Archivio dei tag relazioni collaborative

Nuove forme di lavoro e nuove esigenze cognitive

Qual è l’impatto delle tecnologie digitali dell’informazione e della comunicazione sulla qualità della vita e del lavoro? Il loro uso è ormai inevitabile. Proprio per questo è necessario conoscere gli eventuali effetti dirompenti nei confronti del benessere e della qualità della vita al lavoro.

Ognuno può rendersi conto in ogni momento, qualunque cosa stia facendo, che l’uso delle ICT ha determinato una notevole riconfigurazione delle pratiche quotidiane e una definizione del quadro di riferimento delle attività e delle competenze nel lavoro. Queste trasformazioni sono accompagnate da nuove sollecitazioni, ad esempio la necessità di elaborare in pochissimo tempo le informazioni ricevute o l’urgenza di organizzare la valanga di dati che ogni giorno richiamano la nostra attenzione. Portano con sé anche delle opportunità tra le quali la possibilità di gestire meglio il proprio orario di lavoro. Ma soprattutto hanno dato vita a nuovi profili di attività professionali caratterizzate da forme inedite di organizzazione del lavoro e una notevole dominanza delle tecnologie digitali.

Accelerazione digitale
In questi ultimi anni l’accelerazione del ritmo dei cambiamenti è in costante crescita a causa delle continue innovazioni e conseguente messa a punto di soluzioni tecnologiche. Si tratta di processi di implementazione che innovano le modalità di azione e di apprendimento di chi usa le tecnologie e che, a volte, generano evidenti situazioni dirompenti nell’ambito del loro utilizzo. Soprattutto perché esse richiedono una ristrutturazione radicale dell’esperienza dell’utilizzatore, in quanto elicitano nuovi modi di fare, di pensare, di organizzare le attività e mantenere vive le collaborazioni. Ragion per cui è necessario inventare nuovi modelli organizzativi e socio-cognitivi per lavorare con gli strumenti digitali e, allo stesso tempo, tenere conto che l’uso delle tecnologie può avere effetti sulla salute e il benessere di chi le usa.

Gli studi scientifici e le ricerche empiriche hanno messo in evidenza l’emergere di collegamenti tra le condizioni di lavoro, in cui le ICT svolgono un ruolo importante, e la salute di chi lavora. Diventa pertanto importante tenerne conto, soprattutto per motivarci ad analizzare ancora più in profondità il ruolo delle ICT rispetto alla salute e alla qualità della vita e del lavoro.

Ad esempio, il tempo e le risorse liberate grazie all’uso delle ICT possono essere investite in occupazioni che producono maggiore valore aggiunto e sono più stimolanti. Tuttavia, mentre le tecnologie possono migliorare il lavoro e riqualificare la professionalità, esse tendono anche a snaturare il lato umano dell’attività e a sviare la persona che lavora da tutto ciò che ha senso per essa; per esempio: le pratiche e i contatti professionali, oppure i margini individuali di manovra e la relazione che ha con il “suo” lavoro. La mediatizzazione tecnologica dell’attività può dunque correre il rischio di svolgersi in danno della salute di chi lavora e della qualità della vita al lavoro perché ha un impatto sulla struttura psichica della persona.

Come si diceva, in questo costante processo di cambiamento alimentato dalle continue innovazioni tecnologiche, possiamo mettere in evidenza anche una certa varietà di destabilizzazioni. Si tratta di cambiamenti costanti che influenzano la struttura e il contenuto delle decisioni e delle comunicazioni e di conseguenza influenzano i tradizionali parametri di riferimento dello spazio e del tempo di lavoro. Mentre nello spazio (di lavoro), le ICT hanno completamente smaterializzato la relazione dei dipendenti con il proprio ufficio, l’azienda, la famiglia e la vita privata; tanto che i confini tra i diversi tipi di ambito sono divenuti permeabili, se non addirittura scomparsi. Nella prospettiva temporale, dato che l’orario di lavoro è sempre più scandito dal tempo (velocissimo) degli strumenti tecnologici e il ritmo batte la misura al nanosecondo, l’immediatezza diventa la modalità prevalente di organizzazione della vita professionale e sociale. In questo caso, il tempo umano è diventato tempo della processazione che rimpalla sull’aumento del carico di lavoro. Ciò che può essere brevemente definito come la relazione tra sollecitazioni e capacità che possono essere mobilitate dall’individuo. In questo caso, cresce in modo esponenziale il volume dei dati (in quantità e qualità) ragion per cui il lavoro subisce una compressione dovuta alla maggiore quantità di informazioni da gestire e, allo stesso tempo, l’attività si intensifica con l’accelerazione del ritmo di lavoro e delle sequenze di lavoro. Rapidità delle comunicazioni, immediatezza della risposta e reattività della persona diventano così alcune delle caratteristiche del compito smaterializzato. Il riflesso sostituisce la riflessione e la simultaneità delle attività diventa una condotta pregnante dell’attività mediatizzata. E’ quanto risulta, in modo ben evidenziato e documentato, proprio dagli studi specialistici. L’accumulo di compiti in corso, avviati, ma mai completamente completati, si sta dimostrando estenuante e, allo stesso tempo, angosciante. Il dipendente si disperde in compiti concorrenti e contemporanei che deve gestire secondo le sollecitazioni tecnologiche per progredire nonostante tutto nel lavoro.

Frammentazione e destabilizzazione
Si tratta di situazioni marcate da continui disapprendimenti e/o riapprendimenti, che sono cognitivamente estenuanti e professionalmente molto destabilizzanti, in grado addirittura di imporre le regole di condotta e di lavoro perché strettamente associate all’uso degli strumenti digitali. In questi casi, parliamo anche di stress associato alle paure, le ansie, le frustrazioni provocate dalla introduzione e dall’uso delle tecnologie sul lavoro.

Gli artefatti tecnologici guidano e scandiscono il lavoro, pongono frequenti sollecitazioni. Interrompono il lavoro, determinano le modalità di azione e gli impieghi del tempo (ad esempio, attraverso le agende condivise), orientano e costantemente reindirizzano azioni e compiti da realizzare (al esempio, attraverso la messaggistica sincrona e asincrona). Tutti casi in cui i dipendenti si sentono privati della loro capacità di agire e prendere decisioni sulla propria attività. Di fronte a queste interruzioni permanenti, il lavoro è frammentato e ridotto a micro-compiti che devono essere costantemente raccordati per ritrovarne il senso. Si ha allora la sensazione di perdere il controllo del proprio lavoro per subire ciò che impone il sistema. Alla fine, ci si trova davanti a un lavoro che richiede sempre più frequentemente di affrontare gli imprevisti e raccordare i compiti frammentati, vale a dire un lavoro sul lavoro. Che potremmo anche definire un “meta-lavoro”.

Sottoposto a tale frammentazione, l’individuo è dunque obbligato a ridefinire costantemente l’organizzazione e le priorità della sua attività per dare una parvenza di coerenza e raggiungere i suoi obiettivi professionali.

In questa attività spezzettata, ognuno deve sapere come gestire il passaggio tra i diversi frammenti di attività, e anche tra i diversi mondi professionali ad esso collegati e in cui si ritrova proiettato secondo le sollecitazioni della tecnologia digitale.

Propongo un quadro emerso da una ricerca pubblicata recentemente. Si tratta di una dirigente che si trova ad assumere, nello spazio di qualche decina di minuti, ruoli e responsabilità diverse. Cioè, svolgere il ruolo di responsabile della comunicazione, del project manager, collaborare a un altro progetto, essere cliente di un fornitore, collega … ecc. Ove ogni contesto professionale è stato avviato da una interruzione tecnologica (mail, smartphone, strumenti collaborativi, agenda condivisa, ecc.) e ha richiesto specifici riferimenti commerciali: conoscenza del vocabolario dedicato, implementazione di un particolare know-how, padronanza degli strumenti e metodi appropriati, conoscenza degli obiettivi di ciascun progetto e loro temporalità, posizionamento e ruolo sociale appropriato. Alla fine, la dirigente doveva essere in grado di adattarsi permanentemente a questa “poli contestualità professionale”. In questo caso diventano necessarie capacità cognitive specifiche (gestione della dispersione, contestualizzazione, anticipazione, articolazione delle differenze, organizzazione, ecc.) In modo che l’attività possa raggiungere un obiettivo che si trova oltre l’assemblaggio caotico di frammenti dispersi di lavoro. In assenza di tale impegno di articolazione, il rischio è che l’attività perde il suo significato, si svuota della sua sostanza e alla fine scoraggia l’individuo che è costretto a confrontarsi con una serie di attività frustrate e frustranti, incomplete o prevenute, in breve a un lavoro che gli sfugge e in cui non si riconosce.

Tutto ciò – possiamo comprenderlo – rappresenta una fonte di malessere per le persone e, di conseguenza, può avere un impatto non positivo sulla qualità della vita al lavoro.

 

* L’autore può fornire – a richiesta – ulteriori informazioni ed eventuale documentazione bibliografica, nonché pareri specialistici sullo specifico argomento

Dare un senso alle trasformazioni in atto

Ci troviamo ormai al centro di una nuova rivoluzione tecnologica e, di conseguenza, socio-economica e antropologica. Cosa è cambiato e come stiamo cambiando? Abbiamo adeguata consapevolezza di ciò che sta accadendo e siamo in grado di aggiornare le informazioni in nostro possesso, su noi stessi e il mondo che ci circonda?
Questo articolo propone una breve riflessione sui nuovi sistemi economici e allo stesso tempo un tentativo di inquadrare sommariamente alcuni elementi delle trasformazioni in atto e l’impatto sulle persone e gli organismi sociali.

Sono ancora poco frequenti gli studi sulla portata della trasformazione digitale nei confronti del benessere e il funzionamento delle persone e delle organizzazioni; molto spesso essa viene percepita come utilizzo di “tecnologie soft”, che agevolano la qualità della vita di chi se ne avvale. In realtà, non è ancora possibile inquadrare con certezza il ruolo che questi cambiamenti stanno avendo sul comportamento individuale o organizzativo delle nostre occupazioni.

Sembra che possa cambiare tutto, a partire dal lavoro. E’ quanto emerge da un recente rapporto del World Economic Forum (2016), il 65% dei bambini che in questo momento frequentano la scuola primaria, probabilmente avrà un’occupazione che oggi non esiste ancora. È possibile che i lavori attuali non scompariranno del tutto ma saranno certamente ridefiniti e cambieranno le competenze necessarie per svolgerli in congruenza con le esigenze organizzative della produzione e dei servizi del futuro.

Un nuovo mondo del lavoro
Negli ultimi due decenni, le nuove tecnologie hanno gradualmente modellato un “nuovo mondo del lavoro”. Questi nuovi ambienti di lavoro mettono a confronto i lavoratori e le loro organizzazioni con molteplici sfide all’insegna della “economia digitale”. Quest’ultima, come si sa, ha caratteristiche molto peculiari. Innanzitutto, le informazioni digitalizzate, prodotte in grande abbondanza (big data) e sfruttabili da algoritmi molto potenti, rappresentano una risorsa economica sempre più strategica, in tutti i settori di attività e su scala mondiale. Inoltre si sta delineando un nuovo modello di produzione industriale all’insegna della “Industria 4.0”, che si avvale di una nuova generazione di oggetti comunicanti (l’Internet delle cose), macchine capaci di imparare sfruttando grandi dati e muoversi autonomamente. Allo stesso tempo, il concetto di rete sta diventando un principio organizzativo non solo dell’economia, ma anche della vita nella società perché è cambiata profondamente la nostra concezione della distanza e del tempo. Infine, lo specifico modello di business delle piattaforme online, noto anche come mercati a due lati, sta diventando sempre più importante e tende a sostituire modelli di business più tradizionali nella fornitura di servizi o nella distribuzione di beni. Queste funzionalità non sono completamente nuove, ad eccezione del modello di piattaforma. Combinano tendenze di lunga data, con lo sviluppo della società dell’informazione e cambiamenti più radicali, spesso definiti “disruptive”.

Sotto l’effetto di questa nuova generazione di tecnologie digitali pervasive e di cambiamenti in costante accelerazione nelle organizzazioni aziendali, sono in corso importanti trasformazioni nelle situazioni di lavoro e nella vita delle persone. Nelle aziende l’ambiente di lavoro ha accolto nuovi oggetti: microchip comunicanti, dispositivi di geolocalizzazione, robot autonomi, software incorporati in tutti i dispositivi. Dietro queste tecnologie, ci ricorda G. Vallenduc (Toeing the line. Working conditions in digital environments. HesaMag, 16/2017) vi sono algoritmi potenti e alquanto misteriosi che generano miliardi di gigabyte per pilotare dispositivi industriali remoti, tracciare merci e persone, prevedere comportamenti, influenzare le preferenze e molto altro che sarebbe andato oltre la nostra immaginazione dieci anni fa, quando i primi smartphone furono messi sul mercato.

In questa “economia digitale”, come si presentano i problemi di benessere organizzativo?
L’economia digitale fa già parte delle nostre vite. È una rivoluzione che porta con sé molti lati positivi: un mondo connesso, più opportunità di collaborazione, macchinari che svolgono buona parte dei lavori pesanti, computer in grado di coadiuvare attività complesse ecc. Tuttavia, al di là di questi miracoli tecnologici, queste grandi trasformazioni avranno i loro effetti, oltre che sul mercato del lavoro, anche sulle condizioni di vita dei lavoratori dipendenti, sulle condizioni di lavoro e sulla formazione.

Il sovraccarico di informazioni è la forma più comune di tecnostress.
In questo scenario, l’attività di lavoro si svolgerà in connessione permanente con notevoli effetti sulla salute delle persone. Il “tecnostress”, legato al fatto di lavorare online in modo continuato (in pratica: permanente), è stato oggetto di numerosi studi lungo il corso degli anni; cito ad es. quelli di Mandl et colleghi (New forms of employment Eurofound, Publications Office of the EU, 2015) e voglio ricordare anche il recente “ICT e lavoro: nuove prospettive di analisi per la salute e la sicurezza sul lavoro” (Inail, 2017).

Quando si parla di technostress, si allude all’aumento del carico psicosociale correlato al lavoro, in quanto il potenziale offerto dai nuovi strumenti digitali molto spesso si trasforma in una pressione sul lavoratore. Sia a livello delle aspettative esplicite o implicite del suo datore di lavoro o dei suoi colleghi, sia delle aspettative o esigenze del cliente, per problemi di connettività che disturbano il lavoro o sotto forma di forte dipendenza da strumenti digitali come ad esempio gli smartphone e i tablet.

Vallenduc, nel lavoro appena citato, sottolinea che il sovraccarico di informazioni è la forma più comune di tecnostress. Dicendo anche che l’uso continuato di e-mail, messaggistica istantanea e social network comporta un elevato carico di informazioni e messaggi, nonché frequenti interruzioni del lavoro. Ciò causa una pressione costante per dare una risposta a tutti i segnali ricevuti o per segnalare la propria presenza. Inoltre, i messaggi di posta elettronica sono spesso caratterizzati dalla mancanza di indicatori organizzativi, quando gli stessi messaggi vengono inviati a un numero elevato di destinatari, senza ordine di priorità o destinazione preferita. Spetta a ciascun dipendente adottare i propri criteri di selezione e valutazione, con il rischio di essere criticato per aver trascurato le informazioni che aveva ricevuto. Il costante mix di informazioni significative e informazioni insignificanti, che caratterizzano Internet e i social network, è fonte di affaticamento mentale, oltre alla necessità di essere permanentemente accessibile e disponibile. Inoltre, i frequenti utenti di Internet possono essere influenzati da una perdita di riferimenti spaziali e temporali, legati all’apparente scomparsa di distanze e differenze temporali. Il “tempo reale” che caratterizza il lavoro online a volte è un momento che non è reale per nessuno.

Le conseguenze del tecnostress possono manifestarsi nella stanchezza cronica generalizzata, un atteggiamento apatico o cinico, compromissione della concentrazione, tensione muscolare e altri dolori fisici, oltre al burnout. Oltre a queste conseguenze, che sono abbastanza simili a quelle dello stress da lavoro in generale, il tecnostress può portare a disturbi neurologici di deficit dell’attenzione che rendono i lavoratori incapaci di gestire correttamente le loro priorità e il loro tempo e che generano sentimenti di panico o senso di colpa.

Ciò che è nuovo oggi, è che una crescente proporzione di lavoratori è interessata da questi fenomeni di eccessiva sollecitazione digitale: non solo i manager, ma anche i professionisti di tutte le discipline, i dipendenti tecnici e commerciali, gli operatori sanitari. Lo sviluppo del nomadismo digitale è una delle cause di questa espansione. Si tratta una forma di organizzazione del lavoro che utilizza costantemente strumenti digitali connessi e moltiplica i luoghi di lavoro: in varie sedi dell’azienda, presso i clienti, in viaggio, a casa, negli spazi condivisi, ecc., fino alla evanescenza della nozione stessa di luogo di lavoro. Secondo gli studi di Mandl e colleghi (cit.), la moltiplicazione dei luoghi di lavoro oggi riguarda quasi un quarto dei lavoratori europei.

Oltre al tecnostress, i nomadi digitali sono anche esposti al rischio di dipendenza o di assuefazione ai dispositivi mobili e onnipresenti: l’uso compulsivo, la difficoltà di disconnessione sarebbe solo temporanea, stato di astinenza dopo l’interruzione dell’uso cronico, rischio di recidiva dopo periodi di disconnessione, ecc. Per molti lavoratori mobili, la gestione dei tempi di connessione e disconnessione diventa un problema importante, non solo in termini di stress ma anche in termini di equilibrio tra lavoro e vita privata e in termini di responsabilità all’interno delle organizzazioni. Di fronte a questi rischi, alcuni rapporti ufficiali (ricordo il “Rapporto Mettlin del 2015 per il Governo francese) raccomandano l’istituzione di un “diritto alla disconnessione”, già inserito in alcuni accordi negoziati nelle aziende.

La necessità di esserci

Le attuali evoluzioni tecnologiche sono rappresentate dalla diversità, la continuità, la velocità e talvolta da una certa inesorabilità nella diffusione di innovazioni riguardanti tutti gli ambiti della nostra vita. Si tratta di una sfida importante per il management delle risorse umane e coinvolgerà tutte le persone perché implicherà un cambio di mentalità profondo e un nuovo modo di “essere” (da-sein) nell’effettività dei processi in atto.

 

Che cosa sta accadendo?
Che lo si voglia o no, il digitale 4.0 continua a produrre cambiamenti permanenti nelle pratiche professionali, nei modelli organizzativi e anche nelle regole del mercato.

Questa ri-evoluzione socio-economica, oggi soprattutto considerata dal punto di vista tecnologico delle applicazioni, è anche e specialmente una questione di persone, di donne e uomini, quelle Risorse Umane tuttora fondamentali nel mondo del lavoro, che vivono intensamente i radicali cambiamenti delle imprese e dei mercati.
Il ruolo del manager sta cambiando e i leader di domani hanno bisogno di imparare come ascoltare le persone e comprenderle, come padroneggiare l’arte del coinvolgimento di esse, perché essere leader nel vortice della trasformazione digitale dell’azienda non vuol dire solo essere presenti sui social network ma occorre soprattutto esprimere competenza nell’uso di tecniche di comunicazione appropriate all’interno dell’azienda. Il cambiamento più profondo che occorrerà realizzare, riguarderà la “trasformazione” delle persone attraverso processi di sviluppo che non riguardano tanto la formazione tecnica quanto la incorporazione di una cultura organizzativa e un modo di pensare al passo con i tempi che attualizzi le modalità operative che meglio rispondono alle sfide delle continue trasformazioni.

Occorre tener conto che i cambiamenti in atto non sono riconducibili solo alle nuove metodologie organizzative e gestionali e alle tecniche che le supportano, ma hanno a che fare con aspetti che riguardano le persone che lavorano, nel loro rapporto con la tecnologia, la società e più in generale con la realtà. È piuttosto evidente che uno degli aspetti critici che desta maggiore attenzione riguarda l’impatto di queste innovazioni sul lavoro e sulle persone che lavorano.

Il lavoro è cambiato, non è più lo stesso di prima, continua a cambiare e sta cambiando le persone ed anche i loro stili di vita.
La fatica fisica si riduce mentre tende a crescere la tensione mentale e lo stress. Cresce pure l’autonomia e la creatività del lavoro, a prezzo però di un’accresciuta instabilità e incertezza dei posti di lavoro. Aumentano le differenze professionali: quelle con retribuzioni che vanno verso l’alto e quelle – come ad esempio, lavori manuali tradizionali – che si trovano sempre più marginalizzate.

Sono cambiamenti che nella mentalità comune stanno delineando due grandi gruppi di pensiero: quello degli scettici o contrari, che rifiutano a priori ciò che sta accadendo, e quello dei convinti sostenitori della rivoluzione 4.0 che immaginano organismi sociali più in linea con il tempo presente, in grado di rispondere con maggiore efficacia ai bisogni dell’umanità.
Tuttavia il problema non è tanto quello di schierarsi da una parte o dall’altra, ma piuttosto di comprendere quello che sta accadendo e quali implicazioni possono emergere da questa ampia fase di rinnovamento.

Con la comparsa di nuove generazioni di tecnologie digitali e il susseguirsi di rapidi cambiamenti nelle organizzazioni aziendali, avvengono importanti trasformazioni nei luoghi di lavoro che richiedono alle persone una “presenza di spirito” (effettività) sempre attiva e desta.
Questa grande varietà di tecnologie, ci dice Luciano Pero (Sindacato Futuro in Industry 4.0 – ADAPT University Press, 2015), potrebbero aprire la strada a una grande varietà di formule organizzative, assai diverse dalla organizzazione dominante delle tre rivoluzioni industriali di fine ‘700, di fine ‘800 e degli anni 80 del ‘900 e sarà un ambio ventaglio di forme organizzative.
Probabilmente tutto ciò avrà un notevole impatto che apre anche una grande opzione per l’umanità del futuro. Perché come è già accaduto in altri periodi dello sviluppo industriale, ci sarà bisogno di addomesticare e di adattare ai fabbisogni reali le enormi potenzialità tecnologiche che avremo a disposizione. L’umanizzazione di queste nuove tecnologie può essere compiuta sia dal punto di vista dell’utente, quindi dal punto di vista delle persone che usano queste tecnologie, sia dal punto di vista di quelli che le producono. In pratica, da tutti coloro che ne verranno a contatto.

Cambiano i mercati, cambia il lavoro, cambiano le persone nella loro professionalità ed anche nei loro modi di vivere il cambiamento.
Il lavoro cambia profondamente e le tradizionali distinzioni tra lavoro manuale e intellettuale tendono a ridursi o a scomparire. I lavoratori non solo si troveranno a lavorare in condizioni di lavoro migliori (meno fatica, ambienti più salubri, garanzie sulla salute e la sicurezza al lavoro) ma anche a far fronte alla richiesta di un maggiore impegno intellettuale e un conseguente aumento di tensione mentale e di stress. Saranno impegni complessi di notevole impegno cognitivo, come ad esempio l’analisi dei guasti, di errori e anomalie, la soluzione di problemi. I tecnici, a loro volta, hanno informazioni e strumentazioni avveniristiche, ma devono anche operare direttamente.

C’è da dire che le trasformazioni sono ormai evidenti e hanno riguardato sia il contenuto del lavoro, sia le macchine e gli strumenti, sia soprattutto le relazioni interpersonali, la socialità e la cultura. Ma, come dice giustamente L. Pero, l’attenzione che il paese ha dedicato a questi cambiamenti sembra essere inversamente proporzionale alla loro profondità. Sui grandi mezzi di comunicazione c’è stata una sorta di rimozione del problema del lavoro che cambia. Il lavoro reale e i lavoratori in carne e ossa sono quasi scomparsi dalla televisione, sostituiti dai ruoli di successo nel mondo virtuale: i presentatori, gli attori e i divi televisivi, i calciatori, le modelle e le veline e così via.

Diventa necessaria un’attenzione consapevole nei confronti di questi fenomeni e un riconoscimento adeguato della dimensione umana del lavoro. Che tenga conto della necessità di ESSERCI (di essere) nel cambiamento e nella trasformazione del lavoro e della produzione dando un senso ai processi in atto e trasformando le risorse umane in relazioni.
In primo luogo è necessario comprendere le forme complesse del cambiamento e le lunghe catene che lo causano, cercando di trovare categorie interpretative moderne e adeguate ai problemi di oggi. Ad esempio quale è il nuovo contenuto intellettuale e relazionale del lavoro e cosa implica, oppure quale rapporto si sviluppa tra le scelte di mercato “mondializzato” delle imprese e le reti professionali e sociali che si creano tra i lavoratori.
Ci sarà anche l’occasione di consentire alle persone e ai lavoratori un maggiore controllo dal basso dello sviluppo delle tecnologie e dei modi di produzione. Con la prospettiva di attivare nuove forme di partecipazione diretta dei lavoratori per favorire il coinvolgimento e la fiducia delle persone impegnate nei processi produttivi.

Quali potranno essere esattamente le competenze necessarie per il futuro? Non è chiaro come sembra a prima vista. Le abilità relazionali, la collaborazione e le capacità interfunzionali potrebbero essere le più utili. I manager delle Risorse Umane dovranno creare un nuovo equilibrio e una fluida corrispondenza tra il contributo (fondamentale) dei dipendenti, il riconoscimento e il rafforzamento del loro impegno. Tenendo anche in considerazione che la relazione tra datore di lavoro e dipendente si costruisce sulla comprensione e sulla appropriazione da parte dei dipendenti del luogo e del ruolo dell’azienda nella società. Il loro impegno diventa la condizione di efficienza dell’azienda. E per questo l’azienda deve proporre un nuovo rapporto di lavoro basato sulla fiducia, l’autonomia e la responsabilità. La maggior parte dei compiti ripetitivi – sia per gli operai che per gli impiegati – sarà sempre più automatizzata/robotizzata, focalizzando le attività umane verso lavori iper-creativi e innovativi e verso attività in cui l’interazione umana è essenziale (consapevolezza desta, empatia, affettività, cura, convinzione, assunzione di rischi, capacità di prendere decisioni, autonomia, ecc.).

È ormai chiaro che nuove regole di comunicazione dovranno basarsi sulla condivisione continua e incessante delle informazioni. Attraverso gli strumenti rinnovati della comunicazione, l’azienda potrà sollecitare e mobilitare i suoi dipendenti attraverso lo sviluppo della cooperazione, del riconoscimento e della valutazione a 360° delle attività in essere.
Per gran parte dei compiti nel settore terziario, nel frattempo il lavoro è stato liberato dai limiti del tempo (orario di lavoro) e posizione (stabilimento, postazione di lavoro). Quindi il telelavoro, già presente, nelle attività intellettuali, si estenderà anche agli altri domini, in particolare attraverso gli oggetti connessi. Ciò richiederà maggiore considerazione sul tempo-spazio di lavoro e sul tempo-spazio della vita privata.

Bisogna tenere conto del fatto che la crescita dei collaboratori si realizza attraverso il lavoro. Ciò avviene per le opportunità di apprendimento che l’azienda è in grado di proporre. Le persone che lavorano si aspettano di imparare di più, di essere coinvolte nelle decisioni di alto livello e di progredire sia in termini di responsabilità che di retribuzione.
Offrire ai collaboratori delle opportunità di crescita è oltremodo motivante. Dimostra che l’azienda crede in loro, che li rispetta e ha a cuore il loro interesse. Trovare un modo per alimentare una passione con loro, rende il lavoro un posto dove i collaboratori vogliono e sono in grado di dare il meglio di loro stessi. Questo è il modo di esserci!

I multiformi volti della “famiglia” alla soglia del XXI secolo

Nel quadro delle profonde trasformazioni che in questi ultimi anni hanno investito i rapporti tra generazioni e quelli tra generi, la famiglia mononucleare, caratterizzata dalla coppia uomo/donna con figli, non rappresenta più la “normale” struttura entro la quale prendono corpo i legami primari. E’ attualmente necessario includere le forme nuovecoppie senza figli; famiglie ricostituite, con o senza figli di precedenti unioni; singles, uomini o donne, con figli; coppie di omosessuali, con o senza figli; immigrati, con eventuali “altri” stili di coniugalità; famiglie non di tipo coniugale; famiglie multiple; famiglie unipersonali; famiglie con uno dei coniugi pendolare o assente per lunghi periodi e/o residente altroveche la famiglia oggi può assumere, occasione di trasformazione della comunità sociale in cui le famiglie stesse sono inserite [1].

Tra le famiglie europee, la famiglia italiana è quella più legata alla tradizione, è quella che ha resistito maggiormente alle trasformazioni della modernità. La protratta permanenza dei giovani in famiglia (e, di riflesso, la loro ritardata uscita dalla casa dei genitori) è ormai considerato uno dei mutamenti principali della struttura familiare [2]. Le ultime generazioni di giovani sono più lente a lasciare la casa dei genitori [3]. Il fatto che nella nostra società, come negli altri paesi occidentali, si sia affermata la categoria sociale dei giovani adulti, rende manifesta una nuova condizione esistenziale, quasi una nuova fase della vita che vede la compresenza di aspetti di vita giovanile (dipendenza affettiva dai genitori, indefinitezza e dilazione dei propri progetti, ecc.) e di sfere di vita adulta (autogoverno del proprio tempo e delle proprie relazioni extra familiari, eventuale indipendenza economica e stabilità lavorativa, ecc.).

Limitandoci a considerare i fattori di ordine culturale, riscontriamo che nella maggioranza dei casi l’attenzione è rivolta soprattutto sui cambiamenti del rapporto genitori figli in senso più paritario, oltre che sui fattori strutturali. Va scomparendo il ruolo autoritario paterno, i rapporti sono più equilibrati e i giovani hanno più spazi di autonomia e di tempo, inoltre i genitori sono contenti della convivenza con i figli “quasi adulti” e desiderano che essi rimangano in casa. La famiglia è disposta a farsi carico dei figli molto a lungo, dando loro appoggio materiale ed affettivo, per garantire loro una base sicura da cui partire (con modalità diverse a seconda della classe sociale) [4] .

Cavalli e De Lillo [5] pongono in evidenza che la dilazione dell’uscita dalla famiglia sia frutto di cambiamenti culturali nelle relazioni genitori e figli, ma allo stesso tempo che tali cambiamenti siano stati resi possibili grazie al forte valore tradizionale attribuito ai legami familiari, soprattutto tra genitori e figli.

Ogni evento significativo, nello sviluppo dell’individuo e della famiglia, vada studiato quale parte del ciclo di vita familiare, più che di quello individuale, in quanto prodotto dei processi evolutivi dei sistemi di relazioni intra-familiari e intergenerazionali, che a loro volta vengono influenzati dagli esiti dell’evento che li coinvolge.
Faimberg e Corel, evidenziano che il figlio “per la propria sopravvivenza psichica, perde il libero accesso all’interpretazione del proprio psichismo e resta assoggettato a ciò che i genitori dicono o tacciono” [6].

La Kaes scrive che l’individuo assorbe, senza una sua adesione volontaria, soprattutto ciò di cui non si parla, attraverso divieti, rituali, abitudini e tutto quanto prende forma dentro di lui e vi resta in maniera indiscussa e invariabile. Solo se viene riportato a livello di coscienza, egli può rendersi conto dell’alta influenza che questo patrimonio ha nella sua vita:
… la famiglia di cui il bambino entra a far parte, predispone e consegna al nuovo venuto “segni di riconoscimento e di richiamo, assegna dei posti, presenta degli
oggetti, offre dei mezzi di protezione e di attacco, traccia delle vie di realizzazione, segnala dei limiti, enuncia degli interdetti” [7]. Aggiungendo anche che “Se i processi psichici di una generazione non si prolungassero nella generazione successiva, ogni generazione dovrebbe acquisire ex-novo il proprio atteggiamento verso l’esistenza, e non vi sarebbe in questo campo nessun progresso e in sostanza nessuna evoluzione” [8].

Ci ricorda Oliver Sacks che Ognuno di noi ha una storia del proprio vissuto, un racconto interiore, la cui continuità, il cui senso è la nostra vita. Si potrebbe dire che ognuno di noi costruisce e vive un “racconto”, e che questo racconto è noi stessi, la nostra identità.

Se nelle cosiddette società arcaiche tutto era connesso con tutto e l’individuo non era nulla al di fuori della famiglia, della tribù o della “città” di appartenenza, oggi registriamo un vero e proprio capovolgimento di questa prospettiva, così che da un lato la società si differenzia in innumerevoli sistemi parziali, dall’altro gli interessi e i bisogni individuali sembrano aver preso il sopravvento su qualsiasi dimensione Vorremmo essere, in primo luogo, autonomi e liberi da legami troppo impegnativi, ma in questo modo indeboliamo anche quel riconoscimento reciproco dal quale dipende non da ultimo la nostra identità [10]

Grande influenza, nella formazione del bambino, hanno i messaggi non verbali, comportamentali e gestuali; il bambino “legge” e registra quotidianamente le azioni dei genitori e soprattutto nei casi di incongruenza tra parole e fatti, di fronte ai silenzi o ai vuoti del non detto, tenta di darsi delle risposte da solo (Pagano, 2005) [11]

Cigoli [12] è stato il primo in Italia a mettere in luce questa realtà sostenendo l’esistenza di un reciproco vantaggio di tipo psicologico, tanto per i genitori quanto per i figli, nel perpetuare il loro rapporto di interdipendenza e di convivenza. Individuando un meccanismo di doppia identificazione negli atteggiamenti genitoriali, è riuscito a dimostrare che i genitori si identificano con i propri genitori (in quanto genitori), perpetuando il lavoro interno di riparazione in cui recuperano positivamente le figure genitoriali. Dall’altro lato, si identificano con i figli (in quanto sono stati figli) a cui cercano di dare di più di quanto hanno avuto loro e si autogratificano per questo. Realizzando così il loro ideale di rapporto, in quanto riescono ad incarnare l’immagine dei genitori che avrebbero idealmente voluto, auspicando allo stesso tempo che i figli vivano quella condizione che loro stessi avrebbero voluto vivere in quanto figli. Tutto questo disporrebbe i genitori a mantenere viva questa esperienza gratificante di “buona genitorialità” e – inconsciamente – a non incoraggiare l’uscita dei figli. In questo caso è evidente che dei buoni e soddisfacenti rapporti tra genitori e figli, pur essendo delle notevoli risorse evolutive per la famiglia e gli individui, possono diventare un ostacolo al distacco dei giovani dalla famiglia di origine, impedendo loro di vivere quelle positive tensioni alla trasformazione che portano dalla dipendenza all’autonomia.

L’aforisma di Oscar Wilde “è con le migliori intenzioni che il più delle volte si ottengono gli effetti peggiori” sembra essere perfettamente calzante all’evoluzione del rapporto fra genitori e figli in questi ultimi decenni. Risulta evidente anche da un recente studio pubblicato con il titolo “Modelli di famiglia” [13].

Basta osservare ciò che accade quando le famiglie tentano di risolvere i problemi in cui sono intrappolate. Ogni sistema familiare, usualmente, tende ad organizzarsi intorno a quelle interazioni che si riveleranno più utili al mantenimento dell’unità familiare ed a cercare relazioni permanenti. Di solito vengono privilegiate quelle relazioni che si accordano meglio con le convinzioni personali di uno o di entrambi i genitori.
Le ridondanze comportamentali e comunicative nell’interazione fra genitori e figli reiterate danno origine a modelli diversi di relazioni familiari. I modelli emergenti nella società italiana sono:
iperprotettivo : i genitori si sostituiscono continuamente ai figli considerati fragili e impediscono loro di crescere;
democratico-permissivo : i genitori sono amici dei figli, mancano di autorevolezza, sono saltate le gerarchie;
sacrificante : i genitori si sacrificano costantemente per dare il massimo ai figli, aspettandosi che i figli facciano lo stesso, ma essi a volte si imitano, a volte si mostrano ingrati;
intermittente : genitori incerti e disorientati, oscillano da un modello all’altro, sentendosi sempre più inadeguati a fronteggiare le sfide educative;
delegante : i genitori delegano ad altri il loro ruolo di guida (nonni, insegnanti) e non sono un valido punto di riferimento;
autoritario : i genitori esercitano il potere in modo deciso e rigido per mostrare che vince il più forte.) [14]

Sono due le tendenze nello stile educativo dei genitori italiani particolarmente frequenti e, sfortunatamente, dannose quando esse vengono estremizzate: la iper protezione e l’amicizia tra genitori e figli.
Purtroppo favoriscono la mancata assunzione di responsabilità e la realizzazione di personali progetti di vita sulla base di un eccesso di amore e protezione profusi dai genitori in maniera incondizionata, senza cioè alcuna pretesa che i figli se li meritino.

1. FRANCESCONI M, SCOTTO DI FASANO D., (1998) Divenire famiglia: nuovi scenari alla luce di nuovi bisogni, in: IORI V., RAMPAZI M., Strumenti n. 3, Storie di famiglie, Osservatorio Permanente sulle Famiglie di Reggio Emilia
2. DI NICOLA P., (1998) I mutamenti della famiglia dalla società semplice alle società complesse: nuove dinamiche relazionali; in: AA:VV, La famiglia. Trasformazioni, tendenze, interpretazioni, Centro Studi Giuridici sulla Persona, Roma, pag. 21-26
GOLINI A., (1998) Tendenze demografiche e tipologia della famiglia contemporanea; in: AA:VV, La famiglia. Trasformazioni, tendenze, interpretazioni, Centro Studi Giuridici sulla Persona, Roma, pag. 9-20
3. RIGHI A:, SABBADINI L., (1994) La permanenza dei giovani adulti nella famiglia di origine negli anni 80. Comunicazione al Convegno Internazionale “Mutamenti della famiglia nei paesi occidentali”, Bologna 6-8 ottobre 1994.
4. SGRITTA G: B:, (1990) La crescita dell’adolescente tra familiarizzazione e socialità limitata, Studi di Sociologia, 28, pag. 181-200
5. CAVALLI A., DE LILLO A. (1993), Giovani anni 90. Terzo rapporto IARD sulla condizione giovanile in Italia, Bologna, Il Mulino
6. FAIMBERG H., COREL A., (1989) Transmission et assujettissement, in Gros F.et Huber G., Vers un antidestin ?, Paris, Odile Jacob 1992, pag. 278
7. ibidem, pag. 19-20
8. ibidem, pag. 61
9. BELARDINELLI S:, (1996), Il gioco delle parti, AVE Roma
10. Belardinelli S, cit., pag. 57
11. PAGANO D., (2005), La questione intergenerazionale, in: http://www.vertici.it/rubriche/studi/template.asp?cod=8480
12. CIGOLI V., (1988) Giovani adulti e loro genitori: un eccesso di vicinanza? in: SCABINI E., DONATI P., La famiglia “lunga” del giovane adulto, Studi interdisciplinari sulla famiglia, Milano, Vita e Pensiero, pag. 63-84
13. NARDONE G., GIANNOTTI E., ROCCHI R., (2001) Modelli di famiglia, Ponte alle Grazie, Milano, 2001
14. GIANNOTTI E., ROCCHI R:, (2004) Le ultime evoluzioni nella famiglia italiana, Rivista Europea di Terapia Breve Strategica e Sistemica, n. 1/2004, Pag. 298-301