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Razionalità dell’agire imprenditoriale

Le molteplici logiche dell’agire imprenditoriale costituiscono una notevole fonte di spunti per riflettere sulle modalità della successione, sia rispetto al profilo, sia rispetto allo stile di direzione dell’imprenditore. All’inizio degli anni ’90 Michel Bauer (Bauer M., Les Patrons de PME entre le Pouvoir, l’Entreprise et la Famille. Paris, InterEditions, 1993), ha descritto molti casi, dai quali ha tratto la conclusione che occorre mettere in discussione l’esclusività della razionalità economica alla base delle scelte imprenditoriali. Sostenendo che le operazioni economiche sono certamente importanti, ma non sono esaustive e non rendono onore alla complessità dei problemi che devono affrontare gli imprenditori.

Bauer scrive che i dirigenti d’impresa spiegano tutto attraverso i numeri; evitando di evocare le loro preoccupazioni famigliari, le difficoltà e/o i piaceri dell’esercizio del potere, che tuttavia influiscono sul loro operato. Si adeguano scrupolosamente alla regola del “parlare-soltanto-economico”. Del resto, dice Bauer, in un mondo caratterizzato da esigenze d’efficacia e razionalità, di modernità e competenza, come potrebbero confessare queste realtà più “tradizionali” che coinvolgono la sfera affettiva e politica, i sentimenti e la parentela? Il fatto è che anche i loro interlocutori rispettano tutto questo e non derogano mai alla regola del “parlare-soltanto-economico”. Ad esempio, per spiegare, salutare o criticare le strategie decise ai vertici delle aziende, gli osservatori più credibili (giornalisti, economisti, analisti finanziari, ecc.) si esprimono come se non conoscessero un solo modo di esprimersi: quello economico. Tutti i discorsi “seri” fanno così apparire l’imprenditore come un essere che prende ogni decisione in funzione della sola razionalità economica. Ma, a questo punto, lo scarto tra realtà e linguaggio può diventare ragguardevole, in quanto nessuno affronta il “non detto”, il non economico, che diventa pertanto un vero tabù.

Sembra pertanto – dice Bauer – che gli imprenditori seguono in modo esclusivo la logica dell’efficacia economica e che le questioni di potere e le vicende famigliari non pesano affatto sulle loro decisioni.
Per comprendere le difficoltà incontrate da un imprenditore al momento di preparare la sua successione occorre rendersi conto del carattere riduttivo delle argomentazioni economiche; à necessario uscire dagli schemi strettamente economici o “manageriali” per comprendere il comportamento effettivo dei dirigenti e degli imprenditori.. Ai vertici delle aziende, anche se tabù, le logiche politiche e famigliari sono ancora importanti. Occorre mettere in discussione la regola del parlare-soltanto-economico, cogliendo così le complesse dinamiche che agevolano o impediscono la successione dell’impresa familiare. Vi sono logiche sotterranee che, pur non essendo economiche, pesano sulle decisioni. Occorre scoprire il non detto e far apparire in tutta la sua evidenza che l’imprenditore, nella sua attività professionale, è un essere molto più complicato rispetto alle usuali rappresentazioni, molto più sensibile e complesso di quanto non rivelino i discorsi freddi ed astratti della teoria economica. Il nodo critico della trasmissione, sottolinea Bauer, sta nella pluralità delle razionalità presenti nella testa di ogni imprenditore e nell’esito dei conflitti che le diverse scelte possibili provocano.

Un imprenditore è “un uomo a tre teste”. Questa la “legge fondamentale” dedotta da Bauer. In parte è Homo oeconomicus, interessato ai risultati della sua azienda e ai guadagni che produce. In parte è Homo politicus che, come tutti gli uomini politici, cerca di consolidare il suo potere o, quanto meno, di conservarlo. Infine è Pater familias che, come molti padri di famiglia, cerca a suo modo di aiutare i figli.
Al comando della sua azienda un imprenditore agisce non soltanto secondo una razionalità economica, ma allo stesso tempo secondo una razionalità politica ed una famigliare. La sua attività professionale, costituita dall’insieme delle decisioni che prende, va considerata come il prodotto di questa tripla razionalità.

Bauer delinea alcune situazioni tipo per descrivere come dirige la sua impresa un capo che funziona soltanto secondo la sua razionalità politica e come immagina la sua eventuale successione. Secondo l’autore, alcuni capi non trasmettono spontaneamente la loro impresa, a meno che non si intenda con questo: “abbandonare volontariamente la poltrona dopo aver selezionato e poi formato il successore”. La loro testa di homo politicus non li spinge affatto ad abbandonare il potere, ma anzi a conservarlo.
Altri capi evitano di avere accanto un delfino; al massimo accettano un “erede di famiglia”, ma mantenendolo nella condizione di “erede-che-aspetta-passivamente”.
Vi sono altri imprenditori particolarmente reticenti a dividere l’esercizio del potere. Vegliano perchè la loro autorità non possa essere messa in discussione.
Alcuni capi d’impresa provano molta difficoltà a smettere di lavorare a un’età che per i dipendenti corrisponde a quella della pensione. Tendono piuttosto a rimanere aggrappati al loro potere ed a conservare le loro prerogative il più a lungo possibile. E’ il caso di quelli che rimangono al timone anche da vecchi e non pensano di preparare la successione perché non hanno che settant’anni …

La storia di ogni passaggio generazionale d’impresa è frutto di una complessa interazione tra le tre “teste” dell’imprenditore e le soluzioni aprioristiche per risolvere i problemi di successione rischiano di essere poco incisive se non tengono conto delle modalità di gestione (del potere) della governance.

Essere al servizio degli altri, implica prendersi cura di noi stessi

Dale Larson, l’autore di “Aiutare chi soffre” (The helpers journey: Working with people facing grief, loss, and life-threatening illness. Research Press, Champaign, Illinois, 1993) che La Meridiana ha pubblicato in traduzione italiana nel 2007, ci ha aiutato negli anni a comprendere con molto realismo ed umanità perché così tanti, fra chi svolge una professione d’aiuto, cadono nel burnout. Quella forma invasiva di esaurimento emotivo, fisico e psicologico, derivante da un coinvolgimento intenso e a lungo termine con persone che richiedono particolare impegno ed attenzione. Uno stato in cui una persona arriva a dire “non ne posso più”.

Larson, con questo suo libro ci offre un manuale che cerca di divulgare aspetti psicologici e fornire al lettore strumenti che accrescono concretamente la sua efficacia. Egli – a ragione – ritiene che, per diventare caregiver più efficaci e capaci di affrontare lo stress, sia necessaria la conoscenza e l’acquisizione di specifiche abilità psicologiche che non si apprendono automaticamente lungo il percorso di aiuto, come il senso comune vorrebbe affermare nel dire “si impara facendo”. Il libro propone molti esercizi ed attività pratiche che il lettore potrà applicare e personalizzare valutando criticamente le idee e le tecniche presentate.

La prima parte del libro si focalizza sulle esperienze interiori di chi aiuta, sul coinvolgimento emotivo e la realtà intima dell’helper. La seconda parte si occupa della dimensione interpersonale e approfondisce la relazione d’aiuto e le abilità comunicative che sono i mezzi attraverso cui si esprime e concretizza l’aiuto all’altro. La terza parte, infine, analizza il lavoro di gruppi, équipe e sistemi di aiuto operanti nella realtà statunitense.

Il libro è frutto della lunga e autorevolissima esperienza dell’autore, viene presentato come guida per chi offre relazioni d’aiuto a persone colpite da lutti e malattie terminali; in realtà contiene numerosi spunti di riflessione validi per tutti coloro che desiderano affrontare il problema del burnout a partire da un orientamento “centrato sul cliente”, così come ci è stato trasmesso da Carl Rogers, il quale per primo ci ha fatto comprendere la importanza del counseling condotto in modo non direttivo. Larson in questa sua opera offre spunti di osservazione e suggerimenti pratici che ci aiutano a considerare in modo nuovo un problema che coinvolge molte attività professionali e, di conseguenza, molte organizzazioni di lavoro.

Attraverso questo libro ogni lettore, a partire dalla propria esperienza del proprio ruolo sociale e dei compiti ad esso connessi, potrà rendersi conto che ogni attività di “servizio” o di aiuto, qualsiasi forma di consulenza, utilizza un insieme coerente di atteggiamenti che sono profondamente radicati nell’organizzazione individuale dell’operatore. Pertanto se chi presta aiuto o consulenza cerca di usare solo un “metodo” di intervento, egli è votato all’insuccesso (burn out) se tale metodo non è genuinamente in linea con i suoi stessi atteggiamenti: i sentimenti, le azioni, i pensieri.

Riusciremo a comprendere meglio questo assunto, rendendoci conto che il primo elemento di stress, quello che può creare molti problemi, è situato proprio nel nostro modo di porci di fronte agli eventi. Riguarda il modo in cui noi vediamo le cose, come le pensiamo. Noi stessi siamo fonte delle nostre tensioni, del nostro “scoppiare”. Molto spesso abbiamo pensieri irrazionali che ci possono danneggiare. I fatti o le situazioni scatenanti non hanno un valore emotivo in sé ma è il nostro modo di valutarli che provoca una diversa reazione psicologica.

A volte ci è capitato – e capita tutt’ora – di trovarci di fronte a una situazione difficile in cui non sappiamo cosa fare, non sappiamo come affrontarla o non abbiamo gli strumenti necessari per intervenire in modo efficace su di essa, non possiamo agire in modo adeguato.

Si tratta in genere di un evento, un compito o una prova che in quel momento fa emergere il limite delle nostre possibilità, un sentimento che viene da noi vissuto con un certo grado di disagio.

A questo punto, il segnale della nostra inadeguatezza si manifesta attraverso l’ansia che a sua volta sottintende l’indice della nostra fatica psicofisica o del nostro stress.

Tutto questo capita quotidianamente: in famiglia, a scuola, al lavoro, ecc..

Avviene anche nei casi in cui ognuno di noi agisce professionalmente con l’obiettivo di aiutare un’altra persona.

Ma nel momento in cui non riusciamo a raggiungere quella meta, a realizzare cioè quel compito richiesto al nostro ruolo, questo può – in moltissimi esempi – tramutarsi in una minaccia nei nostri confronti. Diventa un attacco alla nostra autostima, in quanto ci sentiamo a disagio e immaginiamo che qualcuno – oltre il nostro senso di colpa – potrebbe anche avere da ridire sul nostro operato.

E’ pur vero però che quando riusciamo a renderci conto di vivere una tale situazione possiamo dire: “io posso lottare, posso fronteggiare la minaccia alla mia autostima”.

Però, ahimé, quasi mai ce ne accorgiamo in tempo …

C’è un aneddoto simpatico raccontato da Larson che definisce molto argutamente la situazione vissuta, dagli operatori delle professioni di aiuto. Un uomo si trova a casa sua nel bel mezzo di un’alluvione. L’acqua ha invaso il piano terra e lui è salito al primo piano. Arriva a un certo punto una barca a soccorrerlo e lui risponde così: “No, rimango perché ho fede in Dio”, poi l’acqua sale ancora e lui sale al 2° piano. Arriva un’altra barca a soccorrerlo e lui soggiunge: “Resto, perché ho fede in Dio”. L’acqua continua ad aumentare: l’uomo è costretto a salire sul tetto. A quel punto arriva un elicottero che gli getta una corda e lui ancora: “No, resto perché ho fede in Dio”. Dopo di che l’acqua raggiunge il tetto, lo travolge e lui annega. Arriva poco dopo alle porte del Paradiso, vede San Pietro e si lamenta con lui: “Come mai è successo questo? Avevo riposto tutta la mia fede in Dio e sono annegato!” e San Pietro serafico gli risponde: “Non so di cosa ti lamenti: noi ti abbiamo mandato due barche e un elicottero!”

Ecco, esistono barche ed elicotteri intorno a noi e potremmo servircene per trarne beneficio. Certo, possiamo ricevere un supporto dagli amici o dalla famiglia, ma l’ideale è riceverlo da persone adeguatamente preparate, meglio ancora, le persone che abbiano la capacità di mettersi negli stessi nostri “panni”.

In conclusione, sembra voler dire Dale Larson, il servizio di cura ed assistenza, cioè l’essere al servizio degli altri, implica il prendersi cura di noi stessi. In questo caso una formazione specifica è fondamentale.

Questo libro va oltre il suo scopo, ci fa capire che non solo i caregiver, ma i medici, gli infermieri, gli insegnanti e quanti svolgono un’attività di servizio con forte coinvolgimento emotivo, si trovano continuamente sfidati a ricercare la “giusta distanza” che permette loro di essere adeguatamente coinvolti senza rovinare il rapporto professionale. Sfidati a mettere in pratica adeguate modalità di comportamento per evitare il rischio di scoppiare (burn out) e mantenere un proprio equilibrio, con un coinvolgimento emotivo adeguatamente distaccato, che non sia del tutto distaccato e tantomeno sia un coinvolgimento emotivo totale. Una sfida continua in cui ciascuno è chiamato a ricercare ogni volta un coinvolgimento adeguatamente distaccato (empatia), un modo di essere emotivamente coinvolti senza esserlo totalmente.

 

Vittorio Tripeni (2008), “Essere al servizio degli altri, implica prendersi cura di noi stessi”. Prevenzione Oggi (Ispesl), Supplemento numero 3, anno 2008, pag. 77-78

Amicizia e salute

Le persone che hanno buoni rapporti sociali subiscono meno l’incidenza di malattie gravi come i tumori o i disturbi cardio circolatori, perché l’amicizia non si limita solo a dare sostegno agli individui, essa partecipa anche alla cura e alla salutogenesi delle persone.

Ciò accade in quanto le relazioni, quando sono serene e positive, apportano benessere innescando processi psico-neuro-endocrini che migliorano le nostre risorse immunitarie.

Dalle prime ricerche sui “legami sociali” risalenti al 1929, sino ad oggi, la letteratura scientifica ha continuamente fornito riscontri qualificati e documentati che mettono in luce le potenzialità dell’amicizia. Essa amplia il senso d’appartenenza e aumenta la voglia di vivere. Incoraggia la nostra tendenza a stare bene e previene/elimina lo stress. Amplia il sentimento d’autostima. Riduce il rischio di problemi gravi per la salute psichica. Aiuta a superare i momenti critici della nostra vita, ad esempio i lutti e le malattie. Gli amici più intimi possono aiutarci a cambiare le cattive abitudini, come la dipendenza da sostanze. Con un amico sincero possiamo lasciarci andare ed essere completamente “trasparenti” nei momenti felici e in quelli più difficili e dolorosi.

L’amicizia è una qualità del legame sociale che aggiunge valore alla relazione interpersonale (in famiglia, al lavoro, ecc.) e non è solo prerogativa infantile o adolescenziale.

Se penso ad essa come a un ambito spazio-temporale al cui interno si sviluppano interazioni aventi un alto grado di similarità (culturale, di interessi, valori, stili di condotta, ecc.) posso immaginare una relazione più appagante anche nelle interazioni sociali al lavoro. Tuttavia, oggi mi chiedo se l’amicizia esiste ancora in una società dove il successo a scapito degli altri sembra la via maestra. Alludo, ad esempio, a quelle organizzazioni del lavoro basate sul benchmarking, in cui i dipendenti si trovano continuamente in competizione tra loro, condizione che compromette gravemente la salute; evento testimoniato anche da una recentissima sentenza di un tribunale francese che impone alla Caisse d’Epargne Rhône Alpes Sud di fermare la loro modalità gestionale, proprio ispirata al benchmarking.

Credo che occorra impegnarsi molto responsabilmente affinché questo patrimonio immateriale della nostra umanità (l’amicizia) ritorni ad essere la fonte benefica alla quale attingere le risorse per stare in salute: il piacere di stare insieme, l’accettazione e il rispetto dell’altro, la fiducia, la comprensione, la spontaneità e l’ascolto attento dell’altro.

I rapporti amichevoli al lavoro riguardano direttamente le persone, il loro stato di salute e gli interessi delle imprese e societari, cioè la “salute” delle aziende. Pure in questo campo, ricerche ormai numerose lo confermano postulando la necessità di prestare particolare attenzione ai rischi psico-sociali e valutare attentamente l’incidenza dello stress lavoro-correlato che ha un forte impatto sull’ambiente di lavoro e sulle relazioni umane; di conseguenza, direttamente sulla salute delle persone e delle aziende. E’ proprio per questo che oggi si usa parlare di “benessere organizzativo”, facendo riferimento al fatto che un’azienda “amichevole” o friendly è capace di realizzare un clima relazionale sano e, di conseguenza, prevenire manifestazioni di malessere a livello organizzativo e individuale.

Una azienda poco amichevole è caratterizzata da fattori organizzativi come ad esempio la mancanza di relazioni di supporto sul luogo di lavoro, l’insicurezza del lavoro e la cultura organizzativa. Tali fattori costituiscono la matrice dei rischi psico-sociali e dello stress lavoro-correlato che possono causare degli effetti negativi sulla salute, un aumento del rischio di incidenti ed una diminuzione della performance capaci di portare in un secondo tempo all’abbandono del posto di lavoro. queste conseguenze hanno un impatto sia a livello individuale che a livello organizzativo, ma possono anche avere un impatto a livello di settore e nazionale.

Salute ed efficacia del lavoro nell’era del tecnostress

Se riuscissimo a renderci conto che viviamo la maggior parte della nostra giornata occupandoci dei nostri problemi di lavoro, non potremmo nascondere che oggi la qualità della nostra vita è rappresentata soprattutto dalla qualità della vita professionale.
Stiamo vivendo continuamente una mutazione “genetica” nelle nostre abitudini di lavoro e le cosiddette nuove tecnologie vanno innescando cambiamenti molto profondi nella quotidianità di ciascuno di noi. In alcune circostanze, può manifestarsi una vera alterazione nei parametri qualitativi della vita e salvo casi eccezionali – che per fortuna sono numerosi – sono molte le disfunzioni che stanno affliggendo attualmente la salute delle persone. Da una parte esistono problematiche nell’ambito “fisico” , disturbi molto spesso cronicizzati e in stretto rapporto con la fatica mentale e lo stress; dall’altra sono evidenti le problematiche di natura “psichica” o “mentale”, derivanti da un non armonico rapporto con se stessi, i propri colleghi, i dipendenti, il lavoro e il ruolo. Si tratta di campanelli d’allarme che mostrano molto chiaramente la necessità di una riflessione sulla qualità del lavoro nell’attuale clima di accresciuta competizione e di cambiamenti nei modelli di occupazione.

Internet, con le messaggerie e le reti sociali, ha cambiato il modo di comunicare; è richiesto un potenziamento delle capacità relazionali personali, una conoscenza approfondita e diffusa dei meccanismi di comunicazione tra persone, culture e sensibilità differenti e contemporaneamente avremmo bisogno di maggior tempo ed energie che purtroppo ci stanno mancando.

Con sempre maggiore frequenza proviamo inquietudine per le conseguenze di modelli organizzativi e di procedure di lavoro che sembrano aumentare soprattutto la gravosità dei carichi mentali. Alla richiesta di fare presto, meglio e a meno costi, le aziende e le organizzazioni sono costrette a introdurre nuove pratiche e procedure organizzative che comportano l’assunzione di compiti nuovi e più impegnativi per le persone che vi lavorano. Le difficoltà vissute e i sempre nuovi problemi che ci affliggono, sono segnali che impongono di aggiornare i nostri strumenti e mettono in discussione, a vario livello, le competenze individuali e professionalità.

Tutto ciò presuppone che venga posta una attenzione più marcata alla psicologia, che essa non resti appannaggio degli esperti, ma faccia parte delle competenze di base di ogni individuo: per la vita quotidiana, per il lavoro, per le relazioni che esso vorrà intessere.
Chi dirige una azienda o è responsabile di un settore di essa, non può trascurare che l’incremento della produttività e la qualità dei servizi si trova sempre più in relazione con il morale dei collaboratori e lo “star bene” (nei termini di salute e sicurezza) sul lavoro. Contribuire alla qualificazione complessiva degli ambienti di lavoro, migliorare il clima organizzativo, vuol dire contribuire al benessere e alla salute di chi vi lavora e anche garantire il successo dell’azienda e di ciò che produce.

La promozione della salute nel lavoro non riguarda unicamente la prevenzione delle malattie, delle ferite e degli incidenti. Anzi, a fronte di un calo del tasso di incidenza delle malattie o delle lesioni corporee, è in forte aumento la componente “nervosa” o psicosomatica di vari disturbi derivanti dall’uso non sempre corretto delle nuove tecnologie, oppure dalla difficoltà di far fronte agli adattamenti continui e ravvicinati che i cambiamenti di cui si parlava all’inizio impongono alle strategie aziendali.
Gli studi dimostrano che i collaboratori che lavorano in un contesto sano e privo di tensioni, danno alle aziende un netto vantaggio sulla concorrenza. Le aziende che investono sulla salute e il benessere dei loro collaboratori ne traggono un ritorno, per il fatto che favoriscono un lavoro di qualità, una più grande creatività e un miglior servizio alla clientela. Riducono il numero dei contenziosi legati alle malattie e alle lesioni e mantengono un basso tasso di assenteismo.
Riescono a far emergere i talenti migliori e conservare le persone più competenti.
La promozione della salute non richiede interventi complessi e dispendiosi. Incoraggiare il benessere dei nostri collaboratori può essere abbastanza semplice organizzando attività formative “centrate” sulle persone e finalizzate a coinvolgerle per realizzare un clima “igienico” e “facilitante” l’emersione del loro potere personale; per la salute e il successo del loro lavoro, nonché per i vantaggi intrinseci – in termini di valore aggiunto – per le aziende.

Realizzare un clima aziendale e organizzativo facilitante la interdipendenza funzionale delle persone e l’attualizzazione delle aspettative in gioco, può risultare anche una opportunità vantaggiosa per alimentare una immagine positiva dell’azienda in quanto organismo “centrato” sulle persone e interessata veramente a prendere in considerazione le percezioni e le aspettative delle persone che in essa pensano, sentono, agiscono. Immagine che pertanto può essere proponibile sia al suo interno che all’esterno . Inoltre può risultare un mezzo veramente efficace per conferire valore aggiunto a garanzia della qualità del servizio fornito.

Del buon uso del potere in azienda

Due storie a confronto che ci aiutano a comprendere quanto può essere esteso il divario di cultura organizzativa tra due grandi aziende tecnologicamente avanzatissime e conosciute in tutto il mondo.
Il primo caso riguarda la vicenda in cui Mazda motors – secondo le notizie di stampa – è stata condannata a versare un indennizzo di 63 milioni di yen, circa 550.000 euro, alla famiglia di un suo impiegato che si uccise nel 2007. Secondo gli aventi causa, tra le ragioni che avevano spinto al suicidio il proprio familiare, che aveva allora 25 anni, vi sarebbero state il troppo lavoro e le eccessive pressioni da parte dei superiori. Che avrebbero posto in essere un comportamento antigiuridico definito in Giappone come “pawahara“; termine mutuato dall’inglese “power harassment“ che connota la violenza di potere, ovvero l’arbitrario esercizio del potere sui propri dipendenti.
L’azienda ha sostenuto di aver protetto l’uomo e che il suo suicidio non aveva alcuna relazione con il suo lavoro.
I ricorrenti avevano dichiarato che il lavoro extra svolto dal loro familiare superavano il limite legalmente consentito e sostenevano che Mazda non supportava il lavoro dell’uomo, costringendolo a lavorare eccessivamente anche quando già era ammalato. L’ufficio di Hiroshima, incaricato della vigilanza sul lavoro, nel 2009 aveva riconosciuto che il ragazzo soffriva di una malattia dovuta al forte stress causato dal suo incarico, legittimando la richiesta d’indennizzo da parte della famiglia, in quanto proprio questo stress l’aveva portato al suicidio.
Il giudice Ryuji Nakamura, della Corte del distretto di Kobe, lo scorso 28 febbraio, ha accertato che il venticinquenne era caduto in uno stato depressivo a causa degli estenuanti ritmi aziendali, affermando che l’azienda avrebbe potuto evitare il suicidio e riconoscendo che le condizioni di lavoro dell’uomo erano state troppo dure. “Il lavoro svolto dalla vittima prima di suicidarsi era eccessivo sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo e la sua decisione di togliersi la vita è attribuibile a questo”.
Le morti per eccesso di lavoro, fenomenicamente definite karoshi, hanno avuto il primo caso in Giappone nel lontano 1969 e da allora sono stati registrati migliaia di casi simili. Soltanto nell’ultimo anno in questo paese almeno cento persone sono morte per l’eccessivo carico di lavoro e ben 63 lavoratori si sono uccisi per lo stesso motivo.
Dal 2007 (lo stesso anno in cui avvenne il suicidio narrato prima) BMW lavora su un progetto pilota che ha un nome eloquente: Heute für morgen, oggi per domani. In questo modo la casa automobilistica si confronta con il problema dell’invecchiamento della mano d’opera e allo stesso tempo testimonia che il lavoro degli anziani è efficace quanto quello dei più giovani e risulta essere di migliore qualità. Tale è la conclusione alla quale l’azienda è giunta dopo le prime esperienze fatte nello stabilimento di Dingolfing, nella Germania del sud. Si tratta di un’iniziativa su misura per operai ‘anziani’ dei quali il gruppo tedesco non vuole perdere l’esperienza. Il piano è stato avviato proprio per mantenere in attività i lavoratori senior e maggiormente esperti affinché l’invecchiamento delle risorse umane non abbia come conseguenza uno svantaggio concorrenziale per l’impresa.
Nel segnalare che si tratta di una novità mondiale, la Bmw annuncia che nell’impianto di Dingolfing lavorano operai di ogni età ma la fabbrica è dedicata soprattutto a quelli più anziani ed esperti che il gruppo automobilistico bavarese spera così di mantenere al lavoro più a lungo anche grazie a una serie di interventi ad hoc con l’obiettivo di limitare i problemi di salute dei lavoratori della catena di montaggio che esercitano un lavoro ripetitivo e usurante.
L’intervento per migliorare i posti di lavoro è stato ispirato dalle stesse idee dei lavoratori con il supporto di alcuni fisioterapisti che hanno valutato con precisione i rischi relativi a ciascuna postazione. Di conseguenza, i pavimenti di cemento sono stati sostituiti dal parquet; sono state distribuite scarpe a pianta larga, più adatte per i piedi e il peso dei senior; i monitor di controllo sono stati abbassati e inclinati al punto giusto, in modo da evitare i movimenti ripetitivi del capo; le informazioni sono state scritte con caratteri più evidenti; il cambio del turno di lavoro avviene ogni quattro ore; è stata proposta una formazione specifica sull’igiene personale e l’alimentazione; hanno a disposizione una sala relax e ricevono settimanalmente la visita di una kinesiterapista per gli eventuali interventi di rieducazione funzionale. Sono molti i dettagli che fanno la differenza e spesso sono stati messi in pratica semplici e poco onerosi accorgimenti.
I cambiamenti sono stati molto apprezzati sia dai lavoratori con maggiore anzianità che dai più giovani e hanno permesso di aumentare la produttività del gruppo coinvolto del 7%. Soddisfatta di questi risultati, la casa automobilistica ha esteso il suo progetto pilota agli stabilimenti di Monaco, Steyr e Leipzig.
Due esempi che non hanno bisogno di molti commenti; da parte mia, rimango fedele ad un approccio europeo dell’innovazione organizzativa e soprattutto al coinvolgimento attivo dei lavoratori. Il futuro delle imprese è legato alla responsabilità sociale e “societaria” delle persone.

Per approfondire la storia BMW: https://www.press.bmwgroup.com/pres….