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Vogliamo le soluzioni ma evitiamo i problemi. Un punto di vista sul coaching

C’è un’opinione diffusa e molta propensione a pensare che il moloch intelligenza artificiale divorerà l’intelligenza umana. Una prospettiva che preoccupa tanto e allo stesso modo affascina.
Gli studi che riguardano l’impatto della intelligenza artificiale sul mondo del lavoro iniziano a diffondersi e talvolta alimentano la preoccupazione appena accennata. Alcuni mettono in evidenza la complementarietà dei tre tipi di intelligenze che sarà necessario saper combinare nel prossimo futuro: l’intelligenza emotiva, l’intelligenza artificiale e l’intelligenza collettiva. All’interno di questa prospettiva si sta aprendo un notevole spazio evolutivo per le attività di consulenza organizzativa. In particolare, per il counseling e il coaching.

Le aziende sono fatte principalmente di persone, non di procedure, e spesso non basta un “programma” (o, meglio, una “ricetta”) per risolvere le criticità. Di conseguenza, se l’intelligenza di un manager non riuscirà a competere con le vertiginose capacità di memorizzazione, calcolo e diagnosi di una intelligenza artificiale, avrà tuttavia da svolgere un ruolo importante attraverso la sua “intelligenza del cuore”. Perché saranno necessarie le abilità socio emotive che il leader dovrà sviluppare nella sua organizzazione per completare il lavoro delle tecnologie intelligenti.
Ad esempio, le competenze relazionali sono ormai diventate essenziali perché son inaccessibili (per ora) all’IA. Di conseguenza, là dove sarà necessario dar prova di intuizione, creatività, immaginazione, pensiero concettuale e buon senso, l’Umano dovrà svolgere il suo pieno ruolo a fianco delle macchine.
La sfida del leader del prossimo futuro sarà triplice. Dovrà governare i cambiamenti organizzativi e culturali generati dall’IA, organizzare la collaborazione uomo-macchina e accelerare lo sviluppo di nuove abilità emotive e cognitive per aggiungere valore alle attività automatizzate. Per questo, dovrà sapere come tenere insieme le tre forme di intelligenza.
Da parte mia, nel corso di oltre tre decenni di consulenza manageriale da un lato e psicologia clinica e del lavoro dall’altro (come counselor, ricercatore, terapeuta, didatta) ho svolto attività di coaching accompagnando manager e team di ogni genere e ho svolto varie attività di supporto per la riconfigurazione e lo sviluppo dell’intelligenza collettiva in diverse situazioni. Negli anni ho avuto modo di seguire le trasformazioni dell’attività del manager, che da una pedissequa applicazione dei principi di Henry Fayol, vale a dire la pianificazione degli obiettivi, l’organizzazione dei compiti e delle responsabilità, la gestione delle persone e il controllo delle attività, ha via via compreso la necessità di acquisire competenze “non tecniche” opportune per migliorare la loro missione. Vestendo in questo modo – dopo un’adeguata formazione – i panni del manager-coach.

Una forma di elicitazione legata al “saper fare” e al “saper essere”
Di fonte al susseguirsi di domande nuove e complesse che le organizzazioni aziendali si trovano ad affrontare, il coaching diventa non soltanto un nuovo stile di management ma soprattutto una necessità per gestire in modo efficace le risorse umane e raggiungere una coerenza interna con le politiche gestionali e con gli obiettivi e le strategie dell’azienda. Esso è una forma di accompagnamento che ha come obiettivo lo sviluppo delle attitudini, il miglioramento della performance, l’adattamento a situazioni nuove e costituisce un valido supporto per la presa di decisioni quando le condizioni sono difficili o complicate. È una forma di elicitazione legata al “saper fare” e al “saper essere” riguardanti il modo di governare la propria attività, di organizzarla, di attivare la sfera relazionale e la comunicazione; mira allo sviluppo dell’identità professionale, dell’autonomia e della responsabilità, non alla riproduzione di modelli. Apporta una nuova chiarezza (introduce ulteriori punti di vista) sulle situazioni reali, ricercando evoluzioni significative in materia di comportamenti e di performance. È un volano di facilitazione dell’adattamento (attivo, non passivo) ai cambiamenti intensi sia in ambito organizzativo che sociale.

Il coaching come attività specializzata di consulenza
Per quanto riguarda la formazione appena accennata in precedenza, quella che un tempo era definita “executive coaching” e che attualmente è nota come “coaching manageriale”, è un approccio di coaching professionale incentrato sullo sviluppo di competenze relative a una posizione attuale o futura. Si basa su un processo in cui la fase di preparazione è importante quanto la fase di sviluppo stessa ed esistono diversi modelli di intervento che possono guidare la pratica del coaching. L’importante per il coach è determinare e spiegare il modello o i modelli che guidano il suo intervento, tenendo presente che il coaching manageriale può essere utilizzato in molti contesti in cui obiettivi e target differiscono.
Tra le varie definizioni di coaching manageriale, voglio considerare quella di Douglas e Morley (2000) del Center for Creative Leadership, poiché mi sembra la più operativa e completa. “Il coaching manageriale è un processo finalizzato a fornire agli individui gli strumenti, le conoscenze e le opportunità di cui hanno bisogno per crescere e diventare più efficaci […]. Implica l’insegnamento di abilità in un contesto di relazione personalizzata con il cliente, fornendogli feedback sulle sue capacità e relazioni interpersonali […]. Una serie di attività su misura finalizzate alle problematiche attuali o rilevanti incontrate dall’individuo che sono prese in considerazione insieme al coach, al fine di aiutare il primo a mantenere un’attenzione costante e rivolta all’integrazione delle sue forze e la gestione dei suoi punti deboli […].”
In realtà il processo del coaching è molto più complesso, in quanto si configura come un’attività specializzata di consulenza tipicamente individuale e squisitamente di carattere psicologico. Esso si differenzia nettamente da ogni forma ed indirizzo di psicoterapia e, d’altro canto, non appare affatto corretto identificarlo semplicisticamente come un’attività di formazione. Il coachee è il più delle volte una risorsa sulla quale l’organizzazione sta puntando nel contesto di un percorso di sviluppo o di riposizionamento mirato; in altre casi si tratta di soggetti che hanno necessità di un supporto esperto per direzionarsi o per utilizzare al meglio le proprie capacità. In ogni caso, il cliente del coaching è quasi sempre un soggetto che ha alle spalle una certa esperienza di lavoro e/o che ricopre ruoli di responsabilità.

Il problema del riconoscimento
A differenza degli psicologi, la cui acquisizione di competenze legate alla pratica della psicologia deve soddisfare gli standard specifici di un ordine professionale, la formazione dei coach non è ancora normata. Alcune associazioni offrono formazione in coaching manageriale che danno accesso a un accreditamento gestito da esse. Tuttavia, questi corsi di formazione rimangono opzionali, poiché l’esercizio del coaching non è limitato a coloro che sono stati accreditati. Pertanto, ad oggi, chiunque desideri dichiararsi un coach e offrire i propri servizi a un’organizzazione può farlo. In altre parole, significa che i profili di competenze dei coach possono essere molto variabili. Di conseguenza, le organizzazioni di riferimento dovrebbero attuare un rigoroso processo di selezione per i coach e, in attesa della professionalizzazione del coaching, spetterebbe alle organizzazioni di riferimento (in realtà alcune lo stanno facendo) creare il proprio quadro etico in cui il coaching manageriale potrà esprimere tutte le proprie potenzialità, conoscenze e valori. Ciò non è solo possibile ma necessario.

Le emozioni al lavoro: Onnipresenti e indicibili

Vittorio Tripeni, Psicologo del lavoro e delle organizzazioni

Manifestare emozioni al lavoro è da sempre ritenuto un segno di debolezza.

Anche ora. Gli interlocutori più benevoli, nel momento in cui qualcuno di noi lascia trapelare un minimo segnale dalla propria interiorità, direbbero che siamo troppo “sensibili”. Perché in azienda (un mondo “ideale” da attualizzare continuamente), occorre essere in grado di mostrare un comportamento razionale e obiettivo e allo stesso tempo tenere a freno le proprie emozioni.

Mi viene in mente, la situazione vissuta da un giovane collega, in un’azienda in cui aveva trascorso un anno come stagista nel dipartimento di ricerca e sviluppo. Ricorda che alla fine dell’anno, fu organizzato un brindisi di commiato e in tale occasione gli fu consegnato un dono che i colleghi stessi avevano acquistato attraverso una colletta. Sopra il pacchetto che conteneva quel dono, vi era stata posta una busta con il logo dell’azienda. Dopo i discorsi e i ringraziamenti di rito, prima dell’apertura del regalo, il mio collega aprì la busta contenente un assegno equivalente a tre mesi di stipendio e alcune parole di ringraziamento da parte del CEO. La gratificazione fu molto importante ed egli si commosse e pianse. Il commerciale dell’azienda proprio accanto a lui gli si avvicinò per sussurrargli all’orecchio: “Sei troppo sensibile, Mauro, troppo sensibile”. E, naturalmente, per Mauro il senso di colpa tentò subito di entrare in possesso della sua gratificazione.

 

Parlare di emozioni non è altro che mettere a fuoco l’esperienza individuale: il vissuto sul piano corporeo, affettivo e cognitivo. Vuol dire riconoscerci in ogni momento delle nostre relazioni, con noi stessi e con gli altri. Tuttavia, gli effetti della repressione delle emozioni possono trasformarsi in ulteriori tensioni di blocco emotivo che spesso sfociano in disturbi per la salute. Come nel caso di una signora che ho assistito. Paola, mi raccontò che non poteva fare a meno di scoppiare in lacrime quando si arrabbiava e faceva del tutto per evitare che questo accadesse in ufficio. Era molto brava a fingere che tutto andasse bene e reprimeva completamente i suoi sentimenti. Alla lunga, il suo stress aveva preso il sopravvento con la potenza di una serie di disturbi psicosomatici e Paola ha chiesto il mio aiuto da un punto di vista clinico e, successivamente, un sostegno in forma di coaching.

Dovremo imparare a chiederci qual è la portata sociale (ed economica) delle emozioni che d’abitudine consideriamo come un fatto intimo e privato ma che comunque rappresentano un fatto sociale, perché sono soggette a regole, possono essere apprese, sono un presupposto di conoscenze ed esperienze, nonché elemento che influisce sulle relazioni con le persone e in tutte le situazioni.

In che misura le emozioni possono ridefinire il senso della nostra identità e la identità professionale che definiamo nel tempo attraverso il rispecchiamento delle altre persone e, simmetricamente, l’essere del lavoro e delle organizzazioni?

Che cosa possono dirci della salute delle nostre relazioni in azienda?
E che cosa esse permettono di scoprire, osservare, ascoltare e comprendere, dal lato dell’analisi del lavoro reale?

 

Qual è il posto delle emozioni nei luoghi di lavoro? 

Non è possibile nasconderle o reprimerle perché, alla fine, le emozioni troveranno la via per farsi sentire. Accenno brevemente a un caso appena esaminato in consulenza. Alex e Giorgia sono soci di una Startup e lavorano nella stessa cercando ogni volta di accantonare le loro piccole irritazioni fino a quando – ahimè – diventano intollerabili. A quel punto manifestano tutto il loro disappunto nei confronti dei colleghi, oppure si rimbeccano a vicenda, talvolta esplodendo platealmente e creando molta confusione e uno sconcerto molto demotivante.
Non possono essere evitate … Tutt’al più – verrebbe da dire, con sarcasmo – possiamo fare a meno delle persone in azienda e sostituirle con i robot. Ma l’idea di rendere ogni attore dell’impresa un essere razionale al 100% non è realistico e tantomeno auspicabile. Ad esempio, senza emozioni non sapremo prendere decisioni. Le nostre reazioni emotive e persino i nostri sentimenti possono informarci sulle situazioni in cui ci troviamo e guidarci nelle scelte decisionali. Non saremmo nemmeno in grado di creare legami sociali, senza emozioni.

Propongo di accettare la sfida e accordare alle emozioni un posto importante tra gli asset aziendali. Sapendo che non sono un semplice fattore della produzione perché rappresentano un meta fattore, nel senso che la finanza, l’organizzazione o la tecnologia non esistono in sé, ma esistono le persone e le loro emozioni che fanno funzionare la finanza, la tecnologia, l’organizzazione.
Prendersi cura di esse e utilizzarle al meglio diventa ormai fondamentale anche per quelle organizzazioni del lavoro che credono solo ai numeri e alle tabelle dei dati. Le emozioni rappresentano una notevole fonte rinnovabile da investire nel corso delle continue trasformazioni delle strutture operative e del management.

 

Le emozioni fanno parte delle competenze professionali. 

In ambito professionale – e non solo – le emozioni influiscono tanto sul coinvolgimento (engagement) nel compito quanto sull’attività necessaria per svolgerlo. La loro regolazione è diventata una vera sfida, non solo per il management ma per tutte le attività che implicano competenze relazionali e tecniche-gestionali, la regolazione delle emozioni oggi è una competenza chiave, che riguarda la salute del professionista, la qualità delle sue prestazioni e, dulcis in fundo, la soddisfazione dei clienti.

Posso citare ad esempio un altro caso recentemente accolto durante un colloquio di consulenza in cui il cliente ha raccontato di essere stato nominato responsabile di una equipe di progetto perché aveva solide competenze tecniche e ha pensato che sarebbero state sufficienti per supervisionare il lavoro di squadra.
Sei mesi dopo ha dovuto implementare un cambio di organizzazione del lavoro all’interno del suo gruppo e ha dovuto affrontare gli umori, a volte distruttivi, dei suoi colleghi e la loro scarsa collaborazione, ma anche i tentativi di manipolazione e l’aggressività, a volte latente e altre volte chiaramente espressa.

La gestione delle emozioni è diventata una vera sfida per il management, in modo particolare per governare i cambiamenti, incoraggiare l’autonomia nelle equipe e nelle persone, agevolare le modalità di interfacciarsi all’interno dei team multiculturali o trasversali/interprofessionali. Di per sé l’emozione è il fulcro dell’adattamento e del coping che agevola le percezioni, le decisioni e le azioni per cogliere ogni opportunità che si presenta.

 

Che cosa insegnano le emozioni? 

Stiamo imparando che la gestione delle emozioni è fondamentale per lavorare bene, con soddisfazione e in sicurezza. Ma non solo nelle attività in cui “ci aspettiamo” che tutto ciò accada come ad esempio nelle attività di “servizio”. Saper gestire bene le emozioni è utile in tutte le professioni, soprattutto perché – ormai è chiaro – in ognuna è prevalente la funzione relazionale e gestionale per il raggiungimento degli scopi dell’impresa.

L’emozione è contagiosa e dato che non lavoriamo da soli, influisce sulle persone che ci circondano (anche a distanza) positivamente e negativamente. Inoltre, se lavoriamo da soli, anche le emozioni influiscono sul nostro lavoro condizionando spesso la qualità delle nostre performance.

Nei contesti di lavoro le emozioni influiscono sul coinvolgimento delle persone nelle attività che esse sono chiamate a svolgere e sull’investimento delle risorse (fisiche, psichiche e mentali) necessarie per portare a termine il compito.

Sostanzialmente, si tratta di reazioni delle quali, molto spesso, non si ha piena consapevolezza, che si manifestano attraverso esperienze soggettive (ciò che si “prova”), alterazioni fisiologiche e comportamenti espressivi, che possono incidere sulla abilità di governare gli imprevisti, le scelte e le decisioni, le iniziative nonché le relazioni (con noi stessi, con gli altri, con gli strumenti del nostro lavoro) e, di conseguenza, sulla nostra capacità di adattarci più o meno agevolmente alle necessità della vita o a determinate condizioni o situazioni che più o meno perentoriamente ci impongono un cambiamento.

Potremmo dire che esse rappresentano il “cuore” dell’attività umana. Nelle attività di lavoro le emozioni governano l’implicazione nel compito da svolgere e allo stesso imprimono efficacia all’esplicazione di capacità/competenze necessarie per portarlo a compimento. Danno gusto all’azione.

 

Perché svolgono un ruolo importante. 

Ogni emozione è in grado di rendere consapevoli le persone di come stanno affrontando la situazione in cui si trovano in quel determinato momento. Aiutano ad aiutarci. Mettendoci in contatto con le nostre personali rappresentazioni dei fatti e forniscono informazioni che consentono di analizzare i diversi problemi.

Oggi, mi dice il CEO di una grande azienda che ho l’onore di frequentare, le aziende impongono codici di comportamento, piani di welfare, documenti di dettaglio sullo smart working, imperativi sulla felicità … per garantire che la linea gerarchica funzioni in modo efficace, che sia anche rispettosa nei confronti dei dipendenti e della loro dignità e soprattutto fornire un’immagine “smart” del brand…  Ma non è possibile guidare o dare un senso ai comportamenti dei nostri dipendenti senza parlare di emozioni. Delle “loro” ma anche delle “nostre”, che consideriamo marginali o che rimuoviamo dalla nostra consapevolezza. Certo, non possiamo chiedere a un manager di essere uno “strizzacervelli”, ma imparare a conoscersi e conoscere meglio come “funziona” una persona al lavoro e quali sono le energie che alimentano il suo funzionamento, questo è fondamentale per gli interessi dell’azienda. Anche all’epoca dei robot e dell’intelligenza artificiale.

La necessità di esserci

Le attuali evoluzioni tecnologiche sono rappresentate dalla diversità, la continuità, la velocità e talvolta da una certa inesorabilità nella diffusione di innovazioni riguardanti tutti gli ambiti della nostra vita. Si tratta di una sfida importante per il management delle risorse umane e coinvolgerà tutte le persone perché implicherà un cambio di mentalità profondo e un nuovo modo di “essere” (da-sein) nell’effettività dei processi in atto.

 

Che cosa sta accadendo?
Che lo si voglia o no, il digitale 4.0 continua a produrre cambiamenti permanenti nelle pratiche professionali, nei modelli organizzativi e anche nelle regole del mercato.

Questa ri-evoluzione socio-economica, oggi soprattutto considerata dal punto di vista tecnologico delle applicazioni, è anche e specialmente una questione di persone, di donne e uomini, quelle Risorse Umane tuttora fondamentali nel mondo del lavoro, che vivono intensamente i radicali cambiamenti delle imprese e dei mercati.
Il ruolo del manager sta cambiando e i leader di domani hanno bisogno di imparare come ascoltare le persone e comprenderle, come padroneggiare l’arte del coinvolgimento di esse, perché essere leader nel vortice della trasformazione digitale dell’azienda non vuol dire solo essere presenti sui social network ma occorre soprattutto esprimere competenza nell’uso di tecniche di comunicazione appropriate all’interno dell’azienda. Il cambiamento più profondo che occorrerà realizzare, riguarderà la “trasformazione” delle persone attraverso processi di sviluppo che non riguardano tanto la formazione tecnica quanto la incorporazione di una cultura organizzativa e un modo di pensare al passo con i tempi che attualizzi le modalità operative che meglio rispondono alle sfide delle continue trasformazioni.

Occorre tener conto che i cambiamenti in atto non sono riconducibili solo alle nuove metodologie organizzative e gestionali e alle tecniche che le supportano, ma hanno a che fare con aspetti che riguardano le persone che lavorano, nel loro rapporto con la tecnologia, la società e più in generale con la realtà. È piuttosto evidente che uno degli aspetti critici che desta maggiore attenzione riguarda l’impatto di queste innovazioni sul lavoro e sulle persone che lavorano.

Il lavoro è cambiato, non è più lo stesso di prima, continua a cambiare e sta cambiando le persone ed anche i loro stili di vita.
La fatica fisica si riduce mentre tende a crescere la tensione mentale e lo stress. Cresce pure l’autonomia e la creatività del lavoro, a prezzo però di un’accresciuta instabilità e incertezza dei posti di lavoro. Aumentano le differenze professionali: quelle con retribuzioni che vanno verso l’alto e quelle – come ad esempio, lavori manuali tradizionali – che si trovano sempre più marginalizzate.

Sono cambiamenti che nella mentalità comune stanno delineando due grandi gruppi di pensiero: quello degli scettici o contrari, che rifiutano a priori ciò che sta accadendo, e quello dei convinti sostenitori della rivoluzione 4.0 che immaginano organismi sociali più in linea con il tempo presente, in grado di rispondere con maggiore efficacia ai bisogni dell’umanità.
Tuttavia il problema non è tanto quello di schierarsi da una parte o dall’altra, ma piuttosto di comprendere quello che sta accadendo e quali implicazioni possono emergere da questa ampia fase di rinnovamento.

Con la comparsa di nuove generazioni di tecnologie digitali e il susseguirsi di rapidi cambiamenti nelle organizzazioni aziendali, avvengono importanti trasformazioni nei luoghi di lavoro che richiedono alle persone una “presenza di spirito” (effettività) sempre attiva e desta.
Questa grande varietà di tecnologie, ci dice Luciano Pero (Sindacato Futuro in Industry 4.0 – ADAPT University Press, 2015), potrebbero aprire la strada a una grande varietà di formule organizzative, assai diverse dalla organizzazione dominante delle tre rivoluzioni industriali di fine ‘700, di fine ‘800 e degli anni 80 del ‘900 e sarà un ambio ventaglio di forme organizzative.
Probabilmente tutto ciò avrà un notevole impatto che apre anche una grande opzione per l’umanità del futuro. Perché come è già accaduto in altri periodi dello sviluppo industriale, ci sarà bisogno di addomesticare e di adattare ai fabbisogni reali le enormi potenzialità tecnologiche che avremo a disposizione. L’umanizzazione di queste nuove tecnologie può essere compiuta sia dal punto di vista dell’utente, quindi dal punto di vista delle persone che usano queste tecnologie, sia dal punto di vista di quelli che le producono. In pratica, da tutti coloro che ne verranno a contatto.

Cambiano i mercati, cambia il lavoro, cambiano le persone nella loro professionalità ed anche nei loro modi di vivere il cambiamento.
Il lavoro cambia profondamente e le tradizionali distinzioni tra lavoro manuale e intellettuale tendono a ridursi o a scomparire. I lavoratori non solo si troveranno a lavorare in condizioni di lavoro migliori (meno fatica, ambienti più salubri, garanzie sulla salute e la sicurezza al lavoro) ma anche a far fronte alla richiesta di un maggiore impegno intellettuale e un conseguente aumento di tensione mentale e di stress. Saranno impegni complessi di notevole impegno cognitivo, come ad esempio l’analisi dei guasti, di errori e anomalie, la soluzione di problemi. I tecnici, a loro volta, hanno informazioni e strumentazioni avveniristiche, ma devono anche operare direttamente.

C’è da dire che le trasformazioni sono ormai evidenti e hanno riguardato sia il contenuto del lavoro, sia le macchine e gli strumenti, sia soprattutto le relazioni interpersonali, la socialità e la cultura. Ma, come dice giustamente L. Pero, l’attenzione che il paese ha dedicato a questi cambiamenti sembra essere inversamente proporzionale alla loro profondità. Sui grandi mezzi di comunicazione c’è stata una sorta di rimozione del problema del lavoro che cambia. Il lavoro reale e i lavoratori in carne e ossa sono quasi scomparsi dalla televisione, sostituiti dai ruoli di successo nel mondo virtuale: i presentatori, gli attori e i divi televisivi, i calciatori, le modelle e le veline e così via.

Diventa necessaria un’attenzione consapevole nei confronti di questi fenomeni e un riconoscimento adeguato della dimensione umana del lavoro. Che tenga conto della necessità di ESSERCI (di essere) nel cambiamento e nella trasformazione del lavoro e della produzione dando un senso ai processi in atto e trasformando le risorse umane in relazioni.
In primo luogo è necessario comprendere le forme complesse del cambiamento e le lunghe catene che lo causano, cercando di trovare categorie interpretative moderne e adeguate ai problemi di oggi. Ad esempio quale è il nuovo contenuto intellettuale e relazionale del lavoro e cosa implica, oppure quale rapporto si sviluppa tra le scelte di mercato “mondializzato” delle imprese e le reti professionali e sociali che si creano tra i lavoratori.
Ci sarà anche l’occasione di consentire alle persone e ai lavoratori un maggiore controllo dal basso dello sviluppo delle tecnologie e dei modi di produzione. Con la prospettiva di attivare nuove forme di partecipazione diretta dei lavoratori per favorire il coinvolgimento e la fiducia delle persone impegnate nei processi produttivi.

Quali potranno essere esattamente le competenze necessarie per il futuro? Non è chiaro come sembra a prima vista. Le abilità relazionali, la collaborazione e le capacità interfunzionali potrebbero essere le più utili. I manager delle Risorse Umane dovranno creare un nuovo equilibrio e una fluida corrispondenza tra il contributo (fondamentale) dei dipendenti, il riconoscimento e il rafforzamento del loro impegno. Tenendo anche in considerazione che la relazione tra datore di lavoro e dipendente si costruisce sulla comprensione e sulla appropriazione da parte dei dipendenti del luogo e del ruolo dell’azienda nella società. Il loro impegno diventa la condizione di efficienza dell’azienda. E per questo l’azienda deve proporre un nuovo rapporto di lavoro basato sulla fiducia, l’autonomia e la responsabilità. La maggior parte dei compiti ripetitivi – sia per gli operai che per gli impiegati – sarà sempre più automatizzata/robotizzata, focalizzando le attività umane verso lavori iper-creativi e innovativi e verso attività in cui l’interazione umana è essenziale (consapevolezza desta, empatia, affettività, cura, convinzione, assunzione di rischi, capacità di prendere decisioni, autonomia, ecc.).

È ormai chiaro che nuove regole di comunicazione dovranno basarsi sulla condivisione continua e incessante delle informazioni. Attraverso gli strumenti rinnovati della comunicazione, l’azienda potrà sollecitare e mobilitare i suoi dipendenti attraverso lo sviluppo della cooperazione, del riconoscimento e della valutazione a 360° delle attività in essere.
Per gran parte dei compiti nel settore terziario, nel frattempo il lavoro è stato liberato dai limiti del tempo (orario di lavoro) e posizione (stabilimento, postazione di lavoro). Quindi il telelavoro, già presente, nelle attività intellettuali, si estenderà anche agli altri domini, in particolare attraverso gli oggetti connessi. Ciò richiederà maggiore considerazione sul tempo-spazio di lavoro e sul tempo-spazio della vita privata.

Bisogna tenere conto del fatto che la crescita dei collaboratori si realizza attraverso il lavoro. Ciò avviene per le opportunità di apprendimento che l’azienda è in grado di proporre. Le persone che lavorano si aspettano di imparare di più, di essere coinvolte nelle decisioni di alto livello e di progredire sia in termini di responsabilità che di retribuzione.
Offrire ai collaboratori delle opportunità di crescita è oltremodo motivante. Dimostra che l’azienda crede in loro, che li rispetta e ha a cuore il loro interesse. Trovare un modo per alimentare una passione con loro, rende il lavoro un posto dove i collaboratori vogliono e sono in grado di dare il meglio di loro stessi. Questo è il modo di esserci!

Perdersi e ritrovarsi

 

Capita di trovarci di fronte a una situazione difficile in cui non sappiamo cosa fare, come affrontarla, oppure non abbiamo gli strumenti necessari per intervenire in modo efficace su di essa, non possiamo agire in modo adeguato. Si tratta in genere di un evento, un compito o una prova che in quel momento è capace di fare emergere il limite delle nostre possibilità e che viene da noi vissuto con un certo grado di disagio.

Il segnale della nostra inadeguatezza si manifesta attraverso l’ansia che a sua volta sottintende l’indice della nostra fatica psicofisica o del nostro stress. Tutto questo capita quotidianamente: in famiglia, a scuola, al lavoro, ecc.

Quel momento in cui non riusciamo a raggiungere l’obiettivo, a realizzare cioè quel compito che abbiamo di fronte, può – in moltissimi casi – tramutarsi in una minaccia nei nostri confronti. Diventa un attacco alla nostra autostima, uno sconvolgimento della nostra zona di confort. E quando viviamo una tale situazione, abbiamo la possibilità di dire: “io mi sento minacciato da questa difficoltà e però posso lottare, posso far fronte alla minaccia contro la mia autostima”.

In linea del tutto schematica, nel caso mi trovassi nella situazione appena descritta, potrei prendere coscienza di quanto sta accadendo in due modi:
posso entrare in contatto con il mio corpo, attraverso il quale mi “sento” e “capisco” qual è la situazione al mio interno, valutando così le mie energie e le mie risorse (bisogna considerare però che tale situazione potrebbe essere vissuta anche come minaccia e in questo caso il “sentirsi” in tale stato può diventare l’anticamera dello stress).
Posso entrare in contatto con l’esterno, mi sintonizzo e valuto ciò che sta accadendo; per comprendere se il mio “potere” personale è sufficiente e adeguato ad affrontare la situazione. Vivrei pertanto l’evento come sfida e nel momento in cui vivo qualcosa come competizione, mi attivo in modo sicuramente positivo. Questo diventa il modo ideale per affrontare le cose, anche se naturalmente non possiamo sempre interpretare o re-interpetare gli eventi in termini di competizione.

Esiste tuttavia un rischio incombente, quello di voler vincere ad ogni costo, di superare con ingenuità e entusiasmo sprezzante il limite che si pone come sfida; e allora…

 

 

 

Ho ritrovato su alcune vecchie agende delle annotazioni che trovo ancora interessanti: brevi riflessioni, credo non banali rispetto al tempo in cui le ho scritte.
Ne ho scelto cinquantadue, risalenti al 2002, 2003 e 2004, con l’intenzione di proporre un motivo di ispirazione settimanale per il corso dell’anno.
Questa è la n. 17:
Perdersi e ritrovarsi (2003).

I multiformi volti della “famiglia” alla soglia del XXI secolo

Nel quadro delle profonde trasformazioni che in questi ultimi anni hanno investito i rapporti tra generazioni e quelli tra generi, la famiglia mononucleare, caratterizzata dalla coppia uomo/donna con figli, non rappresenta più la “normale” struttura entro la quale prendono corpo i legami primari. E’ attualmente necessario includere le forme nuovecoppie senza figli; famiglie ricostituite, con o senza figli di precedenti unioni; singles, uomini o donne, con figli; coppie di omosessuali, con o senza figli; immigrati, con eventuali “altri” stili di coniugalità; famiglie non di tipo coniugale; famiglie multiple; famiglie unipersonali; famiglie con uno dei coniugi pendolare o assente per lunghi periodi e/o residente altroveche la famiglia oggi può assumere, occasione di trasformazione della comunità sociale in cui le famiglie stesse sono inserite [1].

Tra le famiglie europee, la famiglia italiana è quella più legata alla tradizione, è quella che ha resistito maggiormente alle trasformazioni della modernità. La protratta permanenza dei giovani in famiglia (e, di riflesso, la loro ritardata uscita dalla casa dei genitori) è ormai considerato uno dei mutamenti principali della struttura familiare [2]. Le ultime generazioni di giovani sono più lente a lasciare la casa dei genitori [3]. Il fatto che nella nostra società, come negli altri paesi occidentali, si sia affermata la categoria sociale dei giovani adulti, rende manifesta una nuova condizione esistenziale, quasi una nuova fase della vita che vede la compresenza di aspetti di vita giovanile (dipendenza affettiva dai genitori, indefinitezza e dilazione dei propri progetti, ecc.) e di sfere di vita adulta (autogoverno del proprio tempo e delle proprie relazioni extra familiari, eventuale indipendenza economica e stabilità lavorativa, ecc.).

Limitandoci a considerare i fattori di ordine culturale, riscontriamo che nella maggioranza dei casi l’attenzione è rivolta soprattutto sui cambiamenti del rapporto genitori figli in senso più paritario, oltre che sui fattori strutturali. Va scomparendo il ruolo autoritario paterno, i rapporti sono più equilibrati e i giovani hanno più spazi di autonomia e di tempo, inoltre i genitori sono contenti della convivenza con i figli “quasi adulti” e desiderano che essi rimangano in casa. La famiglia è disposta a farsi carico dei figli molto a lungo, dando loro appoggio materiale ed affettivo, per garantire loro una base sicura da cui partire (con modalità diverse a seconda della classe sociale) [4] .

Cavalli e De Lillo [5] pongono in evidenza che la dilazione dell’uscita dalla famiglia sia frutto di cambiamenti culturali nelle relazioni genitori e figli, ma allo stesso tempo che tali cambiamenti siano stati resi possibili grazie al forte valore tradizionale attribuito ai legami familiari, soprattutto tra genitori e figli.

Ogni evento significativo, nello sviluppo dell’individuo e della famiglia, vada studiato quale parte del ciclo di vita familiare, più che di quello individuale, in quanto prodotto dei processi evolutivi dei sistemi di relazioni intra-familiari e intergenerazionali, che a loro volta vengono influenzati dagli esiti dell’evento che li coinvolge.
Faimberg e Corel, evidenziano che il figlio “per la propria sopravvivenza psichica, perde il libero accesso all’interpretazione del proprio psichismo e resta assoggettato a ciò che i genitori dicono o tacciono” [6].

La Kaes scrive che l’individuo assorbe, senza una sua adesione volontaria, soprattutto ciò di cui non si parla, attraverso divieti, rituali, abitudini e tutto quanto prende forma dentro di lui e vi resta in maniera indiscussa e invariabile. Solo se viene riportato a livello di coscienza, egli può rendersi conto dell’alta influenza che questo patrimonio ha nella sua vita:
… la famiglia di cui il bambino entra a far parte, predispone e consegna al nuovo venuto “segni di riconoscimento e di richiamo, assegna dei posti, presenta degli
oggetti, offre dei mezzi di protezione e di attacco, traccia delle vie di realizzazione, segnala dei limiti, enuncia degli interdetti” [7]. Aggiungendo anche che “Se i processi psichici di una generazione non si prolungassero nella generazione successiva, ogni generazione dovrebbe acquisire ex-novo il proprio atteggiamento verso l’esistenza, e non vi sarebbe in questo campo nessun progresso e in sostanza nessuna evoluzione” [8].

Ci ricorda Oliver Sacks che Ognuno di noi ha una storia del proprio vissuto, un racconto interiore, la cui continuità, il cui senso è la nostra vita. Si potrebbe dire che ognuno di noi costruisce e vive un “racconto”, e che questo racconto è noi stessi, la nostra identità.

Se nelle cosiddette società arcaiche tutto era connesso con tutto e l’individuo non era nulla al di fuori della famiglia, della tribù o della “città” di appartenenza, oggi registriamo un vero e proprio capovolgimento di questa prospettiva, così che da un lato la società si differenzia in innumerevoli sistemi parziali, dall’altro gli interessi e i bisogni individuali sembrano aver preso il sopravvento su qualsiasi dimensione Vorremmo essere, in primo luogo, autonomi e liberi da legami troppo impegnativi, ma in questo modo indeboliamo anche quel riconoscimento reciproco dal quale dipende non da ultimo la nostra identità [10]

Grande influenza, nella formazione del bambino, hanno i messaggi non verbali, comportamentali e gestuali; il bambino “legge” e registra quotidianamente le azioni dei genitori e soprattutto nei casi di incongruenza tra parole e fatti, di fronte ai silenzi o ai vuoti del non detto, tenta di darsi delle risposte da solo (Pagano, 2005) [11]

Cigoli [12] è stato il primo in Italia a mettere in luce questa realtà sostenendo l’esistenza di un reciproco vantaggio di tipo psicologico, tanto per i genitori quanto per i figli, nel perpetuare il loro rapporto di interdipendenza e di convivenza. Individuando un meccanismo di doppia identificazione negli atteggiamenti genitoriali, è riuscito a dimostrare che i genitori si identificano con i propri genitori (in quanto genitori), perpetuando il lavoro interno di riparazione in cui recuperano positivamente le figure genitoriali. Dall’altro lato, si identificano con i figli (in quanto sono stati figli) a cui cercano di dare di più di quanto hanno avuto loro e si autogratificano per questo. Realizzando così il loro ideale di rapporto, in quanto riescono ad incarnare l’immagine dei genitori che avrebbero idealmente voluto, auspicando allo stesso tempo che i figli vivano quella condizione che loro stessi avrebbero voluto vivere in quanto figli. Tutto questo disporrebbe i genitori a mantenere viva questa esperienza gratificante di “buona genitorialità” e – inconsciamente – a non incoraggiare l’uscita dei figli. In questo caso è evidente che dei buoni e soddisfacenti rapporti tra genitori e figli, pur essendo delle notevoli risorse evolutive per la famiglia e gli individui, possono diventare un ostacolo al distacco dei giovani dalla famiglia di origine, impedendo loro di vivere quelle positive tensioni alla trasformazione che portano dalla dipendenza all’autonomia.

L’aforisma di Oscar Wilde “è con le migliori intenzioni che il più delle volte si ottengono gli effetti peggiori” sembra essere perfettamente calzante all’evoluzione del rapporto fra genitori e figli in questi ultimi decenni. Risulta evidente anche da un recente studio pubblicato con il titolo “Modelli di famiglia” [13].

Basta osservare ciò che accade quando le famiglie tentano di risolvere i problemi in cui sono intrappolate. Ogni sistema familiare, usualmente, tende ad organizzarsi intorno a quelle interazioni che si riveleranno più utili al mantenimento dell’unità familiare ed a cercare relazioni permanenti. Di solito vengono privilegiate quelle relazioni che si accordano meglio con le convinzioni personali di uno o di entrambi i genitori.
Le ridondanze comportamentali e comunicative nell’interazione fra genitori e figli reiterate danno origine a modelli diversi di relazioni familiari. I modelli emergenti nella società italiana sono:
iperprotettivo : i genitori si sostituiscono continuamente ai figli considerati fragili e impediscono loro di crescere;
democratico-permissivo : i genitori sono amici dei figli, mancano di autorevolezza, sono saltate le gerarchie;
sacrificante : i genitori si sacrificano costantemente per dare il massimo ai figli, aspettandosi che i figli facciano lo stesso, ma essi a volte si imitano, a volte si mostrano ingrati;
intermittente : genitori incerti e disorientati, oscillano da un modello all’altro, sentendosi sempre più inadeguati a fronteggiare le sfide educative;
delegante : i genitori delegano ad altri il loro ruolo di guida (nonni, insegnanti) e non sono un valido punto di riferimento;
autoritario : i genitori esercitano il potere in modo deciso e rigido per mostrare che vince il più forte.) [14]

Sono due le tendenze nello stile educativo dei genitori italiani particolarmente frequenti e, sfortunatamente, dannose quando esse vengono estremizzate: la iper protezione e l’amicizia tra genitori e figli.
Purtroppo favoriscono la mancata assunzione di responsabilità e la realizzazione di personali progetti di vita sulla base di un eccesso di amore e protezione profusi dai genitori in maniera incondizionata, senza cioè alcuna pretesa che i figli se li meritino.

1. FRANCESCONI M, SCOTTO DI FASANO D., (1998) Divenire famiglia: nuovi scenari alla luce di nuovi bisogni, in: IORI V., RAMPAZI M., Strumenti n. 3, Storie di famiglie, Osservatorio Permanente sulle Famiglie di Reggio Emilia
2. DI NICOLA P., (1998) I mutamenti della famiglia dalla società semplice alle società complesse: nuove dinamiche relazionali; in: AA:VV, La famiglia. Trasformazioni, tendenze, interpretazioni, Centro Studi Giuridici sulla Persona, Roma, pag. 21-26
GOLINI A., (1998) Tendenze demografiche e tipologia della famiglia contemporanea; in: AA:VV, La famiglia. Trasformazioni, tendenze, interpretazioni, Centro Studi Giuridici sulla Persona, Roma, pag. 9-20
3. RIGHI A:, SABBADINI L., (1994) La permanenza dei giovani adulti nella famiglia di origine negli anni 80. Comunicazione al Convegno Internazionale “Mutamenti della famiglia nei paesi occidentali”, Bologna 6-8 ottobre 1994.
4. SGRITTA G: B:, (1990) La crescita dell’adolescente tra familiarizzazione e socialità limitata, Studi di Sociologia, 28, pag. 181-200
5. CAVALLI A., DE LILLO A. (1993), Giovani anni 90. Terzo rapporto IARD sulla condizione giovanile in Italia, Bologna, Il Mulino
6. FAIMBERG H., COREL A., (1989) Transmission et assujettissement, in Gros F.et Huber G., Vers un antidestin ?, Paris, Odile Jacob 1992, pag. 278
7. ibidem, pag. 19-20
8. ibidem, pag. 61
9. BELARDINELLI S:, (1996), Il gioco delle parti, AVE Roma
10. Belardinelli S, cit., pag. 57
11. PAGANO D., (2005), La questione intergenerazionale, in: http://www.vertici.it/rubriche/studi/template.asp?cod=8480
12. CIGOLI V., (1988) Giovani adulti e loro genitori: un eccesso di vicinanza? in: SCABINI E., DONATI P., La famiglia “lunga” del giovane adulto, Studi interdisciplinari sulla famiglia, Milano, Vita e Pensiero, pag. 63-84
13. NARDONE G., GIANNOTTI E., ROCCHI R., (2001) Modelli di famiglia, Ponte alle Grazie, Milano, 2001
14. GIANNOTTI E., ROCCHI R:, (2004) Le ultime evoluzioni nella famiglia italiana, Rivista Europea di Terapia Breve Strategica e Sistemica, n. 1/2004, Pag. 298-301