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Dare un senso alle trasformazioni in atto

Ci troviamo ormai al centro di una nuova rivoluzione tecnologica e, di conseguenza, socio-economica e antropologica. Cosa è cambiato e come stiamo cambiando? Abbiamo adeguata consapevolezza di ciò che sta accadendo e siamo in grado di aggiornare le informazioni in nostro possesso, su noi stessi e il mondo che ci circonda?
Questo articolo propone una breve riflessione sui nuovi sistemi economici e allo stesso tempo un tentativo di inquadrare sommariamente alcuni elementi delle trasformazioni in atto e l’impatto sulle persone e gli organismi sociali.

Sono ancora poco frequenti gli studi sulla portata della trasformazione digitale nei confronti del benessere e il funzionamento delle persone e delle organizzazioni; molto spesso essa viene percepita come utilizzo di “tecnologie soft”, che agevolano la qualità della vita di chi se ne avvale. In realtà, non è ancora possibile inquadrare con certezza il ruolo che questi cambiamenti stanno avendo sul comportamento individuale o organizzativo delle nostre occupazioni.

Sembra che possa cambiare tutto, a partire dal lavoro. E’ quanto emerge da un recente rapporto del World Economic Forum (2016), il 65% dei bambini che in questo momento frequentano la scuola primaria, probabilmente avrà un’occupazione che oggi non esiste ancora. È possibile che i lavori attuali non scompariranno del tutto ma saranno certamente ridefiniti e cambieranno le competenze necessarie per svolgerli in congruenza con le esigenze organizzative della produzione e dei servizi del futuro.

Un nuovo mondo del lavoro
Negli ultimi due decenni, le nuove tecnologie hanno gradualmente modellato un “nuovo mondo del lavoro”. Questi nuovi ambienti di lavoro mettono a confronto i lavoratori e le loro organizzazioni con molteplici sfide all’insegna della “economia digitale”. Quest’ultima, come si sa, ha caratteristiche molto peculiari. Innanzitutto, le informazioni digitalizzate, prodotte in grande abbondanza (big data) e sfruttabili da algoritmi molto potenti, rappresentano una risorsa economica sempre più strategica, in tutti i settori di attività e su scala mondiale. Inoltre si sta delineando un nuovo modello di produzione industriale all’insegna della “Industria 4.0”, che si avvale di una nuova generazione di oggetti comunicanti (l’Internet delle cose), macchine capaci di imparare sfruttando grandi dati e muoversi autonomamente. Allo stesso tempo, il concetto di rete sta diventando un principio organizzativo non solo dell’economia, ma anche della vita nella società perché è cambiata profondamente la nostra concezione della distanza e del tempo. Infine, lo specifico modello di business delle piattaforme online, noto anche come mercati a due lati, sta diventando sempre più importante e tende a sostituire modelli di business più tradizionali nella fornitura di servizi o nella distribuzione di beni. Queste funzionalità non sono completamente nuove, ad eccezione del modello di piattaforma. Combinano tendenze di lunga data, con lo sviluppo della società dell’informazione e cambiamenti più radicali, spesso definiti “disruptive”.

Sotto l’effetto di questa nuova generazione di tecnologie digitali pervasive e di cambiamenti in costante accelerazione nelle organizzazioni aziendali, sono in corso importanti trasformazioni nelle situazioni di lavoro e nella vita delle persone. Nelle aziende l’ambiente di lavoro ha accolto nuovi oggetti: microchip comunicanti, dispositivi di geolocalizzazione, robot autonomi, software incorporati in tutti i dispositivi. Dietro queste tecnologie, ci ricorda G. Vallenduc (Toeing the line. Working conditions in digital environments. HesaMag, 16/2017) vi sono algoritmi potenti e alquanto misteriosi che generano miliardi di gigabyte per pilotare dispositivi industriali remoti, tracciare merci e persone, prevedere comportamenti, influenzare le preferenze e molto altro che sarebbe andato oltre la nostra immaginazione dieci anni fa, quando i primi smartphone furono messi sul mercato.

In questa “economia digitale”, come si presentano i problemi di benessere organizzativo?
L’economia digitale fa già parte delle nostre vite. È una rivoluzione che porta con sé molti lati positivi: un mondo connesso, più opportunità di collaborazione, macchinari che svolgono buona parte dei lavori pesanti, computer in grado di coadiuvare attività complesse ecc. Tuttavia, al di là di questi miracoli tecnologici, queste grandi trasformazioni avranno i loro effetti, oltre che sul mercato del lavoro, anche sulle condizioni di vita dei lavoratori dipendenti, sulle condizioni di lavoro e sulla formazione.

Il sovraccarico di informazioni è la forma più comune di tecnostress.
In questo scenario, l’attività di lavoro si svolgerà in connessione permanente con notevoli effetti sulla salute delle persone. Il “tecnostress”, legato al fatto di lavorare online in modo continuato (in pratica: permanente), è stato oggetto di numerosi studi lungo il corso degli anni; cito ad es. quelli di Mandl et colleghi (New forms of employment Eurofound, Publications Office of the EU, 2015) e voglio ricordare anche il recente “ICT e lavoro: nuove prospettive di analisi per la salute e la sicurezza sul lavoro” (Inail, 2017).

Quando si parla di technostress, si allude all’aumento del carico psicosociale correlato al lavoro, in quanto il potenziale offerto dai nuovi strumenti digitali molto spesso si trasforma in una pressione sul lavoratore. Sia a livello delle aspettative esplicite o implicite del suo datore di lavoro o dei suoi colleghi, sia delle aspettative o esigenze del cliente, per problemi di connettività che disturbano il lavoro o sotto forma di forte dipendenza da strumenti digitali come ad esempio gli smartphone e i tablet.

Vallenduc, nel lavoro appena citato, sottolinea che il sovraccarico di informazioni è la forma più comune di tecnostress. Dicendo anche che l’uso continuato di e-mail, messaggistica istantanea e social network comporta un elevato carico di informazioni e messaggi, nonché frequenti interruzioni del lavoro. Ciò causa una pressione costante per dare una risposta a tutti i segnali ricevuti o per segnalare la propria presenza. Inoltre, i messaggi di posta elettronica sono spesso caratterizzati dalla mancanza di indicatori organizzativi, quando gli stessi messaggi vengono inviati a un numero elevato di destinatari, senza ordine di priorità o destinazione preferita. Spetta a ciascun dipendente adottare i propri criteri di selezione e valutazione, con il rischio di essere criticato per aver trascurato le informazioni che aveva ricevuto. Il costante mix di informazioni significative e informazioni insignificanti, che caratterizzano Internet e i social network, è fonte di affaticamento mentale, oltre alla necessità di essere permanentemente accessibile e disponibile. Inoltre, i frequenti utenti di Internet possono essere influenzati da una perdita di riferimenti spaziali e temporali, legati all’apparente scomparsa di distanze e differenze temporali. Il “tempo reale” che caratterizza il lavoro online a volte è un momento che non è reale per nessuno.

Le conseguenze del tecnostress possono manifestarsi nella stanchezza cronica generalizzata, un atteggiamento apatico o cinico, compromissione della concentrazione, tensione muscolare e altri dolori fisici, oltre al burnout. Oltre a queste conseguenze, che sono abbastanza simili a quelle dello stress da lavoro in generale, il tecnostress può portare a disturbi neurologici di deficit dell’attenzione che rendono i lavoratori incapaci di gestire correttamente le loro priorità e il loro tempo e che generano sentimenti di panico o senso di colpa.

Ciò che è nuovo oggi, è che una crescente proporzione di lavoratori è interessata da questi fenomeni di eccessiva sollecitazione digitale: non solo i manager, ma anche i professionisti di tutte le discipline, i dipendenti tecnici e commerciali, gli operatori sanitari. Lo sviluppo del nomadismo digitale è una delle cause di questa espansione. Si tratta una forma di organizzazione del lavoro che utilizza costantemente strumenti digitali connessi e moltiplica i luoghi di lavoro: in varie sedi dell’azienda, presso i clienti, in viaggio, a casa, negli spazi condivisi, ecc., fino alla evanescenza della nozione stessa di luogo di lavoro. Secondo gli studi di Mandl e colleghi (cit.), la moltiplicazione dei luoghi di lavoro oggi riguarda quasi un quarto dei lavoratori europei.

Oltre al tecnostress, i nomadi digitali sono anche esposti al rischio di dipendenza o di assuefazione ai dispositivi mobili e onnipresenti: l’uso compulsivo, la difficoltà di disconnessione sarebbe solo temporanea, stato di astinenza dopo l’interruzione dell’uso cronico, rischio di recidiva dopo periodi di disconnessione, ecc. Per molti lavoratori mobili, la gestione dei tempi di connessione e disconnessione diventa un problema importante, non solo in termini di stress ma anche in termini di equilibrio tra lavoro e vita privata e in termini di responsabilità all’interno delle organizzazioni. Di fronte a questi rischi, alcuni rapporti ufficiali (ricordo il “Rapporto Mettlin del 2015 per il Governo francese) raccomandano l’istituzione di un “diritto alla disconnessione”, già inserito in alcuni accordi negoziati nelle aziende.

Alcune specifiche configurazioni delle relazioni di lavoro: disagio, devianza e delinquenza.

I molteplici cambiamenti sociali ed economici succedutisi a partire dagli anni ’70, intensificatisi lungo gli anni ’90 e ampliatisi in questa transizione digitale, hanno imposto notevoli mutazioni al mondo del lavoro.

Le relazioni di lavoro, i processi e i tempi di produzione, i modelli gestionali, ecc. hanno assunto forme e dimensioni che, se da una parte hanno permesso alle aziende di adeguarsi alle esigenze dei mercati ed essere all’altezza delle nuove sfide della globalizzazione, dall’altra, hanno tuttavia innescato nuove problematiche psicosociali. Molti di tali problemi dipendono dal modo in cui si configura il rapporto tra la persona e l’organizzazione di cui fa parte: stili di leadership inefficienti, impossibilità di progettare una carriera e uno sviluppo professionale, cattiva qualità delle relazioni interpersonali, violazioni del diritto alla dignità e al rispetto, ecc.

In questo scenario, sono cambiate le organizzazioni di lavoro e soprattutto le persone che vivono al loro interno e utilizzano le risorse personali e professionali di cui dispongono; per affrontare la loro esperienza lavorativa, per rispondere alle esigenze del lavoro e del contesto organizzativo in cui progressivamente esse si inseriscono. Spesso rimane in secondo piano il ruolo fondamentale delle persone che fanno funzionare i processi organizzativi e investono le loro “risorse umane” indispensabili per i processi di lavoro e di produzione di beni e servizi. Esse, in verità, non sono un semplice fattore della produzione, ma rappresentano un meta fattore, nel senso che la finanza, l’organizzazione o la tecnologia, non esistono in se, ma esistono uomini e donne che fanno funzionare la finanza, la tecnologia, l’organizzazione.

Forse, proprio per aver posto maggiore enfasi sul rilievo giuridico/economico e finanziario di tali cambiamenti, in questi ultimi trenta anni abbiamo in gran parte trascurato il lato umano/umanitario dei processi e delle relazioni di lavoro. A ben rifletterci, abbiamo posto in secondo piano i temi dei valori della dignità della persona, dell’etica, della giustizia sociale, ecc. Allo stesso tempo, banalizzando diversi segnali importanti che sin dal 1986 l’Organizzazione Internazionale del Lavoro aveva lanciato; per richiamare attenzione sulle “interazioni tra contenuto del lavoro, gestione ed organizzazione del lavoro, condizioni ambientali e organizzative da un lato, e le competenze ed esigenze dei lavoratori dipendenti dall’altro”. E’ proprio tra le pieghe di queste interazioni, che si manifestano, da parte di appartenenti alle organizzazioni di lavoro, comportamenti che trasgrediscono le norme organizzative e ciò facendo minacciano gli interessi delle organizzazioni e/o delle persone che lavorano al loro interno.

A partire da queste premesse, voglio richiamare l’attenzione su alcuni segnali provenienti dal mondo del lavoro riguardo specifici fenomeni di deriva delle relazioni sociali che hanno proiezioni significative anche all’esterno della vita lavorativa. Si tratta di eventi critici ormai sufficientemente analizzati dalla psicologia del lavoro e delle organizzazioni; attraverso studi e ricerche empiriche, discussi e comunicati sulla letteratura scientifica internazionale. Utilizzando la ricerca intervento organizzativa, tali fenomeni, sono stati definiti in termini di “devianza all’interno dei processi produttivi”, “devianza verso la proprietà”, “devianza organizzativa”, “comportamenti antiproduttivi”, “comportamenti ostili”, “comportamenti antisociali (verso le persone e verso l’organizzazione)”, ecc. (Arousseau e Landry, 1996; Baron e Neuman, 1996; Damant, Dompierre e Jauvin, 1997; Giacalone e Greenberg, 1997).

L’interesse scientifico e la presa in carico di questa problematica nel nostro Paese è abbastanza recente, sebbene gli studi di Depolo, Guglielmi, Mariani e Toderi (2002), abbiano riconosciuto il fenomeno dei comportamenti antisociali al lavoro già da molti anni.
In questa breve argomentazione vorrei anche ricordare le derive dei “poteri del datore di lavoro”, che sono state in questi ultimi anni molto bene evidenziate anche dalla dottrina giuridica e dalla giurisprudenza. Ad esempio: “spesso una vicenda di mobbing si accompagna o si intercala con l’esercizio abusivo dei poteri imprenditoriali (spec. quello direttivo e lo jus variandi) e si manifesta mediante l’adozione di atti illegittimi di amministrazione del rapporto di lavoro”, (P. Tullini, 2000)

Ma l’ipotesi più frequente, fa notare M. T. Carinci (2007) è quella del demansionamento o dello svuotamento progressivo di mansioni; oltre i casi dell’esercizio plateale o esasperato del potere disciplinare per illeciti inesistenti o di lieve entità o con avvio della procedura poi non seguita dell’irrogazione della sanzione, o l’utilizzo abnorme del potere di controllo con richieste continue di giustificazioni e chiarimenti, senza adozione peraltro in alcun caso di provvedimenti sanzionatori; in altre vicende è stato utilizzato il potere di trasferimento non per sopperire ad esigenze organizzative, ma per indurre il lavoratore alle dimissioni. Degno di nota, il caso evidenziato ancora da M.T. Carinci, in cui lo strumento utilizzato fu il controllo delle assenze per malattia, tramite la richiesta all’Inps di visite con una frequenza ed una reiterazione tali da denotare chiaramente uno sconfinamento del potere dalla funzione propria.

Avere la possibilità di tener presente questo quadro di riferimento, ci permette di comprendere meglio la fenomenologia dei cosiddetti “rischi psico cociali” e, allo stesso tempo, aiuta a capire che nel mondo del lavoro vi sono molteplici forme di pressioni psicologiche e comportamenti devianti che dovrebbero essere oggetto di più approfondite analisi. Per prestare innanzitutto maggiore attenzione su un coacervo di problematiche che influiscono sulla salute delle persone. e che spesso hanno un denominatore comune nei cosiddetti “comportamenti ostili” al lavoro. Sono delle forme di devianza che incidono fortemente anche sui costi a carico delle aziende (Kidwell e Martin, 2005; Robinson e Greenberg, 1998) e che sovente rappresentano gli effetti della rottura del contratto psicologico del lavoratore sull’impegno verso l’organizzazione del lavoro (Depolo, Guglielmi, Mariani e Toderi, 2002)

Attraverso i richiami fatti in precedenza, mi preme segnalare che le ricerche condotte fino ad oggi offrono numerosi spunti per una più precisa definizione del fenomeno mobbing; ad esempio quella riportata nell’ultimo lavoro di Einarsen e colleghi (2003) e condivisa dai più insigni studiosi: “Il mobbing può essere definito come un’aggressione psicologica, una forma di offesa morale, volta a spingere una persona alla sua esclusione dal contesto lavorativo o danneggiare alcuni aspetti del ruolo lavorativo e della mansione. Per etichettare come mobbing determinate attività e processi, i comportamenti di vessazione devono essere esercitati ripetutamente e regolarmente (per esempio una volta alla settimana) e per un certo periodo di tempo (per esempio per almeno sei mesi). Il mobbing è un processo di intensificazione di un conflitto (escalation) nel corso del quale una persona si trova in una posizione di inferiorità ed è vittima di sistematiche azioni negative da parte di uno o più aggressori.

Il mobbing non si riferisce nè a un conflitto scaturito da un incidente o da un evento isolato nè ad un conflitto in cui tra trasgressore e vittima intercorre la stessa relazione di potere”.

L’argomento riveste tutt’ora enorme interesse. Mobbing, bullying, harcelement, work arassement, emotional abuse at work, sono concetti che hanno avuto una crescente evoluzione nella cultura di questi ultimi anni. Il riconoscimento e l’attenzione portati dai media, rilanciati da numerosi best seller, ne hanno fatto un elemento imprescindibile del dibattito sulla vita al lavoro. Il fenomeno è molto complesso e solo da qualche anno, in assenza di un quadro normativo specifico, le sentenze hanno cominciato a delinearne i contorni. Ma sarebbe bene che tali problematiche vengano gestite all’interno dei luoghi di lavoro piuttosto che in tribunale. Anche sul fronte della diagnosi del danno subito medici del lavoro, psicologi e medici legali stanno ancora affinando i metodi di valutazione. Sulla base di queste esperienze si comincia anche a parlare delle misure di prevenzione del fenomeno, che causa danni ai singoli lavoratori, ma anche alle aziende sia in termini di perdita di efficienza, sia in termini di costi legati alle possibili cause legali.

A questo punto, vorrei richiamare l’interesse dei lettori, sul fatto che la psicologia del lavoro, da anni pone molta attenzione proprio sugli antecedenti organizzativi e situazionali dei processi di mobbing e dei comportamenti negativi al lavoro. Nella letteratura scientifica sono presenti contributi che sottolineano la correlazione tra differenti fattori situazionali e i fenomeni di devianza, come le caratteristiche dell’organizzazione (Bjorkqwist et al., 1994), la carente progettazione del lavoro (Einarsen, Skogstad, 1996) lo stile di leadership inefficace (Vartia, 1996) e, naturalmente, la violazione del contratto psicologico. Da tempo, ad esempio, Depolo, Guglielmi, Maier e Sarchielli (2001) hanno posto in evidenza “che il contratto psicologico e il mobbing sono costrutti fortemente legati fra loro”.

Secondo gli studi e le ricerche della psicologia del lavoro e delle organizzazioni, vi sono diverse caratteristiche organizzative che possono essere ritenute fattori favorenti i fenomeni di devianza, tra cui elementi negativi del clima organizzativo (Zapf, 1999), stili inadeguati di leadeship (Skogstad, Einarsen, Torsheim, Aasland e Hetland, 2007), percezione di ingiustizia (Neuman e Baron, 2003), rottura del contratto psicologico (Depolo, Guglielmi e Toderi, 2004) e la competizione sul lavoro (per incarichi o avanzamenti di carriera) per ottenere il favore del capo (Zapf e Einarsen, 2005).

Le derive, di cui si è fatto cenno, nella maggioranza dei casi, possono dar luogo ad un significativo disagio psico-fisico che si ripercuote sia sul piano clinico che su quello lavorativo. Ciò rappresenta un costo anche per le aziende, in termini di calo della produttività e assenteismo, e per la società, in termini di richieste di assistenza sanitaria e di eventuali risarcimenti e o invalidità. Riveste pertanto molta importanza il ruolo della prevenzione, soprattutto nei soggetti e nelle situazioni che appaiono essere più a rischio.

In tale prospettiva il medico del lavoro, chiamato a consigliare il datore di lavoro sulle sue responsabilità nell’ambito della sicurezza e della salute sul lavoro, assume un ruolo fondamentale in tutte le fasi dell’intervento. Informa sui rischi per la salute dei lavoratori e per le disfunzioni organizzative e partecipa alla definizione di codici etici e comportamentali volti ad evitare o limitare al massimo il fenomeno. Può assumere il ruolo di “mediatore” tra lavoratore ed azienda, intervenendo per le specifiche competenze, qualora sia a repentaglio la salute del lavoratore. E’ chiamato a riconoscere i sintomi di scompenso dell’equilibrio psico-fisico intervenendo sulla persona, oppure indicando adeguate misure correttive a livello di condizioni di lavoro. Inoltre, in fase di visita periodica, il medico del lavoro può far luce sulla soddisfazione lavorativa e la percezione della qualità dei rapporti interpersonali, oppure esaminare attentamente i lavoratori al rientro da lunghe malattie, accertando che vengano adeguatamente rispettate le indicazioni sulle limitazioni all’idoneità, sensibilizzando sulle misure volte ad agevolare il rientro delle donne dopo la maternità, ecc.. L’attenzione del medico del lavoro verso i rischi psico sociali dovrebbe attivarsi specialmente in occasione di processi di cambiamento aziendale, operando contestualmente su due piani, quello epidemiologico e quello clinico con congruenti strategie di intervento, sia preventive che terapeutiche. Facendo in modo di cogliere i sintomi e i segni di eventuali problematiche a livello organizzativo; non trascurando di valutare i fattori individuali, per differenziare le effettive situazioni problematiche e proporre la realizzazione di eventuali provvedimenti e contromisure. Per far questo, il medico del lavoro, dovrebbe poter contare sul contributo di diversi specialisti, sia per quanto riguarda l’aspetto diagnostico/terapeutico (ad es. psicologi, neurologi, fisiatri.) che per quello valutativo e riparativo del danno (giuridico e medico legale).

In conclusione, vorrei considerare che, se i dati riferiti dalla letteratura scientifica, attraverso i quali concordano numerosi autori che si occupano del mobbing e di comportamenti antisociali al lavoro, pongono bene in evidenza un ruolo attivo (e forse non consapevole) che il livello organizzativo riveste nel favorire il manifestarsi di comportamenti negativi al lavoro, da ciò si può comprendere quanto sia importante agire sull’organizzazione del lavoro per realizzare una efficace attività di prevenzione di tali fenomeni. Una politica aziendale (possibilmente incoraggiata dai politici, dagli analisti economici e anche dai sindacati) capace di rispondere alla forte domanda di attenzione sui temi della “umanizzazione” del lavoro e della reale (attiva, attenta, costruttiva, costante) responsabilità sociale delle imprese può avere un ritorno positivo verso le aziende, anche in termini economici. Con un beneficio esteso a tutta la società.

Perdersi e ritrovarsi

 

Capita di trovarci di fronte a una situazione difficile in cui non sappiamo cosa fare, come affrontarla, oppure non abbiamo gli strumenti necessari per intervenire in modo efficace su di essa, non possiamo agire in modo adeguato. Si tratta in genere di un evento, un compito o una prova che in quel momento è capace di fare emergere il limite delle nostre possibilità e che viene da noi vissuto con un certo grado di disagio.

Il segnale della nostra inadeguatezza si manifesta attraverso l’ansia che a sua volta sottintende l’indice della nostra fatica psicofisica o del nostro stress. Tutto questo capita quotidianamente: in famiglia, a scuola, al lavoro, ecc.

Quel momento in cui non riusciamo a raggiungere l’obiettivo, a realizzare cioè quel compito che abbiamo di fronte, può – in moltissimi casi – tramutarsi in una minaccia nei nostri confronti. Diventa un attacco alla nostra autostima, uno sconvolgimento della nostra zona di confort. E quando viviamo una tale situazione, abbiamo la possibilità di dire: “io mi sento minacciato da questa difficoltà e però posso lottare, posso far fronte alla minaccia contro la mia autostima”.

In linea del tutto schematica, nel caso mi trovassi nella situazione appena descritta, potrei prendere coscienza di quanto sta accadendo in due modi:
posso entrare in contatto con il mio corpo, attraverso il quale mi “sento” e “capisco” qual è la situazione al mio interno, valutando così le mie energie e le mie risorse (bisogna considerare però che tale situazione potrebbe essere vissuta anche come minaccia e in questo caso il “sentirsi” in tale stato può diventare l’anticamera dello stress).
Posso entrare in contatto con l’esterno, mi sintonizzo e valuto ciò che sta accadendo; per comprendere se il mio “potere” personale è sufficiente e adeguato ad affrontare la situazione. Vivrei pertanto l’evento come sfida e nel momento in cui vivo qualcosa come competizione, mi attivo in modo sicuramente positivo. Questo diventa il modo ideale per affrontare le cose, anche se naturalmente non possiamo sempre interpretare o re-interpetare gli eventi in termini di competizione.

Esiste tuttavia un rischio incombente, quello di voler vincere ad ogni costo, di superare con ingenuità e entusiasmo sprezzante il limite che si pone come sfida; e allora…

 

 

 

Ho ritrovato su alcune vecchie agende delle annotazioni che trovo ancora interessanti: brevi riflessioni, credo non banali rispetto al tempo in cui le ho scritte.
Ne ho scelto cinquantadue, risalenti al 2002, 2003 e 2004, con l’intenzione di proporre un motivo di ispirazione settimanale per il corso dell’anno.
Questa è la n. 17:
Perdersi e ritrovarsi (2003).

Una psicologia per tutti

ANALISI DEL CONTESTO

Superati i tabù sul ricorso alla psicoterapia come cura di un disagio mentale grave e per questo passibile di vergogna, ogni individuo avverte la necessità di “curare la propria anima”, di attuare un percorso finalizzato all’auto consapevolezza, a un maggior benessere psicofisico e soprattutto a una ritrovata gioia di vivere. Star bene con se stessi e con gli altri sono certamente degli obiettivi ambiziosi e faticosi da raggiungere, ma perseguibili con facilità proprio partendo dal presupposto che è un diritto dovere curare e confortare la propria anima. E dato che il benessere psicologico di ciascuno di noi dovrebbe essere considerato il nucleo fondamentale e indispensabile per una buona qualità della vita, ad esso dovrebbe essere conferito il giusto merito ed attribuito un adeguato valore. Pertanto chi si trova nella condizione di voler richiedere un supporto psicologico, ma non ha le possibilità economiche per conseguire tale obiettivo privatamente e deve purtroppo confrontarsi con liste d’attesa lunghissime per accedere ai servizi pubblici, va aiutato.

Non si può trascurare che, in tema di salute e qualità della vita, il lavoro (inteso in senso lato come investimento di energie personali per il conseguimento di un determinato fine) è innanzitutto fonte di riconoscimeto psicologico e quindi matrice identitaria.
Se proviamo a renderci conto che viviamo la maggior parte della nostra giornata al lavoro, non potremo nasconderci che oggi la qualità della nostra vita è rappresentata soprattutto dalla qualità della vita professionale; cioè dalla qualità del lavoro (sia quando c’è lavoro che quando non c’è).
Stiamo veramente vivendo una mutazione “genetica” nelle nostre condotte di lavoro. In alcune circostanze possiamo verificare una vera alterazione nei parametri qualitativi della nostra vita e sono presenti nuove disfunzioni che attualmente stanno affliggendo la salute delle persone. Da una parte vi sono problematiche di tipo “fisico”: disturbi molto spesso cronicizzati e in stretto rapporto con la fatica mentale e lo stress; dall’altra sono evidenti le problematiche di natura “animica” o “mentale”, derivanti da un non armonico rapporto con se stessi, i propri colleghi, i dipendenti, il lavoro e il ruolo. Si tratta di campanelli d’allarme che mostrano molto chiaramente la necessità di una riflessione sulla salute al lavoro nell’attuale clima di accresciuta competizione e di cambiamenti nei modelli di occupazione.

Con sempre maggiore frequenza oggi proviamo una certa inquietudine per le conseguenze di modelli organizzativi e di procedure di lavoro che sembrano aumentare soprattutto la gravosità dei carichi mentali. Alla richiesta di fare presto, meglio e a meno costi, le aziende e le organizzazioni sono costrette a introdurre nuove pratiche e procedure organizzative che comportano l’assunzione di compiti nuovi e più impegnativi per le persone che vi lavorano. Le difficoltà e i problemi nuovi, sono segnali che impongono di aggiornare i nostri strumenti professionali i quali, naturalmente, coinvolgono a vario livello specifiche competenze e professionalità.
Tutto ciò presuppone che venga posta una attenzione più marcata alla “socializzazione” della psicologia, che essa non resti solo appannaggio degli esperti, ma faccia parte delle competenze di base di ogni individuo: per la vita quotidiana, per il lavoro, per le relazioni che essa vorrà intessere.
Emerge la necessità di trasformare le disfunzioni e gli elementi critici emergenti in esperienze pro-positive, avviare interventi di formazione e di ricerca adeguati alle mutate condizioni. La psicologia e gli psicologi non sono esclusi in queste trasformazioni;
In futuro qualsiasi intervento di promozione della salute, qualsivoglia attività di prevenzione in fatto di salute, non potrà prescindere dalla cultura della psicologia
La psicologia ha davanti a sé una lunga strada di continua ricerca azione, un costante “cimento” che offrirà a ciascuno la opportunità di sentirsi al passo con le evoluzioni dei bisogni professionali autodiretti ed eterodiretti.

Si parla quotidianamente nei mass media di disagio ma sono poco diffuse le conoscenze su quanto si può fare e si fa per promuovere il benessere psicologico.
Una manifestazione per promuovere il benessere psicologico dovrà basarsi sulla convinzione, ormai diffusa, che il migliore modo di prevenire il malessere delle persone non è quello di intervenire direttamente su di esso, ma di perseguire iniziative volte a potenziare abilità fondamentali per l’adattamento nei diversi contesti di vita.
Le condizioni di autoefficacia in questo caso costituiscono gli indicatori più possibili di tali capacità e pertanto rappresentano importanti determinanti del benessere delle persone.
Occorre considerare le persone come agenti attivi del loro sviluppo, perché essi sono in grado di trarre vantaggio dalle relazioni con se stessi, gli altri, il lavoro, la famiglia, ecc.
Ciò che contraddistingue le convinzioni di autoefficacia delle donne e degli uomini è la loro specificità: tali convinzioni variano in relazione alle diverse aree del funzionamento umano ed in relazione ai diversi ambiti in cui si declina l’esperienza individuale.
Molti studi, anche nel contesto italiano, hanno sottolineato l’importanza del senso di autoefficacia, nelle sue diverse articolazioni relazionali, nel promuovere il benessere psicologico ed ostacolare le condizioni di rischio.
Lo psicologo è in grado di fornire suggerimenti di indirizzo e intervento, per agevolare nelle persone le abilità cognitive, emotive ed interpersonali indispensabili per il loro benessere.

OBIETTIVI

– Fornire informazioni sulla capacità professionale, la qualità degli interventi e la specificità della formazione degli psicologi e della psicologia

– Aiutare a riconoscere che le strategie proattive per agevolare il benessere psicologico, legato alla attività lavorativa, all’allevamento dei figli, ecc., possono avere un ruolo importante sulla collaborazione interna e l’aumento di partecipazione dei collaboratori.

– Contribuire ad eliminare i pregiudizi sul disagio psichico e facilitare lo scambio di buone pratiche per agevolare nelle persone abilità cognitive, emotive ed interpersonali indispensabili per il loro benessere.

– Rendere evidente che è sempre più necessario tener conto dei bisogni di donne e uomini, bambini, giovani e anziani, più esplicitamente e dichiaratamente psicologici

– Informare che lo psicologo oggi opera sempre più in contatto con il medico, il sociologo, l’assistente sociale, le istituzioni socio assistenziali, ecc., per affrontare in una prospettiva multidisciplinare i principali problemi che coinvolgono più o meno indirettamente la salute e il benessere delle persone in rapporto con la loro cittadinanza e la loro vita lavorativa.

CONTATTI:
Studio Dott. Vittorio Tripeni, 3470469694 tripeni@fastwebnet.it

Salute ed efficacia del lavoro nell’era del tecnostress

Se riuscissimo a renderci conto che viviamo la maggior parte della nostra giornata occupandoci dei nostri problemi di lavoro, non potremmo nascondere che oggi la qualità della nostra vita è rappresentata soprattutto dalla qualità della vita professionale.
Stiamo vivendo continuamente una mutazione “genetica” nelle nostre abitudini di lavoro e le cosiddette nuove tecnologie vanno innescando cambiamenti molto profondi nella quotidianità di ciascuno di noi. In alcune circostanze, può manifestarsi una vera alterazione nei parametri qualitativi della vita e salvo casi eccezionali – che per fortuna sono numerosi – sono molte le disfunzioni che stanno affliggendo attualmente la salute delle persone. Da una parte esistono problematiche nell’ambito “fisico” , disturbi molto spesso cronicizzati e in stretto rapporto con la fatica mentale e lo stress; dall’altra sono evidenti le problematiche di natura “psichica” o “mentale”, derivanti da un non armonico rapporto con se stessi, i propri colleghi, i dipendenti, il lavoro e il ruolo. Si tratta di campanelli d’allarme che mostrano molto chiaramente la necessità di una riflessione sulla qualità del lavoro nell’attuale clima di accresciuta competizione e di cambiamenti nei modelli di occupazione.

Internet, con le messaggerie e le reti sociali, ha cambiato il modo di comunicare; è richiesto un potenziamento delle capacità relazionali personali, una conoscenza approfondita e diffusa dei meccanismi di comunicazione tra persone, culture e sensibilità differenti e contemporaneamente avremmo bisogno di maggior tempo ed energie che purtroppo ci stanno mancando.

Con sempre maggiore frequenza proviamo inquietudine per le conseguenze di modelli organizzativi e di procedure di lavoro che sembrano aumentare soprattutto la gravosità dei carichi mentali. Alla richiesta di fare presto, meglio e a meno costi, le aziende e le organizzazioni sono costrette a introdurre nuove pratiche e procedure organizzative che comportano l’assunzione di compiti nuovi e più impegnativi per le persone che vi lavorano. Le difficoltà vissute e i sempre nuovi problemi che ci affliggono, sono segnali che impongono di aggiornare i nostri strumenti e mettono in discussione, a vario livello, le competenze individuali e professionalità.

Tutto ciò presuppone che venga posta una attenzione più marcata alla psicologia, che essa non resti appannaggio degli esperti, ma faccia parte delle competenze di base di ogni individuo: per la vita quotidiana, per il lavoro, per le relazioni che esso vorrà intessere.
Chi dirige una azienda o è responsabile di un settore di essa, non può trascurare che l’incremento della produttività e la qualità dei servizi si trova sempre più in relazione con il morale dei collaboratori e lo “star bene” (nei termini di salute e sicurezza) sul lavoro. Contribuire alla qualificazione complessiva degli ambienti di lavoro, migliorare il clima organizzativo, vuol dire contribuire al benessere e alla salute di chi vi lavora e anche garantire il successo dell’azienda e di ciò che produce.

La promozione della salute nel lavoro non riguarda unicamente la prevenzione delle malattie, delle ferite e degli incidenti. Anzi, a fronte di un calo del tasso di incidenza delle malattie o delle lesioni corporee, è in forte aumento la componente “nervosa” o psicosomatica di vari disturbi derivanti dall’uso non sempre corretto delle nuove tecnologie, oppure dalla difficoltà di far fronte agli adattamenti continui e ravvicinati che i cambiamenti di cui si parlava all’inizio impongono alle strategie aziendali.
Gli studi dimostrano che i collaboratori che lavorano in un contesto sano e privo di tensioni, danno alle aziende un netto vantaggio sulla concorrenza. Le aziende che investono sulla salute e il benessere dei loro collaboratori ne traggono un ritorno, per il fatto che favoriscono un lavoro di qualità, una più grande creatività e un miglior servizio alla clientela. Riducono il numero dei contenziosi legati alle malattie e alle lesioni e mantengono un basso tasso di assenteismo.
Riescono a far emergere i talenti migliori e conservare le persone più competenti.
La promozione della salute non richiede interventi complessi e dispendiosi. Incoraggiare il benessere dei nostri collaboratori può essere abbastanza semplice organizzando attività formative “centrate” sulle persone e finalizzate a coinvolgerle per realizzare un clima “igienico” e “facilitante” l’emersione del loro potere personale; per la salute e il successo del loro lavoro, nonché per i vantaggi intrinseci – in termini di valore aggiunto – per le aziende.

Realizzare un clima aziendale e organizzativo facilitante la interdipendenza funzionale delle persone e l’attualizzazione delle aspettative in gioco, può risultare anche una opportunità vantaggiosa per alimentare una immagine positiva dell’azienda in quanto organismo “centrato” sulle persone e interessata veramente a prendere in considerazione le percezioni e le aspettative delle persone che in essa pensano, sentono, agiscono. Immagine che pertanto può essere proponibile sia al suo interno che all’esterno . Inoltre può risultare un mezzo veramente efficace per conferire valore aggiunto a garanzia della qualità del servizio fornito.