problemi umani” verso i quali provano una legittima difficoltà. A volte la situazione rischia di degenerare miseramente, in altre si corre anche il pericolo di essere oggetto di aggressioni verbali o fisiche. Talora non è infrequente incontrare elementi veramente difficili da gestire, eterni insoddisfatti, persone continuamente scontente che rendono la vita pesante a colleghi e collaboratori.

I miei interlocutori vogliono farmi capire quanto certe volte possa essere complicato, se non impossibile, portare avanti una iniziativa, una attività nuova o un progetto. Svolgere un compito di guida o di coordinamento, mantenere un minimo di agio all’interno di una riunione. Talora si fa molta fatica a organizzare le persone e il gruppo, farle partecipare attivamente, ricondurre le discussioni sul tema all’ordine del giorno, gestire le tensioni e i conflitti. Far fronte ai pensieri negativi, alle frasi killer, al fuoco incrociato per evidenziare tutte le difficoltà e tentare di affossare definitivamente l’idea.

Un collaboratore “problematico” è una spina nel fianco per un capo diretto. Talvolta, lo è anche per i suoi colleghi e spesso questi ultimi fanno pressione sul dirigente affinché egli possa risolvere il problema e faciliti un’atmosfera di lavoro più tranquilla. In alcuni casi la stanza del capo può diventare l’ufficio del pianto (“il mio ufficio è diventato un ufficio reclami …”) di eventuali clienti insoddisfatti o addirittura offesi dal comportamento del dipendente.

Sarà forse perché in azienda si è più interessati alla valutazione delle performance, ai bilanci e ai risultati delle vendite e meno all’interesse per le relazioni tra le persone che lavorano? Senza dubbio i numeri sono fondamentali per la sopravvivenza e il progresso dell’organizzazione aziendale e per la definizione delle strategie future. Tuttavia è necessario considerare che il successo passa anche attraverso un esame approfondito della disposizione mentale dei dipendenti e di quel loro patrimonio di competenze e abilità individuali specificamente umane. Ad esempio, chiedersi chi fa che cosa, come, in quale stato d’animo, è fondamentale per considerare il valore della relazione tra le persone e il loro lavoro.

Le aziende stanno di nuovo lasciando il passo a logiche autoritarie di funzionamento organizzativo. Probabilmente questo è dovuto ai cambiamenti in corso e soprattutto alla pressione del breve termine dovuta agli imperativi dei “numeri”, Ad esempio, è vero che i dirigenti attualmente sono meno numerosi di un tempo, tuttavia non è una spiegazione sufficiente quando alcuni di essi si fanno notare per il loro sbrigativo modo di porsi in relazione con i collaboratori.

Sembra quasi che la cultura manageriale moderna, in fatto di miglioramento dei processi comunicativi interni e di un cambiamento di cultura e di comportamenti nella gestione delle risorse umane, non sia ancora entrata del tutto nelle nostre aziende. Forse c’è una scusante, tenendo conto che i manager vengono valutati più volentieri rispetto alla realizzazione di risultati quantitativi (tassi di produttività, riduzione dei costi, standard di lavoro o quote di vendita) e quasi mai rispetto alle loro capacità di mettere in collegamento idee e persone. È raro che li si giudichi sulla base delle loro abilità di far crescere una equipe o sulla perizia di far crescere i propri collaboratori; ambedue elementi fondamentali per l’evoluzione dell’azienda e la sostenibilità organizzativa.

A loro volta molti i manager affermano che, per loro esperienza, è difficile ottenere i rendimenti desiderati senza esercitare una certa autorità sui dipendenti; che ci si arrabbia perché costoro non prendono iniziative e stanno ad aspettare che gli si dica cosa fare. Vero che si può ottenere, attraverso l’autorità, che i dipendenti eseguano i loro compiti, però … per ottenere di più, occorre farseli alleati, mobilitarli, ma soprattutto tenere conto delle loro attese di riconoscimento e rispetto. Ciò che di solito prelude a una maggiore motivazione.

All’interno delle aziende le difficoltà relative ai problemi tecnici sono abbastanza limitate; è veramente difficile riscontrare lacune nelle competenze specifiche (soprattutto se sono state ben valutate in ingresso). Tuttavia, nei gruppi di lavoro, tra le persone coinvolte in un progetto, talvolta, non è facile coordinare gli elementi e articolare le differenze. Il ruolo di responsabilità spesso richiede ora capacità prima impensate; ad esempio, fluidificare i meccanismi della comunicazione interna, lavorando sull’ascolto, la gestione dello stress e delle emozioni, i problemi relazionali. In azienda diventa sempre più importante “curare” un clima di reciproca fiducia e migliorare la coesione del gruppo dei collaboratori.

Chi dirige una azienda o è responsabile di un settore di essa, deve considerare che l’incremento della produttività e la qualità dei servizi si trova sempre più in relazione con il morale dei collaboratori e il benessere (nei termini di “qualità delle relazioni interpersonali”) nei luoghi di lavoro.

Contribuire alla qualificazione complessiva della comunicazione interna, migliorare il clima organizzativo, significa in sostanza agevolare le transazioni relazionali di chi vi lavora, metterne a punto i relativi meccanismi di regolazione per garantire il successo dell’azienda e dei suoi prodotti/servizi.

Le ricerche scientifiche di Psicologia delle Organizzazioni hanno da tempo dimostrando che chi lavora in un contesto relazionale sano e privo di tensioni, da alle aziende un netto vantaggio sulla concorrenza. Le aziende che investono sul clima interno ne traggono benefici, per il fatto che favoriscono un lavoro di qualità, una più grande creatività e un miglior servizio alla clientela. Riducono il numero dei contenziosi e mantengono un basso tasso di assenteismo. Riescono a far crescere i talenti migliori e fidelizzare le persone più competenti.

Promuovere il benessere delle relazioni che le persone hanno con il proprio lavoro e nei luoghi di lavoro, risolvere i problemi relazionali che intossicano l’atmosfera, è un investimento fondamentale per l’azienda. Soprattutto quando recuperiamo il valore delle persone valutando e, allo stesso tempo, incoraggiando un atteggiamento mentale positivo dei collaboratori.

I rapporti interpersonali, il clima relazionale ed organizzativo nei vari settori dell’azienda, il ruolo dell’emotività e della passione, sono alcuni degli elementi fondamentali costituenti le condizioni favorevoli per “fare squadra”, che scaldano i cuori e le menti delle persone e delle organizzazioni. Non basta mettere in atto una buona idea per renderla realtà operativa e nemmeno è sufficiente che il capo la comprenda perché i collaboratori la mettano in pratica.

La tecnica o le tecniche in questo caso non sono sufficienti. Ecco perché diventa legittima una psicologia delle risorse umane: in termini di opportunità di lettura, di messa a fuoco, necessaria per trovare il bandolo della matassa e avviare un processo di crescita a partire da una situazione critica. Una psicologia come “capacità relazionale”, di “comprensione della psicologia delle persone”, per fornire opportune chiavi di accesso ai problemi di comunicazione e permettere a ciascuno di aprire la porta alla sua personalità e trovare la propria strada, dando prova di intelligenza e autonomia.

Sviluppare capacità collaborative non è facile e tantomeno alla portata di ognuno. I manager tuttavia sono chiamati ad essere all’altezza del compito perché tale risultato è uno dei punti cardine delle loro capacità. Ovvio pertanto che dalla qualità del management dipenderà in gran parte il successo o l’insuccesso dell’organizzazione. Ma come può un manager garantirsi il successo?

È facile perdersi. Se proviamo a metterci nei panni di chi è chiamato a navigare in queste acque, è facile vivere insieme ad essi un senso di smarrimento.

A volte è stato sufficiente svolgere una serie di 8-10 incontri di consulenza, per risolvere in modo soddisfacente situazioni completamente degenerate, frutto di un lungo processo di impoverimento delle relazioni. Spesso i dirigenti, ne sono usciti più forti come persone di fronte alle reazioni emotive che prima li destabilizzavano e, ancora di più, l’apprendimento che ne hanno tratto, è stato acquisito per il resto della vita.

Talora è necessario ricreare una dimensione più umanizzata del lavoro e delle organizzazioni, tenendo conto che le conquiste tecnologiche sono per noi irrinunciabili, per la nostra crescita e il nostro benessere; allo stesso tempo, che le donne e gli uomini fanno la differenza, soprattutto per quanto riguarda il loro valore immateriale.

Dunque, diventa importante per il “capo” essere consapevole delle proprie capacità relazionali, farle emergere e canalizzarle, saper gestire le proprie difficoltà e diventare cosciente del loro funzionamento per aumentare la propria lucidità, per cambiare il proprio modo (legittimamente soggettivo) di vedere gli altri e le proprie relazioni. Apprendere a osservare con obiettività la propria situazione per rafforzare la efficacia delle proprie azioni e i relativi margini di manovra. Formarsi.

La proposta è quella di incentivare un’ecologia del lavoro e delle relazioni umane a tutto vantaggio delle aziende, dei loro clienti e, naturalmente, di chi vi lavora. Insomma, scoprire che si può lavorare e allo stesso tempo si può anche vivere in salute e trarre soddisfazione da ciò che si sta facendo. Questo, va a vantaggio delle persone e delle loro relazioni, ma è anche un’opportunità – in termini di valore aggiunto – per le aziende.

Bisogna ascoltare, fare un uso intelligente delle competenze dei collaboratori e prendere in considerazione (far emergere dalla loro esperienza diretta) ciò che occorre per far crescere l’azienda, in modo da interessare le persone al processo collettivo. A partire dal momento in cui si da la parola ai nostri collaboratori e in cui si prendono in considerazione le loro conoscenze, la qualità delle decisioni che vengono prese da noi è naturalmente migliore. Inoltre, se le persone sono coinvolte nella ricerca di soluzioni, esse saranno anche più motivate a metterle in pratica. E in genere fanno di tutto perché la cosa vada in porto, anche se in partenza esse potrebbero trovarsi in difficoltà.

Vittorio Tripeni
psicologo del lavoro e delle organizzazioni

( pubblicato anche in: https://hei.network/wp-admin/post.php?post=5852&action=edit )

Nuove forme di lavoro e nuove esigenze cognitive

Qual è l’impatto delle tecnologie digitali dell’informazione e della comunicazione sulla qualità della vita e del lavoro? Il loro uso è ormai inevitabile. Proprio per questo è necessario conoscere gli eventuali effetti dirompenti nei confronti del benessere e della qualità della vita al lavoro.

Ognuno può rendersi conto in ogni momento, qualunque cosa stia facendo, che l’uso delle ICT ha determinato una notevole riconfigurazione delle pratiche quotidiane e una definizione del quadro di riferimento delle attività e delle competenze nel lavoro. Queste trasformazioni sono accompagnate da nuove sollecitazioni, ad esempio la necessità di elaborare in pochissimo tempo le informazioni ricevute o l’urgenza di organizzare la valanga di dati che ogni giorno richiamano la nostra attenzione. Portano con sé anche delle opportunità tra le quali la possibilità di gestire meglio il proprio orario di lavoro. Ma soprattutto hanno dato vita a nuovi profili di attività professionali caratterizzate da forme inedite di organizzazione del lavoro e una notevole dominanza delle tecnologie digitali.

Accelerazione digitale
In questi ultimi anni l’accelerazione del ritmo dei cambiamenti è in costante crescita a causa delle continue innovazioni e conseguente messa a punto di soluzioni tecnologiche. Si tratta di processi di implementazione che innovano le modalità di azione e di apprendimento di chi usa le tecnologie e che, a volte, generano evidenti situazioni dirompenti nell’ambito del loro utilizzo. Soprattutto perché esse richiedono una ristrutturazione radicale dell’esperienza dell’utilizzatore, in quanto elicitano nuovi modi di fare, di pensare, di organizzare le attività e mantenere vive le collaborazioni. Ragion per cui è necessario inventare nuovi modelli organizzativi e socio-cognitivi per lavorare con gli strumenti digitali e, allo stesso tempo, tenere conto che l’uso delle tecnologie può avere effetti sulla salute e il benessere di chi le usa.

Gli studi scientifici e le ricerche empiriche hanno messo in evidenza l’emergere di collegamenti tra le condizioni di lavoro, in cui le ICT svolgono un ruolo importante, e la salute di chi lavora. Diventa pertanto importante tenerne conto, soprattutto per motivarci ad analizzare ancora più in profondità il ruolo delle ICT rispetto alla salute e alla qualità della vita e del lavoro.

Ad esempio, il tempo e le risorse liberate grazie all’uso delle ICT possono essere investite in occupazioni che producono maggiore valore aggiunto e sono più stimolanti. Tuttavia, mentre le tecnologie possono migliorare il lavoro e riqualificare la professionalità, esse tendono anche a snaturare il lato umano dell’attività e a sviare la persona che lavora da tutto ciò che ha senso per essa; per esempio: le pratiche e i contatti professionali, oppure i margini individuali di manovra e la relazione che ha con il “suo” lavoro. La mediatizzazione tecnologica dell’attività può dunque correre il rischio di svolgersi in danno della salute di chi lavora e della qualità della vita al lavoro perché ha un impatto sulla struttura psichica della persona.

Come si diceva, in questo costante processo di cambiamento alimentato dalle continue innovazioni tecnologiche, possiamo mettere in evidenza anche una certa varietà di destabilizzazioni. Si tratta di cambiamenti costanti che influenzano la struttura e il contenuto delle decisioni e delle comunicazioni e di conseguenza influenzano i tradizionali parametri di riferimento dello spazio e del tempo di lavoro. Mentre nello spazio (di lavoro), le ICT hanno completamente smaterializzato la relazione dei dipendenti con il proprio ufficio, l’azienda, la famiglia e la vita privata; tanto che i confini tra i diversi tipi di ambito sono divenuti permeabili, se non addirittura scomparsi. Nella prospettiva temporale, dato che l’orario di lavoro è sempre più scandito dal tempo (velocissimo) degli strumenti tecnologici e il ritmo batte la misura al nanosecondo, l’immediatezza diventa la modalità prevalente di organizzazione della vita professionale e sociale. In questo caso, il tempo umano è diventato tempo della processazione che rimpalla sull’aumento del carico di lavoro. Ciò che può essere brevemente definito come la relazione tra sollecitazioni e capacità che possono essere mobilitate dall’individuo. In questo caso, cresce in modo esponenziale il volume dei dati (in quantità e qualità) ragion per cui il lavoro subisce una compressione dovuta alla maggiore quantità di informazioni da gestire e, allo stesso tempo, l’attività si intensifica con l’accelerazione del ritmo di lavoro e delle sequenze di lavoro. Rapidità delle comunicazioni, immediatezza della risposta e reattività della persona diventano così alcune delle caratteristiche del compito smaterializzato. Il riflesso sostituisce la riflessione e la simultaneità delle attività diventa una condotta pregnante dell’attività mediatizzata. E’ quanto risulta, in modo ben evidenziato e documentato, proprio dagli studi specialistici. L’accumulo di compiti in corso, avviati, ma mai completamente completati, si sta dimostrando estenuante e, allo stesso tempo, angosciante. Il dipendente si disperde in compiti concorrenti e contemporanei che deve gestire secondo le sollecitazioni tecnologiche per progredire nonostante tutto nel lavoro.

Frammentazione e destabilizzazione
Si tratta di situazioni marcate da continui disapprendimenti e/o riapprendimenti, che sono cognitivamente estenuanti e professionalmente molto destabilizzanti, in grado addirittura di imporre le regole di condotta e di lavoro perché strettamente associate all’uso degli strumenti digitali. In questi casi, parliamo anche di stress associato alle paure, le ansie, le frustrazioni provocate dalla introduzione e dall’uso delle tecnologie sul lavoro.

Gli artefatti tecnologici guidano e scandiscono il lavoro, pongono frequenti sollecitazioni. Interrompono il lavoro, determinano le modalità di azione e gli impieghi del tempo (ad esempio, attraverso le agende condivise), orientano e costantemente reindirizzano azioni e compiti da realizzare (al esempio, attraverso la messaggistica sincrona e asincrona). Tutti casi in cui i dipendenti si sentono privati della loro capacità di agire e prendere decisioni sulla propria attività. Di fronte a queste interruzioni permanenti, il lavoro è frammentato e ridotto a micro-compiti che devono essere costantemente raccordati per ritrovarne il senso. Si ha allora la sensazione di perdere il controllo del proprio lavoro per subire ciò che impone il sistema. Alla fine, ci si trova davanti a un lavoro che richiede sempre più frequentemente di affrontare gli imprevisti e raccordare i compiti frammentati, vale a dire un lavoro sul lavoro. Che potremmo anche definire un “meta-lavoro”.

Sottoposto a tale frammentazione, l’individuo è dunque obbligato a ridefinire costantemente l’organizzazione e le priorità della sua attività per dare una parvenza di coerenza e raggiungere i suoi obiettivi professionali.

In questa attività spezzettata, ognuno deve sapere come gestire il passaggio tra i diversi frammenti di attività, e anche tra i diversi mondi professionali ad esso collegati e in cui si ritrova proiettato secondo le sollecitazioni della tecnologia digitale.

Propongo un quadro emerso da una ricerca pubblicata recentemente. Si tratta di una dirigente che si trova ad assumere, nello spazio di qualche decina di minuti, ruoli e responsabilità diverse. Cioè, svolgere il ruolo di responsabile della comunicazione, del project manager, collaborare a un altro progetto, essere cliente di un fornitore, collega … ecc. Ove ogni contesto professionale è stato avviato da una interruzione tecnologica (mail, smartphone, strumenti collaborativi, agenda condivisa, ecc.) e ha richiesto specifici riferimenti commerciali: conoscenza del vocabolario dedicato, implementazione di un particolare know-how, padronanza degli strumenti e metodi appropriati, conoscenza degli obiettivi di ciascun progetto e loro temporalità, posizionamento e ruolo sociale appropriato. Alla fine, la dirigente doveva essere in grado di adattarsi permanentemente a questa “poli contestualità professionale”. In questo caso diventano necessarie capacità cognitive specifiche (gestione della dispersione, contestualizzazione, anticipazione, articolazione delle differenze, organizzazione, ecc.) In modo che l’attività possa raggiungere un obiettivo che si trova oltre l’assemblaggio caotico di frammenti dispersi di lavoro. In assenza di tale impegno di articolazione, il rischio è che l’attività perde il suo significato, si svuota della sua sostanza e alla fine scoraggia l’individuo che è costretto a confrontarsi con una serie di attività frustrate e frustranti, incomplete o prevenute, in breve a un lavoro che gli sfugge e in cui non si riconosce.

Tutto ciò – possiamo comprenderlo – rappresenta una fonte di malessere per le persone e, di conseguenza, può avere un impatto non positivo sulla qualità della vita al lavoro.

 

* L’autore può fornire – a richiesta – ulteriori informazioni ed eventuale documentazione bibliografica, nonché pareri specialistici sullo specifico argomento