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Un nuovo mondo del lavoro

È ancora difficile prevedere con chiarezza la portata della digitalizzazione e automazione e il suo probabile impatto sociale.

Per tentare di definire meglio il quadro prendo in considerazione un interessante studio di C. Degrise (Digitalisation of the economy and its impact on labour markets. ETUI, 2016). In realtà si tratta di un documento di lavoro in cui egli traccia un quadro delle nuove possibilità generate dalla quarta rivoluzione industriale e affronta alcune questioni specifiche. Esamina anche il possibile ruolo dei sindacati nell’economia digitale e le principali iniziative già proposte dal movimento sindacale a livello europeo in questo contesto.

Sottolinea che pur non essendo un fenomeno nuovo, la digitalizzazione dell’economia ha raggiunto un punto di non ritorno. Il matrimonio tra Big Data e robotizzazione annuncia l’avvento di una nuova economia con un conseguente rinnovamento del mondo del lavoro. L’enorme portata delle ripercussioni di quella che ormai viene definita “quarta rivoluzione industriale” comporterà molte trasformazioni sui mercati del lavoro e le più evidenti riguarderanno quattro aspetti principali. Innanzitutto, ci sarà creazione di lavoro attraverso la creazione di nuovi settori, nuovi prodotti e nuovi servizi. Inevitabilmente, il lavoro si trasformerà in nuove forme di interazione tra lavoratore e macchina; in nuove forme di lavoro, come la cosiddetta “uberizzazione”, che comportano rischi nuovi (intensificazione del lavoro, salute e sicurezza, confini sempre più labili tra vita privata e vita lavorativa, formazione spesso inadeguata, discriminazione ecc.), e nuove sfide a livello manageriale (nuovo management digitale).

Ci sarà anche e purtroppo un effetto perverso sui posti di lavoro: nei prossimi 10-20 anni i lavori a rischio di computerizzazione, automazione e robotizzazione, probabilmente aumenteranno e sebbene non esista unanimità sul numero esatto di posti di lavoro che andranno persi, quel che è chiaro è che si tratterà di cifre molto elevate.

Si espanderà il trasferimento del lavoro attraverso lo sviluppo di piattaforme digitali e di crowdworking e ciò metterà i lavoratori dei Paesi ad alto grado di tutele sociali in competizione con quelli dei Paesi a basso grado di tutele sociali e dei Paesi in via di sviluppo. Inoltre, il trasferimento dei servizi agevolato da determinate piattaforme della “sharing economy”, riguarderà anche lavori altamente qualificati, come quelli nell’ambito della contabilità, della finanza ecc.

Sono quattro fenomeni, dice Degryse, che considerati nel loro insieme rischiano di creare una società sempre più polarizzata, caratterizzata da forti disuguaglianze tra “vincitori che si accaparrano tutto” e masse di “perdenti”. Ci sarà uno svuotamento delle classi medie con la scomparsa di un gran numero di lavori mediamente qualificati e la proliferazione di una nuova classe di “schiavi digitali” che svolgono mansioni di smistamento, inserimento, filtraggio e archiviazione di dati, di manutenzione dei forum, di monitoraggio delle immagini ecc.
Una serie di fenomeni che metteranno alla prova l’elemento umano del lavoro.

Recuperare la dignità umana del lavoro
Nell’universo non strutturato del lavoro virtuale, i lavoratori sono confrontati con la necessità di ricostruire una specifica identità professionale che può portare all’autostima e al riconoscimento da parte degli altri. Sentono anche la necessità di essere ascoltati attraverso gli strumenti digitali di espressione online, attraverso i quali è possibile manifestare interessi collettivi: diffondere petizioni, sviluppare piattaforme alternative o sistemi di classificazione dei donatori. ordinare, condividere esperienze positive e negative, sfidare i media, ecc. È il rapporto degli individui con il collettivo che qui rappresenta la sfida più alta.

Infine, per chiudere questa riflessione, la digitalizzazione dell’economia può anche fare (ri)emergere la questione del valore del lavoro. Un lavoro non è solo un’attività per sostenersi. È anche un mezzo di integrazione e riconoscimento sociale. E questa funzione sociale del lavoro è fondamentale per il benessere degli individui e la coesione della società nel suo complesso. Con le sue due componenti della robotizzazione e del crowd-work che si traducono in una nuova forma di Taylorismo digitale e una dispersione globale di lavoro-merce, la digitalizzazione dell’economia rischia di erodere questa funzione sociale del lavoro. Questa è anche una grande sfida per le nostre comunità e per le rappresentanze sociali del lavoro di questo nostro XXI secolo.

Dare un senso alle trasformazioni in atto

Ci troviamo ormai al centro di una nuova rivoluzione tecnologica e, di conseguenza, socio-economica e antropologica. Cosa è cambiato e come stiamo cambiando? Abbiamo adeguata consapevolezza di ciò che sta accadendo e siamo in grado di aggiornare le informazioni in nostro possesso, su noi stessi e il mondo che ci circonda?
Questo articolo propone una breve riflessione sui nuovi sistemi economici e allo stesso tempo un tentativo di inquadrare sommariamente alcuni elementi delle trasformazioni in atto e l’impatto sulle persone e gli organismi sociali.

Sono ancora poco frequenti gli studi sulla portata della trasformazione digitale nei confronti del benessere e il funzionamento delle persone e delle organizzazioni; molto spesso essa viene percepita come utilizzo di “tecnologie soft”, che agevolano la qualità della vita di chi se ne avvale. In realtà, non è ancora possibile inquadrare con certezza il ruolo che questi cambiamenti stanno avendo sul comportamento individuale o organizzativo delle nostre occupazioni.

Sembra che possa cambiare tutto, a partire dal lavoro. E’ quanto emerge da un recente rapporto del World Economic Forum (2016), il 65% dei bambini che in questo momento frequentano la scuola primaria, probabilmente avrà un’occupazione che oggi non esiste ancora. È possibile che i lavori attuali non scompariranno del tutto ma saranno certamente ridefiniti e cambieranno le competenze necessarie per svolgerli in congruenza con le esigenze organizzative della produzione e dei servizi del futuro.

Un nuovo mondo del lavoro
Negli ultimi due decenni, le nuove tecnologie hanno gradualmente modellato un “nuovo mondo del lavoro”. Questi nuovi ambienti di lavoro mettono a confronto i lavoratori e le loro organizzazioni con molteplici sfide all’insegna della “economia digitale”. Quest’ultima, come si sa, ha caratteristiche molto peculiari. Innanzitutto, le informazioni digitalizzate, prodotte in grande abbondanza (big data) e sfruttabili da algoritmi molto potenti, rappresentano una risorsa economica sempre più strategica, in tutti i settori di attività e su scala mondiale. Inoltre si sta delineando un nuovo modello di produzione industriale all’insegna della “Industria 4.0”, che si avvale di una nuova generazione di oggetti comunicanti (l’Internet delle cose), macchine capaci di imparare sfruttando grandi dati e muoversi autonomamente. Allo stesso tempo, il concetto di rete sta diventando un principio organizzativo non solo dell’economia, ma anche della vita nella società perché è cambiata profondamente la nostra concezione della distanza e del tempo. Infine, lo specifico modello di business delle piattaforme online, noto anche come mercati a due lati, sta diventando sempre più importante e tende a sostituire modelli di business più tradizionali nella fornitura di servizi o nella distribuzione di beni. Queste funzionalità non sono completamente nuove, ad eccezione del modello di piattaforma. Combinano tendenze di lunga data, con lo sviluppo della società dell’informazione e cambiamenti più radicali, spesso definiti “disruptive”.

Sotto l’effetto di questa nuova generazione di tecnologie digitali pervasive e di cambiamenti in costante accelerazione nelle organizzazioni aziendali, sono in corso importanti trasformazioni nelle situazioni di lavoro e nella vita delle persone. Nelle aziende l’ambiente di lavoro ha accolto nuovi oggetti: microchip comunicanti, dispositivi di geolocalizzazione, robot autonomi, software incorporati in tutti i dispositivi. Dietro queste tecnologie, ci ricorda G. Vallenduc (Toeing the line. Working conditions in digital environments. HesaMag, 16/2017) vi sono algoritmi potenti e alquanto misteriosi che generano miliardi di gigabyte per pilotare dispositivi industriali remoti, tracciare merci e persone, prevedere comportamenti, influenzare le preferenze e molto altro che sarebbe andato oltre la nostra immaginazione dieci anni fa, quando i primi smartphone furono messi sul mercato.

In questa “economia digitale”, come si presentano i problemi di benessere organizzativo?
L’economia digitale fa già parte delle nostre vite. È una rivoluzione che porta con sé molti lati positivi: un mondo connesso, più opportunità di collaborazione, macchinari che svolgono buona parte dei lavori pesanti, computer in grado di coadiuvare attività complesse ecc. Tuttavia, al di là di questi miracoli tecnologici, queste grandi trasformazioni avranno i loro effetti, oltre che sul mercato del lavoro, anche sulle condizioni di vita dei lavoratori dipendenti, sulle condizioni di lavoro e sulla formazione.

Il sovraccarico di informazioni è la forma più comune di tecnostress.
In questo scenario, l’attività di lavoro si svolgerà in connessione permanente con notevoli effetti sulla salute delle persone. Il “tecnostress”, legato al fatto di lavorare online in modo continuato (in pratica: permanente), è stato oggetto di numerosi studi lungo il corso degli anni; cito ad es. quelli di Mandl et colleghi (New forms of employment Eurofound, Publications Office of the EU, 2015) e voglio ricordare anche il recente “ICT e lavoro: nuove prospettive di analisi per la salute e la sicurezza sul lavoro” (Inail, 2017).

Quando si parla di technostress, si allude all’aumento del carico psicosociale correlato al lavoro, in quanto il potenziale offerto dai nuovi strumenti digitali molto spesso si trasforma in una pressione sul lavoratore. Sia a livello delle aspettative esplicite o implicite del suo datore di lavoro o dei suoi colleghi, sia delle aspettative o esigenze del cliente, per problemi di connettività che disturbano il lavoro o sotto forma di forte dipendenza da strumenti digitali come ad esempio gli smartphone e i tablet.

Vallenduc, nel lavoro appena citato, sottolinea che il sovraccarico di informazioni è la forma più comune di tecnostress. Dicendo anche che l’uso continuato di e-mail, messaggistica istantanea e social network comporta un elevato carico di informazioni e messaggi, nonché frequenti interruzioni del lavoro. Ciò causa una pressione costante per dare una risposta a tutti i segnali ricevuti o per segnalare la propria presenza. Inoltre, i messaggi di posta elettronica sono spesso caratterizzati dalla mancanza di indicatori organizzativi, quando gli stessi messaggi vengono inviati a un numero elevato di destinatari, senza ordine di priorità o destinazione preferita. Spetta a ciascun dipendente adottare i propri criteri di selezione e valutazione, con il rischio di essere criticato per aver trascurato le informazioni che aveva ricevuto. Il costante mix di informazioni significative e informazioni insignificanti, che caratterizzano Internet e i social network, è fonte di affaticamento mentale, oltre alla necessità di essere permanentemente accessibile e disponibile. Inoltre, i frequenti utenti di Internet possono essere influenzati da una perdita di riferimenti spaziali e temporali, legati all’apparente scomparsa di distanze e differenze temporali. Il “tempo reale” che caratterizza il lavoro online a volte è un momento che non è reale per nessuno.

Le conseguenze del tecnostress possono manifestarsi nella stanchezza cronica generalizzata, un atteggiamento apatico o cinico, compromissione della concentrazione, tensione muscolare e altri dolori fisici, oltre al burnout. Oltre a queste conseguenze, che sono abbastanza simili a quelle dello stress da lavoro in generale, il tecnostress può portare a disturbi neurologici di deficit dell’attenzione che rendono i lavoratori incapaci di gestire correttamente le loro priorità e il loro tempo e che generano sentimenti di panico o senso di colpa.

Ciò che è nuovo oggi, è che una crescente proporzione di lavoratori è interessata da questi fenomeni di eccessiva sollecitazione digitale: non solo i manager, ma anche i professionisti di tutte le discipline, i dipendenti tecnici e commerciali, gli operatori sanitari. Lo sviluppo del nomadismo digitale è una delle cause di questa espansione. Si tratta una forma di organizzazione del lavoro che utilizza costantemente strumenti digitali connessi e moltiplica i luoghi di lavoro: in varie sedi dell’azienda, presso i clienti, in viaggio, a casa, negli spazi condivisi, ecc., fino alla evanescenza della nozione stessa di luogo di lavoro. Secondo gli studi di Mandl e colleghi (cit.), la moltiplicazione dei luoghi di lavoro oggi riguarda quasi un quarto dei lavoratori europei.

Oltre al tecnostress, i nomadi digitali sono anche esposti al rischio di dipendenza o di assuefazione ai dispositivi mobili e onnipresenti: l’uso compulsivo, la difficoltà di disconnessione sarebbe solo temporanea, stato di astinenza dopo l’interruzione dell’uso cronico, rischio di recidiva dopo periodi di disconnessione, ecc. Per molti lavoratori mobili, la gestione dei tempi di connessione e disconnessione diventa un problema importante, non solo in termini di stress ma anche in termini di equilibrio tra lavoro e vita privata e in termini di responsabilità all’interno delle organizzazioni. Di fronte a questi rischi, alcuni rapporti ufficiali (ricordo il “Rapporto Mettlin del 2015 per il Governo francese) raccomandano l’istituzione di un “diritto alla disconnessione”, già inserito in alcuni accordi negoziati nelle aziende.

La necessità di esserci

Le attuali evoluzioni tecnologiche sono rappresentate dalla diversità, la continuità, la velocità e talvolta da una certa inesorabilità nella diffusione di innovazioni riguardanti tutti gli ambiti della nostra vita. Si tratta di una sfida importante per il management delle risorse umane e coinvolgerà tutte le persone perché implicherà un cambio di mentalità profondo e un nuovo modo di “essere” (da-sein) nell’effettività dei processi in atto.

 

Che cosa sta accadendo?
Che lo si voglia o no, il digitale 4.0 continua a produrre cambiamenti permanenti nelle pratiche professionali, nei modelli organizzativi e anche nelle regole del mercato.

Questa ri-evoluzione socio-economica, oggi soprattutto considerata dal punto di vista tecnologico delle applicazioni, è anche e specialmente una questione di persone, di donne e uomini, quelle Risorse Umane tuttora fondamentali nel mondo del lavoro, che vivono intensamente i radicali cambiamenti delle imprese e dei mercati.
Il ruolo del manager sta cambiando e i leader di domani hanno bisogno di imparare come ascoltare le persone e comprenderle, come padroneggiare l’arte del coinvolgimento di esse, perché essere leader nel vortice della trasformazione digitale dell’azienda non vuol dire solo essere presenti sui social network ma occorre soprattutto esprimere competenza nell’uso di tecniche di comunicazione appropriate all’interno dell’azienda. Il cambiamento più profondo che occorrerà realizzare, riguarderà la “trasformazione” delle persone attraverso processi di sviluppo che non riguardano tanto la formazione tecnica quanto la incorporazione di una cultura organizzativa e un modo di pensare al passo con i tempi che attualizzi le modalità operative che meglio rispondono alle sfide delle continue trasformazioni.

Occorre tener conto che i cambiamenti in atto non sono riconducibili solo alle nuove metodologie organizzative e gestionali e alle tecniche che le supportano, ma hanno a che fare con aspetti che riguardano le persone che lavorano, nel loro rapporto con la tecnologia, la società e più in generale con la realtà. È piuttosto evidente che uno degli aspetti critici che desta maggiore attenzione riguarda l’impatto di queste innovazioni sul lavoro e sulle persone che lavorano.

Il lavoro è cambiato, non è più lo stesso di prima, continua a cambiare e sta cambiando le persone ed anche i loro stili di vita.
La fatica fisica si riduce mentre tende a crescere la tensione mentale e lo stress. Cresce pure l’autonomia e la creatività del lavoro, a prezzo però di un’accresciuta instabilità e incertezza dei posti di lavoro. Aumentano le differenze professionali: quelle con retribuzioni che vanno verso l’alto e quelle – come ad esempio, lavori manuali tradizionali – che si trovano sempre più marginalizzate.

Sono cambiamenti che nella mentalità comune stanno delineando due grandi gruppi di pensiero: quello degli scettici o contrari, che rifiutano a priori ciò che sta accadendo, e quello dei convinti sostenitori della rivoluzione 4.0 che immaginano organismi sociali più in linea con il tempo presente, in grado di rispondere con maggiore efficacia ai bisogni dell’umanità.
Tuttavia il problema non è tanto quello di schierarsi da una parte o dall’altra, ma piuttosto di comprendere quello che sta accadendo e quali implicazioni possono emergere da questa ampia fase di rinnovamento.

Con la comparsa di nuove generazioni di tecnologie digitali e il susseguirsi di rapidi cambiamenti nelle organizzazioni aziendali, avvengono importanti trasformazioni nei luoghi di lavoro che richiedono alle persone una “presenza di spirito” (effettività) sempre attiva e desta.
Questa grande varietà di tecnologie, ci dice Luciano Pero (Sindacato Futuro in Industry 4.0 – ADAPT University Press, 2015), potrebbero aprire la strada a una grande varietà di formule organizzative, assai diverse dalla organizzazione dominante delle tre rivoluzioni industriali di fine ‘700, di fine ‘800 e degli anni 80 del ‘900 e sarà un ambio ventaglio di forme organizzative.
Probabilmente tutto ciò avrà un notevole impatto che apre anche una grande opzione per l’umanità del futuro. Perché come è già accaduto in altri periodi dello sviluppo industriale, ci sarà bisogno di addomesticare e di adattare ai fabbisogni reali le enormi potenzialità tecnologiche che avremo a disposizione. L’umanizzazione di queste nuove tecnologie può essere compiuta sia dal punto di vista dell’utente, quindi dal punto di vista delle persone che usano queste tecnologie, sia dal punto di vista di quelli che le producono. In pratica, da tutti coloro che ne verranno a contatto.

Cambiano i mercati, cambia il lavoro, cambiano le persone nella loro professionalità ed anche nei loro modi di vivere il cambiamento.
Il lavoro cambia profondamente e le tradizionali distinzioni tra lavoro manuale e intellettuale tendono a ridursi o a scomparire. I lavoratori non solo si troveranno a lavorare in condizioni di lavoro migliori (meno fatica, ambienti più salubri, garanzie sulla salute e la sicurezza al lavoro) ma anche a far fronte alla richiesta di un maggiore impegno intellettuale e un conseguente aumento di tensione mentale e di stress. Saranno impegni complessi di notevole impegno cognitivo, come ad esempio l’analisi dei guasti, di errori e anomalie, la soluzione di problemi. I tecnici, a loro volta, hanno informazioni e strumentazioni avveniristiche, ma devono anche operare direttamente.

C’è da dire che le trasformazioni sono ormai evidenti e hanno riguardato sia il contenuto del lavoro, sia le macchine e gli strumenti, sia soprattutto le relazioni interpersonali, la socialità e la cultura. Ma, come dice giustamente L. Pero, l’attenzione che il paese ha dedicato a questi cambiamenti sembra essere inversamente proporzionale alla loro profondità. Sui grandi mezzi di comunicazione c’è stata una sorta di rimozione del problema del lavoro che cambia. Il lavoro reale e i lavoratori in carne e ossa sono quasi scomparsi dalla televisione, sostituiti dai ruoli di successo nel mondo virtuale: i presentatori, gli attori e i divi televisivi, i calciatori, le modelle e le veline e così via.

Diventa necessaria un’attenzione consapevole nei confronti di questi fenomeni e un riconoscimento adeguato della dimensione umana del lavoro. Che tenga conto della necessità di ESSERCI (di essere) nel cambiamento e nella trasformazione del lavoro e della produzione dando un senso ai processi in atto e trasformando le risorse umane in relazioni.
In primo luogo è necessario comprendere le forme complesse del cambiamento e le lunghe catene che lo causano, cercando di trovare categorie interpretative moderne e adeguate ai problemi di oggi. Ad esempio quale è il nuovo contenuto intellettuale e relazionale del lavoro e cosa implica, oppure quale rapporto si sviluppa tra le scelte di mercato “mondializzato” delle imprese e le reti professionali e sociali che si creano tra i lavoratori.
Ci sarà anche l’occasione di consentire alle persone e ai lavoratori un maggiore controllo dal basso dello sviluppo delle tecnologie e dei modi di produzione. Con la prospettiva di attivare nuove forme di partecipazione diretta dei lavoratori per favorire il coinvolgimento e la fiducia delle persone impegnate nei processi produttivi.

Quali potranno essere esattamente le competenze necessarie per il futuro? Non è chiaro come sembra a prima vista. Le abilità relazionali, la collaborazione e le capacità interfunzionali potrebbero essere le più utili. I manager delle Risorse Umane dovranno creare un nuovo equilibrio e una fluida corrispondenza tra il contributo (fondamentale) dei dipendenti, il riconoscimento e il rafforzamento del loro impegno. Tenendo anche in considerazione che la relazione tra datore di lavoro e dipendente si costruisce sulla comprensione e sulla appropriazione da parte dei dipendenti del luogo e del ruolo dell’azienda nella società. Il loro impegno diventa la condizione di efficienza dell’azienda. E per questo l’azienda deve proporre un nuovo rapporto di lavoro basato sulla fiducia, l’autonomia e la responsabilità. La maggior parte dei compiti ripetitivi – sia per gli operai che per gli impiegati – sarà sempre più automatizzata/robotizzata, focalizzando le attività umane verso lavori iper-creativi e innovativi e verso attività in cui l’interazione umana è essenziale (consapevolezza desta, empatia, affettività, cura, convinzione, assunzione di rischi, capacità di prendere decisioni, autonomia, ecc.).

È ormai chiaro che nuove regole di comunicazione dovranno basarsi sulla condivisione continua e incessante delle informazioni. Attraverso gli strumenti rinnovati della comunicazione, l’azienda potrà sollecitare e mobilitare i suoi dipendenti attraverso lo sviluppo della cooperazione, del riconoscimento e della valutazione a 360° delle attività in essere.
Per gran parte dei compiti nel settore terziario, nel frattempo il lavoro è stato liberato dai limiti del tempo (orario di lavoro) e posizione (stabilimento, postazione di lavoro). Quindi il telelavoro, già presente, nelle attività intellettuali, si estenderà anche agli altri domini, in particolare attraverso gli oggetti connessi. Ciò richiederà maggiore considerazione sul tempo-spazio di lavoro e sul tempo-spazio della vita privata.

Bisogna tenere conto del fatto che la crescita dei collaboratori si realizza attraverso il lavoro. Ciò avviene per le opportunità di apprendimento che l’azienda è in grado di proporre. Le persone che lavorano si aspettano di imparare di più, di essere coinvolte nelle decisioni di alto livello e di progredire sia in termini di responsabilità che di retribuzione.
Offrire ai collaboratori delle opportunità di crescita è oltremodo motivante. Dimostra che l’azienda crede in loro, che li rispetta e ha a cuore il loro interesse. Trovare un modo per alimentare una passione con loro, rende il lavoro un posto dove i collaboratori vogliono e sono in grado di dare il meglio di loro stessi. Questo è il modo di esserci!