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Caos, buon senso e senso comune

E’ un dato appartenente alla conoscenza comune che quando si vive una prova significativa, nulla sarà più come prima. È ancora più evidente nel caso si tratti di un vissuto doloroso, sconvolgente, traumatizzante o addirittura violento.

Chi si trova a vivere una tale prova, subisce spesso fenomeni drastici di destrutturazione e disorientamento, si sente sopraffatto dalla sofferenza e sperimenta l’insufficienza delle proprie risorse e del normale modo di affrontare le situazioni. Gli stessi contraccolpi vengono vissuti dalle persone chiamate a prestare aiuto e gestire l’emergenza.

Tutto ciò, in qualche modo, riguarda anche le strutture e le organizzazioni di soccorso. Essendo programmate e organizzate per risolvere problemi di routine e svolgere attività correnti, hanno grande difficoltà a cambiare o ad adattare alle nuove condizioni il loro modo “normale” di fare e vedere le cose.

Anche nelle grandi emergenze, quando il “piano” o il “protocollo” che le strutture di intervento o di protezione civile assumono come base invariante della loro azione improvvisamente cambia o addirittura crolla, tali organizzazioni formali subiscono una drastica caduta di prestazione.

L’evento critico scompagina gli schemi legati alla logica razionale e crea uno spazio nuovo (caos) che richiede decisioni di “buon senso” e “buone pratiche” piuttosto che un esasperato tecnicismo.

La saggezza della antica filosofia orientale ci offre una immagine attraverso un noto aforisma che suona più o meno così: “ciò che per il bruco rappresenta la fine del mondo, per la farfalla è l’inizio di una nuova giornata”.

Tengo presente che il caos, ponte tra l’emergenza e il cambiamento, si presenta allo stesso tempo come un limite e come una opportunità. Esso è quindi un momento di passaggio che, citando D. Winnicott, potremmo anche chiamare “area intermedia”: una condizione di transizionalità che apre al cambiamento.

Quest’ultimo non necessariamente deve essere rappresentato come un movimento in avanti, una trasformazione o crescita.
Anzi si dà il caso che quando il “trauma” non riesce ad essere elaborato, quando rimane difficile la “abreazione” dell’evento, ecco allora presentarsi la possibilità di disturbi permanenti in quella che S. Freud ha chiamato “economia energetica della psiche”.

Comincia ad instaurarsi una sindrome di tipo psicogeno che, attraverso manifestazioni di vario genere, occupa un ampio arco casistico che a partire dalla cosiddetta “nevrosi traumatica” si estrinseca in tutta una serie articolata e complessa di vere e proprie patologie.

Tuttavia il campo della patologia e della clinica potrebbe essere tenuto sullo sfondo poiché, sembra un dato ormai acquisito, nei momenti dell’emergenza dovrebbe venir considerata innanzitutto la opportunità di riferirsi a un modello che privilegi la precocità e la tempestività di un intervento, indispensabile innanzitutto per evitare danni permanenti (o almeno più subdoli e complessi). Si tratta di una risoluzione generalmente rapida e non necessariamente collegata con un decorso psicopatologico; un agire che manifesta la sua efficacia quando riesce ad accompagnare le persone ed aiutarle ad utilizzare al meglio le loro risorse e capacità individuali.

Per tornare alla immagine del precedente aforisma, si potrebbe quindi dire che negli interventi di supporto psicologico sarebbe più congruente e certamente più efficace agire non sugli aspetti che riguardano la fine del mondo vissuta dal bruco ma su quegli elementi che portano la farfalla a “intraprendere” una nuova vita, nuove possibilità di esistenza.

Molte sono le domande che possono stimolarci per lavorare insieme. Ne espongo alcune delle più impellenti:
– Vivere il caos con la intenzione di trovare al suo interno degli elementi di fertilità che ci aiutano a facilitare le modalità di gestione della circostanza, oppure entrare in gioco con un protocollo valido per tutte le stagioni?
Se ciò che accade casualmente (caos) non è dipendente da regole, non è detto che non sia possibile scoprire delle buone regole di azione (“buon senso” e “buone pratiche”) per vivere “quella” situazione caotica.
– Essere speculativi sugli aspetti sconvolgenti della situazione, fermarsi di fronte al caos, rischiare di rimanere in mezzo al guado, allo scoraggiamento, oppure cercare “mondi possibili”?
– Incoraggiare il nuovo ad emergere dall’oscurità e dalla confusione? Reintegrare quanto è stato perduto o facilitare la emersione di nuove potenzialità?
– Sostenere un atteggiamento clinico diagnostico oppure legittimare quanto “emerge” come “normale” e “lecito”, per accompagnare quindi le persone a riconoscersi in una condizione che non è “la loro di prima” ma è una cosa completamente diversa; talmente sconvolgente che si fa fatica a riconoscersi?
– Descrivere alle persone che cosa stanno vivendo o aiutarle a riconoscere e manifestare i loro sentimenti?
– Conoscere dalla bocca delle persone i loro bisogni, per centrare il nostro intervento sulle loro aspettative, oppure incontrare quei bisogni sulla base delle nostre esperienze precedenti ed a partire da “nostro” punto di vista?
– Affrontare gli eventi con modalità esclusivamente tecnico scientifiche (a volte mediate soltanto dalla letteratura) o tentare anche altre modalità “sperimentali” di tipo creativo artistico o artigianale?
– Agire sulla base di modelli precostituiti o “apprendere dall’esperienza”?

A questi ed altri stimoli potremmo offrire una nostra risposta confrontandoci con il desiderio di far nascere nuove opportunità in termini di esperienza, capacità ed efficacia degli interventi di aiuto.

Per investire il patrimonio di esperienza, che abbiamo e via via acquisiremo, nel contesto della informazione e promozione della “cultura del rischio” e della gestione degli eventi critici, nell’ambito della formazione e soprattutto in occasione degli interventi sul campo.
Per incoraggiare le persone (e noi stessi) ad assumere un ruolo attivo e pro-positivo nella gestione dello sconvolgimento che ciascuno vive in occasione di eventi fortemente critici.

Per acquisire conoscenza e trasformarla in un insieme coerente, in grado di creare prospettive.
Per adottare comportamenti adeguati alle situazioni ed imparare ad essere flessibili.
Per comprendere le situazioni oltre le apparenze, riformulare i problemi assumendo differenti prospettive, mantenere un comportamento orientato allo scopo.
Per considerare tutte le alternative e verificare la realtà di quelle migliori, selezionando e definendo le priorità.
Per comunicare in modo congruente e convincente.

Ne deriverebbe un patrimonio di conoscenza ed esperienza utile a molti.