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Trasformare le disfunzioni e gli elementi critici in esperienze pro-positive

Star bene con se stessi e con gli altri è certamente un obiettivo ambizioso e faticoso da raggiungere, ma perseguibile con facilità proprio partendo dal presupposto che è un diritto dovere curare e confortare il proprio stato d’animo.

E dato che il benessere psicologico di ciascuno di noi dovrebbe essere considerato il nucleo fondamentale e indispensabile per una buona qualità della vita, ad esso dovrebbe essere conferito il giusto merito ed attribuito un adeguato valore.

Proprio per questo, chi si trova nella condizione di voler richiedere un supporto psicologico, ma non ha le possibilità economiche per conseguire tale obiettivo privatamente e deve purtroppo confrontarsi con liste d’attesa lunghissime per accedere ai servizi pubblici, va aiutato.

Dobbiamo essere consapevoli che, in tema di salute e qualità della vita, il lavoro – inteso in senso lato come investimento di energie personali per il conseguimento di un determinato fine – è innanzitutto una fonte di riconoscimento individuale e, di conseguenza, con un forte impatto sulla nostra identità sociale.
Se proviamo a renderci conto che viviamo la maggior parte della nostra giornata immersi nelle nostre attività di lavoro, non possiamo nasconderci che attualmente la qualità della nostra vita è rappresentata soprattutto dalla qualità della vita professionale; cioè dalla qualità del lavoro (sia quando c’è lavoro che quando non c’è).

Viviamo già da tempo una mutazione “genetica” nelle nostre condotte di lavoro. In alcune circostanze possiamo verificare una vera alterazione dei parametri qualitativi della nostra vita e sono presenti nuove disfunzioni che attualmente stanno affliggendo la salute delle persone.
Da una parte vi sono problematiche di tipo “fisico”: disturbi molto spesso cronicizzati e in stretto rapporto con la fatica mentale e lo stress; dall’altra sono evidenti le problematiche di natura “psichica” o “mentale”, derivanti da un non armonico rapporto con se stessi, i propri colleghi, i dipendenti, il lavoro e il ruolo.
Si tratta di campanelli d’allarme che mostrano molto chiaramente la necessità di una riflessione sulla salute al lavoro nell’attuale clima di accresciuta competizione e di cambiamenti nei modelli di occupazione e trasformazioni nelle pratiche professionali.

Con sempre maggiore frequenza oggi proviamo una certa inquietudine per le conseguenze di modelli organizzativi e di procedure di lavoro che sembrano aumentare soprattutto la gravosità dei carichi mentali.
Alla richiesta di fare presto, meglio e a meno costi, le aziende e le organizzazioni sono costrette a introdurre nuove pratiche e procedure organizzative che comportano l’assunzione di compiti nuovi e più impegnativi per le persone che vi lavorano.
Le difficoltà e i problemi nuovi, sono segnali che impongono di aggiornare i nostri strumenti professionali i quali, naturalmente, coinvolgono a vario livello specifiche competenze e professionalità.

Questo presuppone che venga posta una attenzione più marcata alla “socializzazione” della psicologia, che essa non resti solo appannaggio degli esperti, ma faccia parte delle competenze di base di ogni individuo: per la vita quotidiana, per il lavoro, per le relazioni che essa vorrà intessere.

Da qui la necessità di trasformare le disfunzioni e gli elementi critici emergenti in esperienze pro-positive, avviando interventi di formazione e di ricerca adeguati alle mutate condizioni.

La psicologia e gli psicologi non sono esclusi in queste trasformazioni. Perché ormai qualsiasi intervento di promozione della salute, qualsivoglia attività di prevenzione in fatto di salute, non può prescindere dalla cultura della psicologia
La psicologia ha davanti a sé una lunga strada di continua ricerca azione, un costante “cimento” che offrirà a ciascuno la opportunità di sentirsi al passo con le evoluzioni dei bisogni professionali autodiretti ed eterodiretti.

In questo faticoso momento dell’emergenza Coronavirus (in cui è forte anche il pericolo di una pandemia mentale) si parla spessissimo nei mass media soprattutto del disagio esistenziale, ma sono poco diffuse le conoscenze su quanto si può fare e si fa per promuovere il benessere psicologico.

La nostra iniziativa per promuovere il benessere psicologico si basa sulla convinzione, ormai diffusa, che il migliore modo di prevenire il malessere delle persone non è quello di intervenire direttamente su di esso, ma di perseguire iniziative volte a potenziare abilità fondamentali per l’adattamento nei diversi contesti di vita.

Le condizioni di autoefficacia in questo caso costituiscono gli indicatori più possibili di tali capacità e pertanto rappresentano fondamentali determinanti del benessere delle persone.
Occorre considerare gli individui come agenti attivi del loro sviluppo, perché essi sono in grado di trarre vantaggio dalle relazioni con se stessi, gli altri, il lavoro, la famiglia, ecc.

Ciò che contraddistingue le condinzioni di autoefficacia delle donne e degli uomini è la loro specificità: tali condinzioni variano in relazione alle diverse aree del funzionamento umano ed in relazione ai diversi ambiti in cui si declina l’esperienza individuale.
Molti studi, anche nel contesto italiano, hanno sottolineato l’importanza del senso di autoefficacia, nelle sue diverse articolazioni relazionali, nel promuovere il benessere psicologico ed ostacolare le condizioni di rischio.

Lo psicologo è in grado di fornire suggerimenti di indirizzo e intervento, per agevolare nelle persone le abilità cognitive, emotive ed interpersonali indispensabili per il loro benessere. Aiuta a riconoscere che le strategie proattive possono agevolare il benessere psicologico, legato alla attività lavorativa, all’allevamento dei figli, ecc.
Mettendo in evidenza che esse svolgono un ruolo importante anche sulla collaborazione e l’aumento di engagement dei collaboratori.
Prende parte attiva nella eliminazione di pregiudizi sul disagio psichico e facilita lo scambio di buone pratiche per agevolare nelle persone abilità cognitive, emotive ed interpersonali indispensabili per il loro benessere.
Rendendo così evidente che è sempre più necessario tener conto dei bisogni più esplicitamente e dichiaratamente psicologici e spirituali, per mantenere una sana e soddisfacente qualità della vita.

La leadership che verrà

Attraverso la robotizzazione e la digitalizzazione il lavoro sta cambiando forma e, di conseguenza, subisce una trasformazione anche la “presenza” umana al lavoro. Alla luce delle sfide che le aziende stanno affrontando, quali saranno le competenze chiave per mobilitare i collaboratori e raggiungere il successo? Quale potrebbe essere un profilo tipico del leader di domani?

Attraversiamo una lunga fase di mutevoli e continui adattamenti. All’interno di uno scenario che da tempo – e a ragione – viene indicato attraverso l’acronimo VUCA

La V (volatility) della volatilità, si riferisce alla natura e alle dinamiche dei cambiamenti caratterizzati da fluttuazioni, turbolenze e disruption. Un fenomeno che si sta verificando con maggiore frequenza rispetto al passato ed è incrementato, oltre che dalla liberalizzazione del commercio e della concorrenza globale, dalla crescita esponenziale della digitalizzazione e della connettività. Maggiore è la volatilità, più i cambiamenti sono veloci. Ragion per cui la natura, i ritmi e l’ampiezza di ciò che cambia non sono più prevedibili e non è possibile ricondurre il cambiamento ad un quadro di riferimento conosciuto e stabile.

La U (uncertainty) indica l’incertezza o la mancanza di prevedibilità degli eventi. Oggi è praticamente impossibile utilizzare le esperienze passate per prevedere il futuro, in quanto il futuro ormai non rappresenta più una pacifica proiezione del passato. Basarsi sulle esperienze trascorse per fare previsioni non ha più senso e all’incertezza si accompagna spesso la difficoltà di comprendere pienamente cosa sta succedendo. Più il mondo è incerto, più difficile fare previsioni e più complicato prendere decisioni sensate.

La C (complexity) è quella della complessità. Caratteristica di un aggregato organico e strutturato in parti tra loro interagenti, in base alla quale il comportamento globale del sistema non è immediatamente riconducibile a quello dei singoli elementi, perché dipende dal modo in cui essi interagiscono. Un contesto è tanto più complesso quanto più i fattori da considerare sono numerosi, diversi tra loro e diverse sono le relazioni tra gli elementi. Questo è quanto sta accadendo nella vita delle nostre aziende, dove aumentano sempre di più fattori interni ed esterni da gestire contemporaneamente. Ad esempio, la maggiore capacità di interconnessione, aumenta la complessità del sistema e questo rende sempre più complicato analizzare la quantità complessiva delle informazioni.

L’ultimo elemento in gioco è la ambiguità (ambiguity). Cioè la difficoltà di farsi un’idea precisa di ciò che sta accadendo. Poca chiarezza sugli eventi e, di conseguenza, difficoltà di decifrarli e addirittura comprenderli. Si presenta pertanto una situazione ambigua data la incompletezza delle informazioni, incompleta, contraddittoria o poco definita, che non permette di giungere a conclusioni certe. Sono occasioni in cui ci si trova di fronte a eventi che denotano incerta natura o provenienza, che lasciano perplessi sugli sviluppi o le intenzioni, che creano molta ansia.

Le organizzazioni del lavoro stanno affrontando cambiamenti impegnativi paragonabili a quelli che hanno preceduto il passaggio dal mondo agricolo a quello industriale. La digitalizzazione, la robotizzazione e l’intelligenza artificiale stanno cambiando radicalmente il mondo del lavoro. Gli artefatti tecnologici svolgeranno molte delle attività sinora eseguite dagli esseri umani e, allo stesso tempo, creeranno nuovi posti di lavoro, sosterranno nuove attività produttive di beni e di servizi.

Tutto ciò richiederà nuovi assetti organizzativi e modalità di gestione più appropriate delle risorse umane e delle relazioni di lavoro, sia nell’ambito dei rapporti tra persone che tra queste ultime e le tecnologie. Le evoluzioni nel mondo del lavoro e nelle organizzazioni del lavoro producono inevitabili disruption anche nel campo del management e della leadership. Al crocevia delle problematiche tecnologiche, strategiche e umane, la posizione del leader sarà davvero delicata.

Il management e la leadership hanno un’influenza diretta e tangibile sull’impegno dei dipendenti. Anche se rimane ancora valido il vecchio principio che la loro funzione è soprattutto quella di garantire una efficace collaborazione all’interno di un’organizzazione, sarà il modo di attuare questa collaborazione che avrà bisogno di adattarsi con le esigenze dei tempi attuali.

Molto probabilmente, alcune caratteristiche specifiche della leadership come passione, impegno, disciplina, carisma saranno combinate con nuovi valori: flessibilità, creatività, curiosità, innovazione, ottimismo. Un nuovo stato mentale dovrà essere coltivato, fatto di auto-accettazione, di umiltà, di resilienza. Grazie a una nuova modalità di porsi in relazione con gli altri, basata sulle competenze emozionali e comunicative, le situazioni difficili e gli inevitabili conflitti che inevitabilmente ne derivano, potranno essere gestiti. Tutte queste capacità dovranno essere dispiegate in un contesto dinamico, in perpetuo cambiamento. In definitiva, l’obiettivo principale sarà quello di sviluppare una serie di competenze per far avanzare l’intelligenza collettiva all’interno dell’azienda.

È certo difficile fare previsioni. Però trovo interessante uno scenario che è emerso già qualche anno fa, da una serie di interviste a un gruppo di esperti di fama internazionale realizzate da Suzanne Dansereau, delle quali è stata pubblicata un’ampia sintesi su Gestion, la rivista canadese di management (vol. 41/2016, pag. 70-73).

Tutti concordano sul fatto che in un ambiente volatile, incerto, complesso e ambiguo, la scelta di un leader non si concentrerà su competenze specifiche, ma sul suo potenziale di successo.

Ecco dieci qualità che lo aiuteranno a sviluppare questo potenziale.

A differenza del leader eroico degli anni ’80, egli si renderà conto che non potrà affrontare tutte le sfide che gli si presenteranno. E sarà consapevole che in un mondo digitale in cui tutto è interconnesso (interrelato/interdipendente), la sua influenza sarà limitata e non sarà più l’unico a essere in possesso delle risposte. Probabilmente non sarà in prima linea, ma piuttosto dietro perché il suo ruolo non sarà quello di comandare, ma di creare un contesto in cui tutti possano svolgere un ruolo di protagonista e quindi assumere la leadership, prendere il suo posto e realizzare progetti. In questo modo, la leadership nell’organizzazione di domani sarà federata. Ci sarà un leader al vertice, ma la funzione sarà ovunque nell’organizzazione e anche fuori perché il leader di domani non controllerà l’organizzazione ma soprattutto contribuirà a dargli forma.

La curiosità sarà una qualità essenziale. Il suo ruolo sarà quello di indirizzare nuove idee, assorbirle e tradurle in azioni concrete che permetteranno di cambiare le regole del gioco. Mentre il leader di ieri era un esperto nel suo campo e aveva una visione chiara delle azioni da intraprendere, quello di domani manifesterà una curiosità insaziabile, non solo sul campo che riguarda la sua azienda, ma anche in molte altre aree. Questo leader che vuole apprendere porrà molte domande piuttosto che offrire risposte.

Si dice spesso che il leader deve pensare fuori dagli schemi, ma domani penserà riferendosi a diversi “frame”. L’organizzazione non è più una macchina ma un organismo vivente, un sistema aperto. È finita l’epoca in cui un leader poteva tracciare un percorso seguito da tutti: il leader di domani dovrà affrontare imprevisti. Imparerà ad amare l’ambiguità perché questa imporrà “nuove abitudini mentali” che gli permetteranno di affrontare la complessità. Invece di gestire il probabile, il leader dirigerà il possibile; invece di cercare di rendere tutti d’accordo, adotterà diverse prospettive; invece di semplificare e ottimizzare le attività una per una, imparerà a distinguere dei sistemi; infine, invece di decidere e definire “la” strategia, sperimenterà alla periferia, attraverso verifiche che potrebbero fallire senza minacciare l’impresa.

Durante la sua carriera, il leader del domani occuperà diverse posizioni, farà esperienze diverse. Potrà spostarsi anche in tutto il mondo e si confronterà con varie culture; molto probabilmente non rimarrà confinato solo nel suo paese, soprattutto perché una buona parte dei mercati sarà incuneata all’interno di zone in via di sviluppo.

Una delle grandi differenze tra il leader di domani e il leader di ieri sarà che dovrà eccellere in tutti i campi della comunicazione, sia di persona, sui social media, di fronte a un pubblico di 300 persone o parlando con dipendenti che lavorano a migliaia di chilometri da casa e che non si saranno mai incontrati. Queste abilità sono già ricercate più che mai, l’organizzazione chiede al leader di sapere come evidenziare i messaggi da trasmettere al pubblico, di sviluppare il potenziale della propria personalità digitale e, di conseguenza, migliorare l’immagine del marchio. Facendo molta attenzione, perché l’autenticità è fondamentale.

Il leader di domani dovrà essere vicino alle persone che lo circondano e non solo creerà legami ma li manterrà anche. Non vorrà vincere una discussione quanto essere in contatto con le persone. Non eviterà il conflitto, ma mostrerà rispetto ed empatia per gli altri pur non avendo paura dello scontro. Sarà pronto a dare di più e saprà che ne riceverà da parte degli altri. Più che mai, le relazioni saranno significative e autentiche. In effetti, la fine della leadership eroica annuncia l’arrivo di una cultura di stretta collaborazione. In questo contesto, la vicinanza è fondamentale.

Il necessario equilibrio famiglia-lavoro è diventato un tema importante per la generazione X. Il leader di domani sarà ancora più multidimensionale. Dovrà abbracciare la complessità, cogliere la moltitudine di punti di vista e opinioni e comprendere bene gli ambienti che sono spesso multiformi e multiculturali. Un buon bagaglio di esperienze e background variegato diventa estremamente redditizio in questo contesto.

Il leader di domani vorrà che la sua azienda abbia un impatto positivo sulla società, l’ambiente, il pianeta, oltre a creare valore per gli azionisti. Il mondo del lavoro richiede un leader sempre più responsabile, più etico, onesto e generoso; anche perché i dipendenti saranno orientati a scegliere un’organizzazione che li impieghi in funzione della sua missione, della sua responsabilità sociale, dei suoi prodotti, in breve degli impatti che tuto questo avrà sul bene comune. È quasi una certezza che in dieci anni, i rischi sociali e umani di qualsiasi progetto saranno anche calcolabili come i rischi ambientali. Agire in modo responsabile sarà nell’interesse di ogni azienda.

Dovrà avere il coraggio di agire, non aver paura di lasciare il confort per andare avanti, non rinviare decisioni difficili, dispiacere ad alcune parti interessate, avere il coraggio di dire la verità e non quello che gli altri vogliono sentire, saper riconoscere quando si sbaglia. Il leader dovrà incoraggiare tutto il suo staff a parlare francamente e offrire loro più opportunità di apprendimento non avendo paura che falliscano o cambino la loro organizzazione. L’intera attitudine al fallimento deve essere diversa: il fallimento insegna e rende umili.

Dal momento che sarà in grado di navigare da una cultura all’altra, il leader di domani sarà più aperto alla diversità. Cercherà di circondarsi non di persone che saranno come lui ma con persone che lo completeranno e che non penseranno come lui. La diversità sarà una leva. Per progredire, un’organizzazione che opera in un mondo complesso e ambiguo ha bisogno di diversità e “dissidenza costruttiva”. È tanto una questione di diversità culturale, etnica e sessuale quanto di diversità di valori. Il leader di domani avrà un maggiore rispetto per le differenze. La sua forza risiederà nella sua capacità di mettere in collegamento idee e persone.

Vogliamo le soluzioni ma evitiamo i problemi. Un punto di vista sul coaching

C’è un’opinione diffusa e molta propensione a pensare che il moloch intelligenza artificiale divorerà l’intelligenza umana. Una prospettiva che preoccupa tanto e allo stesso modo affascina.
Gli studi che riguardano l’impatto della intelligenza artificiale sul mondo del lavoro iniziano a diffondersi e talvolta alimentano la preoccupazione appena accennata. Alcuni mettono in evidenza la complementarietà dei tre tipi di intelligenze che sarà necessario saper combinare nel prossimo futuro: l’intelligenza emotiva, l’intelligenza artificiale e l’intelligenza collettiva. All’interno di questa prospettiva si sta aprendo un notevole spazio evolutivo per le attività di consulenza organizzativa. In particolare, per il counseling e il coaching.

Le aziende sono fatte principalmente di persone, non di procedure, e spesso non basta un “programma” (o, meglio, una “ricetta”) per risolvere le criticità. Di conseguenza, se l’intelligenza di un manager non riuscirà a competere con le vertiginose capacità di memorizzazione, calcolo e diagnosi di una intelligenza artificiale, avrà tuttavia da svolgere un ruolo importante attraverso la sua “intelligenza del cuore”. Perché saranno necessarie le abilità socio emotive che il leader dovrà sviluppare nella sua organizzazione per completare il lavoro delle tecnologie intelligenti.
Ad esempio, le competenze relazionali sono ormai diventate essenziali perché son inaccessibili (per ora) all’IA. Di conseguenza, là dove sarà necessario dar prova di intuizione, creatività, immaginazione, pensiero concettuale e buon senso, l’Umano dovrà svolgere il suo pieno ruolo a fianco delle macchine.
La sfida del leader del prossimo futuro sarà triplice. Dovrà governare i cambiamenti organizzativi e culturali generati dall’IA, organizzare la collaborazione uomo-macchina e accelerare lo sviluppo di nuove abilità emotive e cognitive per aggiungere valore alle attività automatizzate. Per questo, dovrà sapere come tenere insieme le tre forme di intelligenza.
Da parte mia, nel corso di oltre tre decenni di consulenza manageriale da un lato e psicologia clinica e del lavoro dall’altro (come counselor, ricercatore, terapeuta, didatta) ho svolto attività di coaching accompagnando manager e team di ogni genere e ho svolto varie attività di supporto per la riconfigurazione e lo sviluppo dell’intelligenza collettiva in diverse situazioni. Negli anni ho avuto modo di seguire le trasformazioni dell’attività del manager, che da una pedissequa applicazione dei principi di Henry Fayol, vale a dire la pianificazione degli obiettivi, l’organizzazione dei compiti e delle responsabilità, la gestione delle persone e il controllo delle attività, ha via via compreso la necessità di acquisire competenze “non tecniche” opportune per migliorare la loro missione. Vestendo in questo modo – dopo un’adeguata formazione – i panni del manager-coach.

Una forma di elicitazione legata al “saper fare” e al “saper essere”
Di fonte al susseguirsi di domande nuove e complesse che le organizzazioni aziendali si trovano ad affrontare, il coaching diventa non soltanto un nuovo stile di management ma soprattutto una necessità per gestire in modo efficace le risorse umane e raggiungere una coerenza interna con le politiche gestionali e con gli obiettivi e le strategie dell’azienda. Esso è una forma di accompagnamento che ha come obiettivo lo sviluppo delle attitudini, il miglioramento della performance, l’adattamento a situazioni nuove e costituisce un valido supporto per la presa di decisioni quando le condizioni sono difficili o complicate. È una forma di elicitazione legata al “saper fare” e al “saper essere” riguardanti il modo di governare la propria attività, di organizzarla, di attivare la sfera relazionale e la comunicazione; mira allo sviluppo dell’identità professionale, dell’autonomia e della responsabilità, non alla riproduzione di modelli. Apporta una nuova chiarezza (introduce ulteriori punti di vista) sulle situazioni reali, ricercando evoluzioni significative in materia di comportamenti e di performance. È un volano di facilitazione dell’adattamento (attivo, non passivo) ai cambiamenti intensi sia in ambito organizzativo che sociale.

Il coaching come attività specializzata di consulenza
Per quanto riguarda la formazione appena accennata in precedenza, quella che un tempo era definita “executive coaching” e che attualmente è nota come “coaching manageriale”, è un approccio di coaching professionale incentrato sullo sviluppo di competenze relative a una posizione attuale o futura. Si basa su un processo in cui la fase di preparazione è importante quanto la fase di sviluppo stessa ed esistono diversi modelli di intervento che possono guidare la pratica del coaching. L’importante per il coach è determinare e spiegare il modello o i modelli che guidano il suo intervento, tenendo presente che il coaching manageriale può essere utilizzato in molti contesti in cui obiettivi e target differiscono.
Tra le varie definizioni di coaching manageriale, voglio considerare quella di Douglas e Morley (2000) del Center for Creative Leadership, poiché mi sembra la più operativa e completa. “Il coaching manageriale è un processo finalizzato a fornire agli individui gli strumenti, le conoscenze e le opportunità di cui hanno bisogno per crescere e diventare più efficaci […]. Implica l’insegnamento di abilità in un contesto di relazione personalizzata con il cliente, fornendogli feedback sulle sue capacità e relazioni interpersonali […]. Una serie di attività su misura finalizzate alle problematiche attuali o rilevanti incontrate dall’individuo che sono prese in considerazione insieme al coach, al fine di aiutare il primo a mantenere un’attenzione costante e rivolta all’integrazione delle sue forze e la gestione dei suoi punti deboli […].”
In realtà il processo del coaching è molto più complesso, in quanto si configura come un’attività specializzata di consulenza tipicamente individuale e squisitamente di carattere psicologico. Esso si differenzia nettamente da ogni forma ed indirizzo di psicoterapia e, d’altro canto, non appare affatto corretto identificarlo semplicisticamente come un’attività di formazione. Il coachee è il più delle volte una risorsa sulla quale l’organizzazione sta puntando nel contesto di un percorso di sviluppo o di riposizionamento mirato; in altre casi si tratta di soggetti che hanno necessità di un supporto esperto per direzionarsi o per utilizzare al meglio le proprie capacità. In ogni caso, il cliente del coaching è quasi sempre un soggetto che ha alle spalle una certa esperienza di lavoro e/o che ricopre ruoli di responsabilità.

Il problema del riconoscimento
A differenza degli psicologi, la cui acquisizione di competenze legate alla pratica della psicologia deve soddisfare gli standard specifici di un ordine professionale, la formazione dei coach non è ancora normata. Alcune associazioni offrono formazione in coaching manageriale che danno accesso a un accreditamento gestito da esse. Tuttavia, questi corsi di formazione rimangono opzionali, poiché l’esercizio del coaching non è limitato a coloro che sono stati accreditati. Pertanto, ad oggi, chiunque desideri dichiararsi un coach e offrire i propri servizi a un’organizzazione può farlo. In altre parole, significa che i profili di competenze dei coach possono essere molto variabili. Di conseguenza, le organizzazioni di riferimento dovrebbero attuare un rigoroso processo di selezione per i coach e, in attesa della professionalizzazione del coaching, spetterebbe alle organizzazioni di riferimento (in realtà alcune lo stanno facendo) creare il proprio quadro etico in cui il coaching manageriale potrà esprimere tutte le proprie potenzialità, conoscenze e valori. Ciò non è solo possibile ma necessario.

Le emozioni al lavoro: Onnipresenti e indicibili

Vittorio Tripeni, Psicologo del lavoro e delle organizzazioni

Manifestare emozioni al lavoro è da sempre ritenuto un segno di debolezza.

Anche ora. Gli interlocutori più benevoli, nel momento in cui qualcuno di noi lascia trapelare un minimo segnale dalla propria interiorità, direbbero che siamo troppo “sensibili”. Perché in azienda (un mondo “ideale” da attualizzare continuamente), occorre essere in grado di mostrare un comportamento razionale e obiettivo e allo stesso tempo tenere a freno le proprie emozioni.

Mi viene in mente, la situazione vissuta da un giovane collega, in un’azienda in cui aveva trascorso un anno come stagista nel dipartimento di ricerca e sviluppo. Ricorda che alla fine dell’anno, fu organizzato un brindisi di commiato e in tale occasione gli fu consegnato un dono che i colleghi stessi avevano acquistato attraverso una colletta. Sopra il pacchetto che conteneva quel dono, vi era stata posta una busta con il logo dell’azienda. Dopo i discorsi e i ringraziamenti di rito, prima dell’apertura del regalo, il mio collega aprì la busta contenente un assegno equivalente a tre mesi di stipendio e alcune parole di ringraziamento da parte del CEO. La gratificazione fu molto importante ed egli si commosse e pianse. Il commerciale dell’azienda proprio accanto a lui gli si avvicinò per sussurrargli all’orecchio: “Sei troppo sensibile, Mauro, troppo sensibile”. E, naturalmente, per Mauro il senso di colpa tentò subito di entrare in possesso della sua gratificazione.

 

Parlare di emozioni non è altro che mettere a fuoco l’esperienza individuale: il vissuto sul piano corporeo, affettivo e cognitivo. Vuol dire riconoscerci in ogni momento delle nostre relazioni, con noi stessi e con gli altri. Tuttavia, gli effetti della repressione delle emozioni possono trasformarsi in ulteriori tensioni di blocco emotivo che spesso sfociano in disturbi per la salute. Come nel caso di una signora che ho assistito. Paola, mi raccontò che non poteva fare a meno di scoppiare in lacrime quando si arrabbiava e faceva del tutto per evitare che questo accadesse in ufficio. Era molto brava a fingere che tutto andasse bene e reprimeva completamente i suoi sentimenti. Alla lunga, il suo stress aveva preso il sopravvento con la potenza di una serie di disturbi psicosomatici e Paola ha chiesto il mio aiuto da un punto di vista clinico e, successivamente, un sostegno in forma di coaching.

Dovremo imparare a chiederci qual è la portata sociale (ed economica) delle emozioni che d’abitudine consideriamo come un fatto intimo e privato ma che comunque rappresentano un fatto sociale, perché sono soggette a regole, possono essere apprese, sono un presupposto di conoscenze ed esperienze, nonché elemento che influisce sulle relazioni con le persone e in tutte le situazioni.

In che misura le emozioni possono ridefinire il senso della nostra identità e la identità professionale che definiamo nel tempo attraverso il rispecchiamento delle altre persone e, simmetricamente, l’essere del lavoro e delle organizzazioni?

Che cosa possono dirci della salute delle nostre relazioni in azienda?
E che cosa esse permettono di scoprire, osservare, ascoltare e comprendere, dal lato dell’analisi del lavoro reale?

 

Qual è il posto delle emozioni nei luoghi di lavoro? 

Non è possibile nasconderle o reprimerle perché, alla fine, le emozioni troveranno la via per farsi sentire. Accenno brevemente a un caso appena esaminato in consulenza. Alex e Giorgia sono soci di una Startup e lavorano nella stessa cercando ogni volta di accantonare le loro piccole irritazioni fino a quando – ahimè – diventano intollerabili. A quel punto manifestano tutto il loro disappunto nei confronti dei colleghi, oppure si rimbeccano a vicenda, talvolta esplodendo platealmente e creando molta confusione e uno sconcerto molto demotivante.
Non possono essere evitate … Tutt’al più – verrebbe da dire, con sarcasmo – possiamo fare a meno delle persone in azienda e sostituirle con i robot. Ma l’idea di rendere ogni attore dell’impresa un essere razionale al 100% non è realistico e tantomeno auspicabile. Ad esempio, senza emozioni non sapremo prendere decisioni. Le nostre reazioni emotive e persino i nostri sentimenti possono informarci sulle situazioni in cui ci troviamo e guidarci nelle scelte decisionali. Non saremmo nemmeno in grado di creare legami sociali, senza emozioni.

Propongo di accettare la sfida e accordare alle emozioni un posto importante tra gli asset aziendali. Sapendo che non sono un semplice fattore della produzione perché rappresentano un meta fattore, nel senso che la finanza, l’organizzazione o la tecnologia non esistono in sé, ma esistono le persone e le loro emozioni che fanno funzionare la finanza, la tecnologia, l’organizzazione.
Prendersi cura di esse e utilizzarle al meglio diventa ormai fondamentale anche per quelle organizzazioni del lavoro che credono solo ai numeri e alle tabelle dei dati. Le emozioni rappresentano una notevole fonte rinnovabile da investire nel corso delle continue trasformazioni delle strutture operative e del management.

 

Le emozioni fanno parte delle competenze professionali. 

In ambito professionale – e non solo – le emozioni influiscono tanto sul coinvolgimento (engagement) nel compito quanto sull’attività necessaria per svolgerlo. La loro regolazione è diventata una vera sfida, non solo per il management ma per tutte le attività che implicano competenze relazionali e tecniche-gestionali, la regolazione delle emozioni oggi è una competenza chiave, che riguarda la salute del professionista, la qualità delle sue prestazioni e, dulcis in fundo, la soddisfazione dei clienti.

Posso citare ad esempio un altro caso recentemente accolto durante un colloquio di consulenza in cui il cliente ha raccontato di essere stato nominato responsabile di una equipe di progetto perché aveva solide competenze tecniche e ha pensato che sarebbero state sufficienti per supervisionare il lavoro di squadra.
Sei mesi dopo ha dovuto implementare un cambio di organizzazione del lavoro all’interno del suo gruppo e ha dovuto affrontare gli umori, a volte distruttivi, dei suoi colleghi e la loro scarsa collaborazione, ma anche i tentativi di manipolazione e l’aggressività, a volte latente e altre volte chiaramente espressa.

La gestione delle emozioni è diventata una vera sfida per il management, in modo particolare per governare i cambiamenti, incoraggiare l’autonomia nelle equipe e nelle persone, agevolare le modalità di interfacciarsi all’interno dei team multiculturali o trasversali/interprofessionali. Di per sé l’emozione è il fulcro dell’adattamento e del coping che agevola le percezioni, le decisioni e le azioni per cogliere ogni opportunità che si presenta.

 

Che cosa insegnano le emozioni? 

Stiamo imparando che la gestione delle emozioni è fondamentale per lavorare bene, con soddisfazione e in sicurezza. Ma non solo nelle attività in cui “ci aspettiamo” che tutto ciò accada come ad esempio nelle attività di “servizio”. Saper gestire bene le emozioni è utile in tutte le professioni, soprattutto perché – ormai è chiaro – in ognuna è prevalente la funzione relazionale e gestionale per il raggiungimento degli scopi dell’impresa.

L’emozione è contagiosa e dato che non lavoriamo da soli, influisce sulle persone che ci circondano (anche a distanza) positivamente e negativamente. Inoltre, se lavoriamo da soli, anche le emozioni influiscono sul nostro lavoro condizionando spesso la qualità delle nostre performance.

Nei contesti di lavoro le emozioni influiscono sul coinvolgimento delle persone nelle attività che esse sono chiamate a svolgere e sull’investimento delle risorse (fisiche, psichiche e mentali) necessarie per portare a termine il compito.

Sostanzialmente, si tratta di reazioni delle quali, molto spesso, non si ha piena consapevolezza, che si manifestano attraverso esperienze soggettive (ciò che si “prova”), alterazioni fisiologiche e comportamenti espressivi, che possono incidere sulla abilità di governare gli imprevisti, le scelte e le decisioni, le iniziative nonché le relazioni (con noi stessi, con gli altri, con gli strumenti del nostro lavoro) e, di conseguenza, sulla nostra capacità di adattarci più o meno agevolmente alle necessità della vita o a determinate condizioni o situazioni che più o meno perentoriamente ci impongono un cambiamento.

Potremmo dire che esse rappresentano il “cuore” dell’attività umana. Nelle attività di lavoro le emozioni governano l’implicazione nel compito da svolgere e allo stesso imprimono efficacia all’esplicazione di capacità/competenze necessarie per portarlo a compimento. Danno gusto all’azione.

 

Perché svolgono un ruolo importante. 

Ogni emozione è in grado di rendere consapevoli le persone di come stanno affrontando la situazione in cui si trovano in quel determinato momento. Aiutano ad aiutarci. Mettendoci in contatto con le nostre personali rappresentazioni dei fatti e forniscono informazioni che consentono di analizzare i diversi problemi.

Oggi, mi dice il CEO di una grande azienda che ho l’onore di frequentare, le aziende impongono codici di comportamento, piani di welfare, documenti di dettaglio sullo smart working, imperativi sulla felicità … per garantire che la linea gerarchica funzioni in modo efficace, che sia anche rispettosa nei confronti dei dipendenti e della loro dignità e soprattutto fornire un’immagine “smart” del brand…  Ma non è possibile guidare o dare un senso ai comportamenti dei nostri dipendenti senza parlare di emozioni. Delle “loro” ma anche delle “nostre”, che consideriamo marginali o che rimuoviamo dalla nostra consapevolezza. Certo, non possiamo chiedere a un manager di essere uno “strizzacervelli”, ma imparare a conoscersi e conoscere meglio come “funziona” una persona al lavoro e quali sono le energie che alimentano il suo funzionamento, questo è fondamentale per gli interessi dell’azienda. Anche all’epoca dei robot e dell’intelligenza artificiale.

La necessità di esserci

Le attuali evoluzioni tecnologiche sono rappresentate dalla diversità, la continuità, la velocità e talvolta da una certa inesorabilità nella diffusione di innovazioni riguardanti tutti gli ambiti della nostra vita. Si tratta di una sfida importante per il management delle risorse umane e coinvolgerà tutte le persone perché implicherà un cambio di mentalità profondo e un nuovo modo di “essere” (da-sein) nell’effettività dei processi in atto.

 

Che cosa sta accadendo?
Che lo si voglia o no, il digitale 4.0 continua a produrre cambiamenti permanenti nelle pratiche professionali, nei modelli organizzativi e anche nelle regole del mercato.

Questa ri-evoluzione socio-economica, oggi soprattutto considerata dal punto di vista tecnologico delle applicazioni, è anche e specialmente una questione di persone, di donne e uomini, quelle Risorse Umane tuttora fondamentali nel mondo del lavoro, che vivono intensamente i radicali cambiamenti delle imprese e dei mercati.
Il ruolo del manager sta cambiando e i leader di domani hanno bisogno di imparare come ascoltare le persone e comprenderle, come padroneggiare l’arte del coinvolgimento di esse, perché essere leader nel vortice della trasformazione digitale dell’azienda non vuol dire solo essere presenti sui social network ma occorre soprattutto esprimere competenza nell’uso di tecniche di comunicazione appropriate all’interno dell’azienda. Il cambiamento più profondo che occorrerà realizzare, riguarderà la “trasformazione” delle persone attraverso processi di sviluppo che non riguardano tanto la formazione tecnica quanto la incorporazione di una cultura organizzativa e un modo di pensare al passo con i tempi che attualizzi le modalità operative che meglio rispondono alle sfide delle continue trasformazioni.

Occorre tener conto che i cambiamenti in atto non sono riconducibili solo alle nuove metodologie organizzative e gestionali e alle tecniche che le supportano, ma hanno a che fare con aspetti che riguardano le persone che lavorano, nel loro rapporto con la tecnologia, la società e più in generale con la realtà. È piuttosto evidente che uno degli aspetti critici che desta maggiore attenzione riguarda l’impatto di queste innovazioni sul lavoro e sulle persone che lavorano.

Il lavoro è cambiato, non è più lo stesso di prima, continua a cambiare e sta cambiando le persone ed anche i loro stili di vita.
La fatica fisica si riduce mentre tende a crescere la tensione mentale e lo stress. Cresce pure l’autonomia e la creatività del lavoro, a prezzo però di un’accresciuta instabilità e incertezza dei posti di lavoro. Aumentano le differenze professionali: quelle con retribuzioni che vanno verso l’alto e quelle – come ad esempio, lavori manuali tradizionali – che si trovano sempre più marginalizzate.

Sono cambiamenti che nella mentalità comune stanno delineando due grandi gruppi di pensiero: quello degli scettici o contrari, che rifiutano a priori ciò che sta accadendo, e quello dei convinti sostenitori della rivoluzione 4.0 che immaginano organismi sociali più in linea con il tempo presente, in grado di rispondere con maggiore efficacia ai bisogni dell’umanità.
Tuttavia il problema non è tanto quello di schierarsi da una parte o dall’altra, ma piuttosto di comprendere quello che sta accadendo e quali implicazioni possono emergere da questa ampia fase di rinnovamento.

Con la comparsa di nuove generazioni di tecnologie digitali e il susseguirsi di rapidi cambiamenti nelle organizzazioni aziendali, avvengono importanti trasformazioni nei luoghi di lavoro che richiedono alle persone una “presenza di spirito” (effettività) sempre attiva e desta.
Questa grande varietà di tecnologie, ci dice Luciano Pero (Sindacato Futuro in Industry 4.0 – ADAPT University Press, 2015), potrebbero aprire la strada a una grande varietà di formule organizzative, assai diverse dalla organizzazione dominante delle tre rivoluzioni industriali di fine ‘700, di fine ‘800 e degli anni 80 del ‘900 e sarà un ambio ventaglio di forme organizzative.
Probabilmente tutto ciò avrà un notevole impatto che apre anche una grande opzione per l’umanità del futuro. Perché come è già accaduto in altri periodi dello sviluppo industriale, ci sarà bisogno di addomesticare e di adattare ai fabbisogni reali le enormi potenzialità tecnologiche che avremo a disposizione. L’umanizzazione di queste nuove tecnologie può essere compiuta sia dal punto di vista dell’utente, quindi dal punto di vista delle persone che usano queste tecnologie, sia dal punto di vista di quelli che le producono. In pratica, da tutti coloro che ne verranno a contatto.

Cambiano i mercati, cambia il lavoro, cambiano le persone nella loro professionalità ed anche nei loro modi di vivere il cambiamento.
Il lavoro cambia profondamente e le tradizionali distinzioni tra lavoro manuale e intellettuale tendono a ridursi o a scomparire. I lavoratori non solo si troveranno a lavorare in condizioni di lavoro migliori (meno fatica, ambienti più salubri, garanzie sulla salute e la sicurezza al lavoro) ma anche a far fronte alla richiesta di un maggiore impegno intellettuale e un conseguente aumento di tensione mentale e di stress. Saranno impegni complessi di notevole impegno cognitivo, come ad esempio l’analisi dei guasti, di errori e anomalie, la soluzione di problemi. I tecnici, a loro volta, hanno informazioni e strumentazioni avveniristiche, ma devono anche operare direttamente.

C’è da dire che le trasformazioni sono ormai evidenti e hanno riguardato sia il contenuto del lavoro, sia le macchine e gli strumenti, sia soprattutto le relazioni interpersonali, la socialità e la cultura. Ma, come dice giustamente L. Pero, l’attenzione che il paese ha dedicato a questi cambiamenti sembra essere inversamente proporzionale alla loro profondità. Sui grandi mezzi di comunicazione c’è stata una sorta di rimozione del problema del lavoro che cambia. Il lavoro reale e i lavoratori in carne e ossa sono quasi scomparsi dalla televisione, sostituiti dai ruoli di successo nel mondo virtuale: i presentatori, gli attori e i divi televisivi, i calciatori, le modelle e le veline e così via.

Diventa necessaria un’attenzione consapevole nei confronti di questi fenomeni e un riconoscimento adeguato della dimensione umana del lavoro. Che tenga conto della necessità di ESSERCI (di essere) nel cambiamento e nella trasformazione del lavoro e della produzione dando un senso ai processi in atto e trasformando le risorse umane in relazioni.
In primo luogo è necessario comprendere le forme complesse del cambiamento e le lunghe catene che lo causano, cercando di trovare categorie interpretative moderne e adeguate ai problemi di oggi. Ad esempio quale è il nuovo contenuto intellettuale e relazionale del lavoro e cosa implica, oppure quale rapporto si sviluppa tra le scelte di mercato “mondializzato” delle imprese e le reti professionali e sociali che si creano tra i lavoratori.
Ci sarà anche l’occasione di consentire alle persone e ai lavoratori un maggiore controllo dal basso dello sviluppo delle tecnologie e dei modi di produzione. Con la prospettiva di attivare nuove forme di partecipazione diretta dei lavoratori per favorire il coinvolgimento e la fiducia delle persone impegnate nei processi produttivi.

Quali potranno essere esattamente le competenze necessarie per il futuro? Non è chiaro come sembra a prima vista. Le abilità relazionali, la collaborazione e le capacità interfunzionali potrebbero essere le più utili. I manager delle Risorse Umane dovranno creare un nuovo equilibrio e una fluida corrispondenza tra il contributo (fondamentale) dei dipendenti, il riconoscimento e il rafforzamento del loro impegno. Tenendo anche in considerazione che la relazione tra datore di lavoro e dipendente si costruisce sulla comprensione e sulla appropriazione da parte dei dipendenti del luogo e del ruolo dell’azienda nella società. Il loro impegno diventa la condizione di efficienza dell’azienda. E per questo l’azienda deve proporre un nuovo rapporto di lavoro basato sulla fiducia, l’autonomia e la responsabilità. La maggior parte dei compiti ripetitivi – sia per gli operai che per gli impiegati – sarà sempre più automatizzata/robotizzata, focalizzando le attività umane verso lavori iper-creativi e innovativi e verso attività in cui l’interazione umana è essenziale (consapevolezza desta, empatia, affettività, cura, convinzione, assunzione di rischi, capacità di prendere decisioni, autonomia, ecc.).

È ormai chiaro che nuove regole di comunicazione dovranno basarsi sulla condivisione continua e incessante delle informazioni. Attraverso gli strumenti rinnovati della comunicazione, l’azienda potrà sollecitare e mobilitare i suoi dipendenti attraverso lo sviluppo della cooperazione, del riconoscimento e della valutazione a 360° delle attività in essere.
Per gran parte dei compiti nel settore terziario, nel frattempo il lavoro è stato liberato dai limiti del tempo (orario di lavoro) e posizione (stabilimento, postazione di lavoro). Quindi il telelavoro, già presente, nelle attività intellettuali, si estenderà anche agli altri domini, in particolare attraverso gli oggetti connessi. Ciò richiederà maggiore considerazione sul tempo-spazio di lavoro e sul tempo-spazio della vita privata.

Bisogna tenere conto del fatto che la crescita dei collaboratori si realizza attraverso il lavoro. Ciò avviene per le opportunità di apprendimento che l’azienda è in grado di proporre. Le persone che lavorano si aspettano di imparare di più, di essere coinvolte nelle decisioni di alto livello e di progredire sia in termini di responsabilità che di retribuzione.
Offrire ai collaboratori delle opportunità di crescita è oltremodo motivante. Dimostra che l’azienda crede in loro, che li rispetta e ha a cuore il loro interesse. Trovare un modo per alimentare una passione con loro, rende il lavoro un posto dove i collaboratori vogliono e sono in grado di dare il meglio di loro stessi. Questo è il modo di esserci!