Ci sono occasioni in cui le tecnologie impongono procedure che mettono in discussione i consueti criteri di qualità della professionalità e allo stesso tempo indeboliscono le pratiche socio-tecniche che regolano i processi di lavoro.
Alcuni spunti di riflessione per portare a consapevolezza una realtà spesso sottovalutata.
In un contesto socio-economico contraddistinto da forte competitività e pressione performativa, le organizzazioni del lavoro continuano a modificare i loro assetti attraverso l’uso delle tecnologie digitali che consentono una circolazione incalzante di flussi operativi e di informazioni.
Le fasi dell’attività, dalla progettazione alla immissione sul mercato di un prodotto o un servizio, subiscono una notevole accelerazione grazie alla digitalizzazione. Compaiono nuove forme di lavoro non più soggette ai vincoli tradizionali del tempo e dello spazio che, attraverso le opportunità della collaborazione remota, dell’attività in coworking e della nuova modalità (nomade) di svolgere il lavoro sempre e ovunque, consentono una maggiore autonomia delle persone e, probabilmente, una migliore gestione dei costi.
Tuttavia, queste nuove forme di lavoro pongono nei confronti dei collaboratori obblighi di maggiore rendimento e sollecitudine, un controllo costante sulle attività svolte e addirittura una sorta di ingiunzione continua ad aumentare le performance. Le tecnologie accompagnano ormai tutte le attività, influenzano le pratiche, le orientano e, in alcune circostanze possono persino indurre a seguire determinati modelli di compiti prescritti dall’organizzazione. Capita anche che l’artefatto tecnologico supervisioni la dinamica delle risorse in gioco e talvolta essere utilizzato come leva di azione e controllo sui dipendenti.
Tecnologie della collaborazione
Limitandoci in questo momento a considerare le tecnologie cosiddette della collaborazione, un campo di osservazione anche per la psicologia, l’ergonomia e la medicina del lavoro, possiamo tener conto di alcuni dati emersi dagli studi e le ricerche empiriche che, seppure brevemente, vale la pena mettere in evidenza.
Ormai da qualche anno, stiamo assistendo alla moltiplicazione di strumenti di collaborazione aziendale (dai social network alle piattaforme cloud-based) fondata sul convincimento che le pratiche professionali, per produrre pienamente l’effetto voluto e contemporaneamente coinvolgere i collaboratori, devono svolgersi in comunione di intenti e allo stesso tempo essere condivise tra tutte le persone interessate. In realtà, secondo studi recenti, si tratta di tecnologie che rischiano di chiudere gli spazi di mobilitazione dell’intelligenza delle persone e limitano fortemente le capacità di espressione e iniziativa dei dipendenti. Perché, molto spesso, riducono l’attività a dimensioni puramente esecutive e allo stesso tempo impediscono la individualizzazione della relazione al lavoro. Un processo psicologico, mediante il quale l’individuo interiorizza e personalizza la cultura del gruppo e, allo stesso tempo, costruisce la sua identità sociale. Questo potrebbe essere il caso di chi è coinvolto in operazioni di picking, dove l’operatore di magazzino interagisce con il WMS che detta vocalmente il percorso e le diverse operazioni da compiere, stabilendo modalità e tempi. In realtà, è stato evidenziato dalla letteratura scientifica, in questa circostanza specifica la tecnologia non dice solo cosa fare e come farlo ma legittima soprattutto l’attività, convalidando il suo svolgimento e riconoscendo la qualità del lavoro attraverso gli indicatori che preleva e di cui rende conto all’azienda.
E’ una situazione in cui il potere di agire di chi lavora viene notevolmente ridotto, alterando di conseguenza la soggettività e imponendo la rinuncia di una parte del sé della persona e della sua ampiezza decisionale, dell’iniziativa, della valutazione diretta e della conseguente progettualità, della decisione e dell’autonomia gestuale. Insomma, impedisce di essere se stessi in quanto lavoratori capaci.
Vi sono inoltre software applicativi pensati per facilitare e rendere più efficace il lavoro cooperativo da parte di gruppi di persone, le applicazioni del workflow management, i social work aziendali, ecc., che vengono presentati (e molto spesso utilizzati al proposito) come strumenti in grado di ordinare, o addirittura imporre, le modalità di azione e, di conseguenza, organizzare il lavoro collettivo a spese del collettivo di lavoro. Spesso si dimentica che il gruppo di lavoro si costruisce e vive attraverso la condivisione di regole ed esperienze su cosa fare e non fare, di riconoscimento reciproco e di supporto sociale. Perciò, l’assenza o lo smembramento di questi collettivi è in gran parte responsabile della sofferenza dei dipendenti che, nel caso specifico, si trovano soli a gestire le difficoltà, le problematiche e le pressioni dell’organizzazione. Tenendo conto che il gruppo di lavoro funziona da ammortizzatore delle tensioni, da mediatore delle conflittualità ed è capace di regolare la densità e l’intensità delle energie produttive.
Diventa perciò necessario renderci conto che stanno funzionando soluzioni tecniche che impongono una ridefinizione radicale dell’esperienza di chi le usa, perché richiedono nuovi modi di fare, di pensare e collaborare nel lavoro, spesso comportando il rischio di indebolimento dei gruppi e delle reti sociali, fisicamente e psichicamente viventi tra le persone che lavorano.
In questo caso, il gruppo di lavoro non è più un tutto unico, una totalità diversa dalla somma delle sue parti che singolarmente hanno proprietà diverse. Secondo un assioma derivante dalla psicologia del “campo” che Kurt Lewin ha sistematizzato nella prima metà del XX secolo.
Lavorare insieme?
Ora è possibile lavorare insieme tramite le tecnologie digitali, ma nei fatti vuol dire lavorare insieme separatamente, davanti al proprio computer. Si presenta così una situazione in cui gli strumenti digitali aggregano dipendenti e competenze con diversi background sociali, professionali e culturali, in una sorta di incitamento all’attività collettiva. Un ambiente (virtuale) in cui una “collezione” di individui e una combinazione di competenze intercambiabili, interconnesse attraverso relazioni fittizie (virtuali) espongono le persone all’isolamento.
Può comparire anche un ulteriore effetto perverso che riguarda la possibile competizione/conflittualità tra i dipendenti in grado di essere molto distruttivo nel caso in cui il “vivere/lavorare insieme” lascia il posto a “ognuno per sé”. Condizione che – lo evidenziano le ricerche sul campo – può essere amplificata dai sistemi panottici attraverso i quali è possibile esercitare un controllo quasi permanente sui dipendenti che, in casi del genere, aumentano la conflittualità e l’isolamento.
Ecco alcune annotazioni esemplificative per comprendere che le nuove tecnologie digitali possono anche modificare i riferimenti contestuali e gli ambienti di lavoro stessi, incidendo contemporaneamente sulla struttura identitaria delle persone.
Spesso questi strumenti tecnologici sono utilizzati in maniera consapevole per quanto riguarda la possibilità di generare effetti positivi sul business aziendale e allo stesso tempo in modo inconsapevole, in quanto non ci si rende conto delle potenzialità dirompenti nei confronti della qualità del lavoro e della qualità della vita al lavoro. E, sovente, l’applicazione e l’implementazione di una nuova tecnologia in un ambito di lavoro, avviene prima che ci sia una buona comprensione degli eventuali effetti sulla salute e il benessere delle persone.
Tenendo come punto di riferimento il fatto che non può esserci “benessere” al lavoro, senza un certo “benessere” del lavoro, queste brevi le riflessioni indicano che in certe situazioni professionali l’uso delle tecnologie è in grado di alterare la relazione con il lavoro e con le persone che lavorano.
Ciò nonostante, se le tecnologie rappresentano potenziali fattori che possono alterare e deteriorare l’attività professionale, possono anche diventare una opportunità per ridiscutere il lavoro e il ruolo che i dispositivi tecnologici svolgono nell’attività. Affinché gli specialisti delle risorse umane possano cogliere la importanza di queste discussioni per coinvolgere i dipendenti su progetti veramente partecipativi e centrati sulle loro azioni e sulla loro partecipazione. Quindi non solo sulle tecnologie.
Occorre allo stesso tempo tener presente che l’individuo non rimane passivo di fronte agli artefatti tecnologici perché ha la capacità di agire e reagire per dare un senso alla tecnologia, egli può apportare un’efficienza individuale e collettiva attraverso l’uso della tecnologia e mantenere capacità di azione e iniziativa in queste attività mediatizzate, può continuare a lavorare per sviluppare la sua attività. e preservare la sua salute. Affinché ciò possa accadere, l’organizzazione del lavoro ha bisogno di mobilitare approcci differenti, attingendo anche dalla cultura scientifica (psicologia del lavoro, ergonomia, sociologia, medicina del lavoro) per la ricerca, la valutazione, la progettazione e la diffusione di strumenti innovativi perché la tecnologia diventi una autentica leva di sviluppo non solo per le imprese ma anche per le persone che fanno le imprese.
* L’autore può fornire – a richiesta – ulteriori informazioni ed eventuale documentazione bibliografica, nonché pareri specialistici sullo specifico argomento