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Smentite le percentuali di ADHD finora accettate a livello mondiale

In Lombardia è stato realizzato uno studio che stravolge completamente le percentuali comunemente accettate, secondo cui i bambini e gli adolescenti, iperattivi in modo patologico, sarebbero il 5,3% della popolazione tra i 5 ed i 17 anni.

 

Lo studio lombardo afferma che sono invece il 3,5 per mille, ovvero lo 0,35%.

15 volte di meno delle statistiche mondiali!

La ricerca è stata condottda da Maurizio Bonati, responsabile del Dipartimento di salute pubblica dell’Irccs Mario Negri di Milano e responsabile del Registro regionale, istituito nel 2011 nell’ambito di uno specifico progetto di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza. Afferma Bonati:

 

Non si tratta semplicemente di una questione statistica, potevano esserci conseguenze a livello terapeutico: il rischio era di aggravare le preoccupazioni, prima di tutto dei genitori, e di eccedere nella terapia farmacologica quando magari non ce n’era bisogno o andava utilizzata con più moderazione. Il disturbo è facilmente fraintendibile perché un certo grado di iperattività può rientrare nella norma dell’età, mentre chi è affetto da Adhd ha anche altri problemi, come difficoltà di concentrazione e di socializzazione. Del resto, se le stime precedenti fossero state corrette, si sarebbero bloccati tutti i servizi di neuropsichiatria per far davvero far fronte alle richieste

Il trattamento deve essere prima di tutto di tipo psicologico, rivolto al bambino ma coinvolgendo anche i genitori.

 

«A questo, – dice Bonati – nelle forme gravi, e si è visto che sono veramente poche, è utile aggiungere anche il trattamento farmacologico. Quindi, non occorre negare il farmaco quando c’è bisogno ma prescriverlo solo dopo criteri attenti di valutazione e nell’ambito di un percorso psicologico».

A dieci mesi i bambini riescono a fare la differenza tra un oggetto animato e uno non animato

La comprensione del mondo intorno a loro sopraggiunge molto precocemente nella vita dei bambini, che secondo uno studio recente della Concordia University, sà, dai 10 mesi, fare la differenza tra la traiettoria “involontaria” di un oggetto in movimento e lo spostamento più ponderato di un’automobile o di un animale. Questo è un momento in cui i lattanti distinguono gli esseri viventi dagli oggetti inanimati, una capacità intellettiva di base che permette ai bambini molto piccoli di comprendere meglio il mondo che li circonda.

” Come sa un bambino che un cane può saltare sopra un recinto, mentre un autobus rimarrà al livello del suolo? ” Si è chiesto Rachel Baker, uno psicologo ricercatore alla Concordia University.

Il suo studio che ha seguito 350 bambini dai 10, 12, 16 e 20 mesi, ha valutato la capacità di fare una classificazione di cose animate o inanimate, una capacità che ha potuto valutare in questi bambini, attraverso l’analisi della traiettoria. Siccome i piccoli non hanno potuto esprimere la loro esperienza verbalmente, la ricerca hanno utilizzato la tecnica di assuefazione visiva che consiste nel misurare quanto il soggetto fissa l’oggetto con i suoi occhi. “È possibile valutare la conoscenza che possiede un lattante di un dato fenomeno  in base al tempo durante il quale egli osserva”, spiega Rachel Baker, “perché i bambini si interessano più a lungo alle cose nuove che a quelle che sono a loro familiari.

L’esperienza dimostra che sequenze animate singole di un autobus o di un tavolo che salta al di là di un muro trattengono l’attenzione dei bambini più a lungo rispetto alle sequenze più familiari. Tuttavia, i bambini saranno interessati anche a lungo da un gatto che salta su un muro o che rimbalza contro una parete, due sequenze dell’ordine del reale e del possibile.

In breve, dai 10 mesi, i bambini hanno già consapevolezza di eventuali comportamenti o movimenti possibili e si rendono conto che la traiettoria degli oggetti è più prevedibile di quella degli esseri viventi. Un altro elemento che ha attirato l’attenzione dei ricercatori, riguarda lo scrutare attento dei bambini piccoli che sono portati a “reperire più dettagli” e arrivare molto giovani, prima di sapere come esprimersi, ad una certa comprensione di animali, esseri viventi e oggetti.

 

K. Baker, , T. L. Pettigrew, D. Poulin-Dubois Infant Behavior & Development. Volume 37, Feb. 2014, pag. 119–129

Truffe a danno di anziani: l’attenzione va “centrata” sulle vittime

L’imbroglio, l’inganno, il raggiro, con lo scopo di trarne profitto a danno degli altri, appartengono da sempre alla storia dell’umanità. Dal famoso “serpente” fino alle strategie illecite dei nostri giorni che si rivelano attraverso molteplici forme: una variegata articolazione di truffe finanziarie, offerte di lavoro poco serie, vincite alla lotteria inesistenti, nipoti inverosimili che compaiono all’improvviso, phishing, “Nigeria connection”, pratiche commerciali scorrette, venditori porta a porta simili al “gatto” e la “volpe”, e altro ancora.

 

E’ un problema che affligge tutta la società e che molto spesso rimane sottovalutato. In particolare, le persone anziane, sempre più numerose, sono costantemente bersaglio di malintenzionati che cercano di approfittare della loro scarsa vigilanza. Ogni giorno si registrano vittime raggirate, imbrogliate e derubate.

E l’attenzione normalmente è più centrata sul reato e sull’entità del danno e si trascura la sofferenza diretta della persona.

 

Se da un punto di vista giuridico, si tratta del comportamento di “Chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno …”; di un’azione illecita che genera un detrimento o pregiudizio materiale (la perdita di un bene)  raramente si tiene conto dell’impatto che l’evento delittuoso ha sulle vittime, si  immagina, infatti, che la truffa sia un crimine meno violento di altri. Ma, come numerose ricerche hanno messo in luce, è minima la differenza tra gli effetti traumatici di un crimine violento e quelli di una “banale” truffa.

 

Le persone che hanno subito una truffa possono vivere soggettivamente un’esperienza simile a quelle di violenza o di abuso e, di conseguenza, provare sentimenti di colpa, vergogna, scarsa autostima, “rabbia”, umore depresso, isolamento e insensibilità sociale, giudizio morale negativo da parte di altri, sfiducia, somatizzazioni e disturbi di vario tipo. Spesso, e penso soprattutto alle persone anziane, si patisce una doppia vittimizzazione: quella (primaria) direttamente in relazione con il comportamento dannoso e quella (secondaria) relativa alla stigmatizzazione da parte dei parenti e degli amici della vittima e anche a ciò che si vive nel corso delle indagini. Molto spesso accade anche che chi ha subito il reato viva il proprio dramma nel silenzio assoluto e nell’isolamento, sviluppando nel corso del tempo problematiche psico-sociali molto più complesse.

 

La vigilanza dei parenti e degli amici risulta essere il migliore strumento di difesa; anche se esiste una cornice giuridica sufficiente a inquadrare le attività delittuose e a perseguire i reati; che spesso non vengono presi in considerazione, perché non denunciati, oppure perché le denunce non possono essere adeguatamente supportate da prove atte a dimostrare la realtà dei fatti.

 

Secondo me, un’attività efficace di contrasto alla criminalità fraudolenta può essere realizzata attraverso lo sviluppo di una cultura di prevenzione articolata su piani diversi, quali ad esempio campagne di sensibilizzazione, con adeguate forme di comunicazione e informazione, per medici di base, operatori sociali e della polizia,  oppure per la cittadinanza più esposta; corsi di formazione ad hoc per operatori sociali e della polizia; un adeguato supporto psicologico delle persone particolarmente vulnerabili; organizzazione di gruppi di auto mutuo aiuto; una conforme realizzazione di punti d’ascolto e sostegno telefonico, ed altro ancora che in questa occasione ometto di citare.

 

Per quanto concerne l’intervento sui casi, ritengo di primaria importanza la qualità della “presa in carico” da parte della Polizia nel momento in cui la vittima denuncerà i fatti.

In queste circostanze, un ascolto paziente e attivo volto innanzitutto al conforto della persona è fondamentale; possibilmente all’interno di uno spazio accogliente, tranquillo e rispettoso della “intimità” delle esperienze vissute; che offra sicurezza innanzitutto attraverso un ascolto cortese e rispettoso, tale da creare un clima di fiducia e confidenza.

 

Se adeguatamente preparati, gli addetti della polizia potrebbero essere in grado di fornire anche un primo soccorso psicologico, “competente” e “umano”, in grado di sostenere le persone senza essere intrusivi; valutare i bisogni e le preoccupazioni della persona; aiutare le vittime a soddisfare i loro bisogni primari e aiutarle a ottenere le informazioni per raggiungere i servizi e il sostegno sociale di cui hanno bisogno; proteggere le persone da eventuali nuovi danni.

 

Lo psicologo rimarrebbe a disposizione per i casi più complicati.

Riconciliare il lavoro e la famiglia

Ci sono domande http://webpages.ca/ ineludibili alle quali occorre rispondere per dare senso ai nostri progetti di sviluppo. Alcune, apparentemente le meno pressanti, riguardano i temi relativi la conciliazione …

Quanto è importante, per il successo delle nostre aziende, la consapevolezza della differenza di genere? Come inserire, nella prospettiva dell’organizzazione e del funzionamento quotidiano dell’impresa, tale argomento. Che tipo di cambiamenti saranno necessari nella politica aziendale. Come trarne un vantaggio competitivo. Quanto, influirà sulle modalità di gestione delle risorse umane e come saranno attivate in questa diversa prospettiva. In che modo aiutare gli imprenditori e i dirigenti d’azienda a rendersi conto di queste nuove realtà? Questi sono alcuni dei temi che attualmente vengono affrontati in ogni parte del mondo produttivo.

 

 

 

I molti cambiamenti, avvenuti nelle società avanzate, hanno comportato un mutamento anche nell’esistenza delle persone, caratterizzando la loro vita e circoscrivendola a due sfere essenziali: quella del lavoro e quella della famiglia (e, più in generale, della vita privata). In questo modo, le donne e gli uomini che lavorano, si trovano sempre più costretti a moltiplicare gli sforzi per far fronte alle difficoltà che quotidianamente emergono dal conflitto lavoro-famiglia. Conflitto che molto spesso, si traduce nei termini di un’incompatibilità tra le esigenze del lavoro e le esigenze della vita personale, in particolar modo quelle che riguardano la gestione della famiglia.

Pur riconoscendo che la pressione del lavoro è alta, le aziende non si sono ancora rese conto dell’ampiezza del problema.  Ignorano generalmente che la seconda causa di sofferenza al lavoro, dopo quella dovuta al sovraccarico di lavoro, riguarda proprio la difficoltà a conciliare lavoro e famiglia. Esse dovranno prestare maggiore attenzione verso il problema, affinché possano realizzare adeguate forme di gestione delle risorse.

Conciliare l’efficienza al lavoro con la necessità di prestare le necessarie cure alla salute del figlio/a, che in quel momento ne ha bisogno, è problema di tipo personale e professionale. L’ansia del personale si ripercuote sull’azienda e sulla qualità del lavoro.

C’è un reciproco influenzamento tra vita professionale e vita familiare. L’azienda dovrà essere capace di realizzare adeguate misure di conciliazione, per agevolare la vita privata dei suoi dipendenti. Allo stesso tempo, avrà modo di influire direttamente e positivamente sulla stessa organizzazione aziendale e sui risultati della propria attività.

I dipendenti hanno ancora timore e vergogna di parlare dei loro problemi familiari al lavoro. Ma quando l’argomento non sarà più tabù, le aziende riusciranno ad avere più consapevolezza del problema e i dipendenti non saranno molto più soddisfatti del loro lavoro e della loro azienda.

In questa occasione vogliamo portare l’attenzione sull’argomento a partire da una serie di considerazioni.

Seguendo nel corso degli ultimi trenta anni l’evolversi dell’organizzazione del lavoro, non possiamo trascurare due elementi che attualmente evidenziano la centralità degli aspetti psico-sociali come fattore di stimolo e miglioramento della resa organizzativa e delle produttività dei lavoratori.

Tali elementi interagiscono non solo con la cultura e i climi organizzativi aziendali ma anche con gli interessi e le necessità individuali fuori dal lavoro, a cominciare dalle responsabilità familiari e genitoriali.

Il lavoro è cambiato in termini di “contenuti”, di “condizioni” e di organizzazione. Un ampio processo di trasformazioni, relative non solo al mercato del lavoro, ma anche ai modelli produttivi e regolativi, tutte all’insegna della “flessibilità”, ha improntato la stessa vita privata dei lavoratori.

Se il lavoro conserva un ruolo centrale nella società, può in certi casi entrare in conflitto con le ragioni della società stessa, soprattutto in quei casi in cui la responsabilità insita nell’attività professionale entra in conflitto con la responsabilità della famiglia. In questo caso vi è conflitto tra i due fondamentali modelli organizzativi della società: quello del lavoro e quello della famiglia L’azienda e la famiglia, la responsabilità di “produzione” e quello della “riproduzione” e cura, entrano in collisione; producendo costi aggiuntivi.

Emerge nei contesti di lavoro la necessità di un nuovo contratto psicologico che incontri l’aspettativa di flessibilità oraria lavorativa e allo stesso tempo conduca a ricercare soluzioni adeguate per aiutare donne e uomini a perseguire efficaci strategie di conciliazione vita-lavoro.

In effetti, se la dimensione strutturante del lavoro per le persone e la collettività è reale, il lavoro può tuttavia mutarsi in circostanze organizzative o situazioni individuali mal vissute che influenzano non positivamente la vita delle persone e delle organizzazioni, comportando costi psicologici elevati che si assommano a quelli di natura puramente patrimoniale.

La evoluzione tecnologica e la necessità di essere sempre più competitivi, hanno accresciuto la pressione sulla organizzazione aziendale e le persone che vi lavorano. Per molte di esse il tempo dedicato al lavoro è aumentato e allo stesso tempo si sono moltiplicati i tipi di impiego cosiddetti atipici. Le esigenze della vita oltre il lavoro sono diventate sempre più numerose nel corso degli anni, anche perché le strutture familiari sono cambiate e la percentuale delle persone occupate che hanno minori o anziani a carico è nel tempo aumentata. Ci troviamo di fronte nuove problematicità e nuove opportunità.

Diventa più difficile attualmente conciliare le esigenze del lavoro con gli impegni genitorialii e familiari. Tale difficoltà crescente comporta conseguenze che hanno un costo, sia per le imprese che per le persone in esse occupate e le loro famiglie. Le organizzazioni di lavoro hanno una responsabilità e un ruolo da esercitare in materia di conciliazione lavoro-famiglia. Le pratiche, che favoriscono la conciliazione delle responsabilità familiari e del lavoro, sono vantaggiose sia per le aziende che per le donne e gli uomini che vi lavorano. Tenendo conto dei vantaggi che ne derivano, queste pratiche dovrebbero essere più estese di quanto non lo sono attualmente.

 

Conciliare le responsabilità familiari e professionali ha sempre comportato una certa difficoltà, ma sembra che la difficoltà di riuscirci sia aumentata considerevolmente nel corso degli ultimi anni, in particolare per il fatto che la maggioranza dei genitori, uomini e donne, sono attualmente attivi nel mercato del lavoro.

Tutto questo deriva dal fatto che si sono verificati cambiamenti profondi e durevoli che, in modo accelerato, nel corso di circa trenta anni, si sono verificati all’interno della famiglia, del lavoro e della società in generale.

 

Attraverso i profondi cambiamenti che, a partire dagli anni Settanta, il nuovo diritto di famiglia ha innescato, si sono prodotte notevoli trasformazioni sociali che hanno delineato modelli di famiglia più centrati sull’individuo e, allo stesso tempo, caratterizzati da una relazione familiare elettiva connotata dall’autonomia, dall’autoregolazione normativa e dalla negoziazione, ma anche dall’instabilità.

Dal punto di vista strutturale, i fenomeni che hanno contribuito maggiormente a determinare le trasformazioni sono di tipo socio-demografico: aumento delle separazioni e dei divorzi, delle convivenze, delle famiglie dette unipersonali e monogenitoriali, delle famiglie ricostituite dopo il divorzio, delle nascite fuori dal matrimonio.

Sono trasformazioni che evidenziano la diffusione di una pluralità di modelli familiari, palese anche sul piano relazionale, perché la vita delle famiglie oggi è sempre più caratterizzata da scelte e strategie di coppia o individuali che hanno come presupposto l’autonomia e l’autoaffermazione dei singoli membri.

Nel quadro delle profonde trasformazioni che in questi anni hanno investito i rapporti tra generazioni e quelli tra generi, la famiglia mononucleare, caratterizzata dalla coppia uomo/donna con figli, non rappresenta più la “normale” struttura entro la quale prendono corpo i legami primari. Vi sono oggi nuove forme che la famiglia può assumere e che diventano occasione di trasformazione della comunità sociale.

Si è verificato un notevole cambiamento nel tessuto sociale, innescato da una “eclissi progressiva della figura paterna” che prima era centrale nella gestione del potere e nella trasmissione dei valori etici. A una struttura gerarchica, verticale, con a capo il padre, si sostituisce la coppia dei genitori: in sostanza assistiamo a una distribuzione del potere decisionale. Crescere i figli è diventato un progetto comune da portare avanti con una condivisione di responsabilità e di valori.

Al declino della “patria potestà” ha corrisposto una sempre maggiore rilevanza di valori materni.

Tra i molti e radicali i cambiamenti introdotti con il nuovo diritto di famiglia del 1975 possismo trarne utili riferimenti, quali ad esempio : l’attribuzione dell’esercizio della patria potestà sui figli ad ambedue i genitori, con una fortissima e significativa rivalutazione del ruolo della donna in quanto genitrice; il riconoscimento della centralità del lavoro casalingo ai fini del consolidamento e del potenziamento delle risorse del nucleo familiare; la rivalutazione sulla linea successoria, del coniuge, posto prima dei figli, a conferma di una concezione del matrimonio come impresa solidale alla cui realizzazione contribuiscono a pari titolo sia l’uomo che la donna; l’obbligo dei genitori di educare i figli nel rispetto delle loro inclinazioni e non più nel rispetto della morale corrente.

L’insieme di mutamenti legislativi ha determinato profonde trasformazioni nell’immagine complessiva del matrimonio, della famiglia, dell’apertura alla vita,  imboccando la strada della “nuova famiglia” che si è delineata sul finire del Novecento e che occupa gli scenari italiani, sostanzialmente anche europei, dei primi anni Duemila.

Per quanto riguarda il lavoro, vi sono stati cambiamenti profondi che hanno avuto l’effetto di complicare maggiormente la assunzione delle responsabilità genitoriali e familiari. Si pensi in particolar modo alla estesa varietà degli orari di lavoro cosiddetti atipici (a tempo determinato, a tempo parziale, a turni, di sera, di notte, a chiamata, ecc.) e dei lavori atipici (temporaneo, a tempo determinato, a tempo parziale, flessibile, condiviso, ecc.). Molte persone scelgono volontariamente questo genere di impieghi, per molteplici ragioni, spesso familiari, e soprattutto donne; ma la parte del lavoro atipico involontario non smette di crescere. I giovani in età di fondare una famiglia o che hanno già dei bambini piccoli sono particolarmente coinvolti da questo fenomeno poiché sono soprattutto loro che occupano quei posti di lavoro. D’altra parte, le ristrutturazioni e le trasformazioni tecnologiche che sopraggiungono in un contesto di concorrenza accresciuta hanno l’effetto di generare un ritmo di lavoro più rapido che non ha in se nulla che possa ridurre la pressione sulla famiglia e l’impiego.

Alle trasformazioni che sono sopraggiunte in seno alla famiglia e nel mondo del lavoro si aggiungono altri fattori che contribuiscono anche a spiegare perché diventa più esigente ai nostri giorni conciliare lavoro e famiglia. Pensiamo a un fenomeno come la estensione delle città che ha come effetto di allungare i tempi di percorrenza per recarsi al lavoro e per tornare a casa, riducendo di colpo il tempo dedicato alla famiglia e alla vita privata. Possiamo anche far cenno al prolungamento degli orari dei servizi e del commercio: se i consumatori ne possono approfittare, viceversa il personale che fornisce questi servizi si vede costretto a lavorare in orari non comuni; per coloro che lavorano in settori in espansione, il compito di conciliare lavoro e famiglia può complicarsi maggiormente soprattutto quando deve tener conto dell’orario inerente la custodia dei figli.

Occorre tener conto anche del fatto che il costante aumento delle donne che lavorano non è un fenomeno passeggero ma un fenomeno strutturale stabile che ha forti ripercussioni dentro e fuori l’azienda e che richiede all’azienda e ai suoi manager un vero e proprio cambio di paradigma.

Del resto la politica nazionale ha nel corso del tempo portato molta attenzione sul problema. Per avere un quadro di riferimento ancora più completo, occorre tener conto che in questi ultimi trenta anni sono avvenuti cambiamenti anche sul piano legislativo orientati a creare pari opportunità tra uomo e donna nel lavoro, avendo come obiettivo la parità sostanziale tra donne e uomini sul piano professionale.

Essi hanno un riferimento diretto con la evoluzione del concetto di conciliazione tra lavoro e famiglia. Chiedendo perdono per eventuali omissioni, possiamo ricordare la

Legge 1294/1971: Tutela delle lavoratrici madri; il DPR 1026/1976: Regolamento di esecuzione della legge 1204/1971; la Legge 903/1977: Parità di trattamenti tra uomini e donne in materia di lavoro; la Legge 194/1978: Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza; la Legge 125/1991: Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro; la Legge 215/1992: Azioni positive per l’imprenditoria femminile; Legge 476/1998: Legge che modifica la 184/1983; la Legge 53/2000: Disposizioni per il sostegno della maternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi della città; il DL 151/2001: Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, e a norma dell’art. 15 della legge 53/2000; il DL 198/2006: Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell’art. 6 della legge 246/2005.

Una giurisprudenza abbastanza estesa. Si tratta ora di produrre il cambiamento culturale adeguato. Nella certezza che la flessibilità organizzativa originata e orientata alla conciliazione tra le responsabilità del lavoro e quelle della famiglia possa tradursi in una convenienza anche per le aziende.

La conflittualità tra il mondo del lavoro e quello della famiglia comporta delle conseguenze costose per le persone che lavorano e per le loro famiglie ma anche per le aziende.

Le ricerche scientifiche lo hanno dimostrato: un gran numero dei genitori impegnati, soprattutto le madri, vivono un livello di stress eccessivo in ragione della tensione crescente tra lavoro e famiglia. Per queste persone gli effetti si avvertono sul piano della salute fisica e mentale (fatica, stress, insonnia, burout, depressione, ecc.), sul piano economico e professionale ( si corre il rischio di verdersi ridurre il valore dell’impiegabilità e di conseguenza l’avanzamento di carriera, ma soprattutto si rischia di perdere denaro in relazione alla riduzione del tempo lavorato o alla richiesta di ferie non pagate per ragioni familiari, ecc.), così che sul piano relazionale e affettivo (deteriorizzazione delle relazioni genitori-figli, ridotta disponibilità verso il coniuge, verso la famiglia allargata, gli amici, ecc.). Fino a questo momento, sono soprattutto le donne che hanno assorbito i contraccolpi di questa realtà; anche perché esse sono attualmente più presenti sul mercato del lavoro e allo stesso tempo continuano ad assumersi il carico della maggior parte dei compiti domestici e familiari.

E’ provato che le aziende subiscono anch’esse dei contraccolpi derivanti dal conflitto lavoro-famiglia e che esse ne pagano il prezzo. I costi si traducono tra l’altro in termini di assenteismo e di ritardi, di diminuzione della motivazione al lavoro, dell’avvicendamento del personale, del rifiuto di nuove assegnazioni o promozioni, di difficoltà di reclutamento, di formazione insufficiente della mano d’opera in ragione della mancanza di tempo da dedicarvi (durante o fuori gli orari regolari di lavoro)

La interferenza dei ruoli tra quello di genitore/famigliare e quello di lavoratore diventa dunque sempre più grande e non può più essere ignorata.

La famiglia è un luogo privilegiato in cui ci addestriamo all’esercizio del potere.

La famiglia è un  luogo privilegiato in cui ci addestriamo all’esercizio del potere.

 

Con questa affermazione Wood (1996) ci stimola a riflettere che la famiglia è la struttura sociale fondamentale che insegna come ottenere ciò che vogliamo dagli altri. E’ nella famiglia che impariamo come viene usato il potere e tutte le famiglie “funzionano” grazie al potere. Probabilmente abbiamo una concezione negativa con il potere – sembra voler suggerire Wood – perché gran parte della nostra esperienza con il potere è traumatica. Nella nostra vita abbiano iniziato ad essere amati, ma anche manipolati, controllati, puniti e addirittura maltrattati da persone di potere. Il potere della madre, del padre e a volte dei fratelli e delle sorelle maggiori è stato quello che ci ha fornito le lezioni più importanti e conformato le nostre convinzioni e i nostri atteggiamenti riguardo al potere. Forse questo è il motivo principale per cui noi cerchiamo di evitare il nostro stesso potere. Ne abbiamo paura.

 

Queste affermazioni trovano conferma in un’interessante teoria della competenza interpersonale e della socializzazione riguardante il sé nella famiglia formulata da L’Abate (1994), che sottolinea come la famiglia sia il setting principale all’interno del quale ha luogo lo sviluppo e la socializzazione della personalità.

 

In seguito L’Abate (1997) è riuscito ad illustrare le evidenze empiriche che portano a considerare la famiglia come il setting dal quale le inclinazioni della personalità e le loro devianze si sviluppano e si diffondono; puntualizzando una teoria evolutiva della socializzazione della personalità che considera le abilità di amare e di negoziare come le pietre angolari della competenza personale e interpersonale. Questa teoria afferma che noi abbiamo bisogno di trovare dei modi e dei mezzi per determinare le relazioni causali rilevanti sia a livello individuale sia al livello multidirezionale.

 

La personalità viene definita da L’Abate in base alle abilità di amare e di negoziare (L’Abate, 2000: 31). L’abilità di amare si riferisce in modo specifico all’ambiente familiare; l’abilità di negoziare, invece, concerne anche altri ambienti: la scuola, il lavoro, il tempo libero, i contesti di tempo e di spazio relativi agli spostamenti. Queste abilità vengono acquisite attraverso un processo di socializzazione derivante dai contributi familiari e culturali, influenzato a volte anche da fattori organici e genetici. L’individualità viene definita come il modo in cui una persona afferma, esprime e definisce la propria importanza all’interno di relazioni intime e non.

 

Dall’abilità di amare e dalla abilità di negoziare derivano le modalità dell’essere, del fare e dell’avere. L’essere deriva dall’abilità di amare. Fare e avere derivano dall’abilità di negoziare.

 

Scrive L’Abate che, nelle relazioni funzionali, essere, fare e avere sono bilanciati e vissuti in modo flessibile e appropriato. Nelle relazioni disfunzionali, fare e avere sono enfatizzati o intensificati a scapito dell’essere. Aggiungendo: “Essere, fare e avere possono apparire, ad una prima occhiata, concetti piuttosto astratti. Tuttavia, se vengono definiti attraverso risorse specifiche, sfociano in abilità osservabili – rispettivamente presenza, performance e produzione. Tutte e tre le modalità sono necessarie per vivere e per trarre gioia dalla vita. Essere implica un processo evolutivo nel quale l’abilità della presenza è necessaria – cioè, essere disponibile emotivamente nei confronti delle persone che si amano, il cui amore è reciproco. Esso viene definito dalla combinazione di due risorse: importanza e intimità. La negoziazione implica un processo di problem-solving, di contrattazione e di decisione che coinvolge sia il fare sia l’avere. Il fare o performance deriva dalla combinazione di informazione e servizi. La produzione è un’abilità che risulta dall’avere, in questo contesto, beni e denaro. La combinazione di fare e avere dà forma al costrutto di potere Coloro che possiedono queste modalità hanno potere su coloro che non le hanno” (L’Abate, 2000: 41)..