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A dieci mesi i bambini riescono a fare la differenza tra un oggetto animato e uno non animato

La comprensione del mondo intorno a loro sopraggiunge molto precocemente nella vita dei bambini, che secondo uno studio recente della Concordia University, sà, dai 10 mesi, fare la differenza tra la traiettoria “involontaria” di un oggetto in movimento e lo spostamento più ponderato di un’automobile o di un animale. Questo è un momento in cui i lattanti distinguono gli esseri viventi dagli oggetti inanimati, una capacità intellettiva di base che permette ai bambini molto piccoli di comprendere meglio il mondo che li circonda.

” Come sa un bambino che un cane può saltare sopra un recinto, mentre un autobus rimarrà al livello del suolo? ” Si è chiesto Rachel Baker, uno psicologo ricercatore alla Concordia University.

Il suo studio che ha seguito 350 bambini dai 10, 12, 16 e 20 mesi, ha valutato la capacità di fare una classificazione di cose animate o inanimate, una capacità che ha potuto valutare in questi bambini, attraverso l’analisi della traiettoria. Siccome i piccoli non hanno potuto esprimere la loro esperienza verbalmente, la ricerca hanno utilizzato la tecnica di assuefazione visiva che consiste nel misurare quanto il soggetto fissa l’oggetto con i suoi occhi. “È possibile valutare la conoscenza che possiede un lattante di un dato fenomeno  in base al tempo durante il quale egli osserva”, spiega Rachel Baker, “perché i bambini si interessano più a lungo alle cose nuove che a quelle che sono a loro familiari.

L’esperienza dimostra che sequenze animate singole di un autobus o di un tavolo che salta al di là di un muro trattengono l’attenzione dei bambini più a lungo rispetto alle sequenze più familiari. Tuttavia, i bambini saranno interessati anche a lungo da un gatto che salta su un muro o che rimbalza contro una parete, due sequenze dell’ordine del reale e del possibile.

In breve, dai 10 mesi, i bambini hanno già consapevolezza di eventuali comportamenti o movimenti possibili e si rendono conto che la traiettoria degli oggetti è più prevedibile di quella degli esseri viventi. Un altro elemento che ha attirato l’attenzione dei ricercatori, riguarda lo scrutare attento dei bambini piccoli che sono portati a “reperire più dettagli” e arrivare molto giovani, prima di sapere come esprimersi, ad una certa comprensione di animali, esseri viventi e oggetti.

 

K. Baker, , T. L. Pettigrew, D. Poulin-Dubois Infant Behavior & Development. Volume 37, Feb. 2014, pag. 119–129

Aumentano i crimini ai danni degli anziani. L’esigenza di un aggiornamento per i poliziotti si rende necessaria

L’imbroglio, l’inganno, il raggiro, con lo scopo di trarre profitto a danno degli altri, appartengono da sempre alla storia dell’umanità. Dal famoso serpente fino alle strategie illecite dei nostri giorni, che si rivelano attraverso molteplici forme.

Una variegata articolazione di truffe finanziarie, offerte di lavoro poco serie, vincite alla lotteria inesistenti, nipoti inverosimili che compaiono all’improvviso, phishing, Nigeria connection, pratiche commerciali scorrette, venditori porta a porta simili al gatto e la volpe  di Pinocchio. E altro ancora.

E’ unproblema che affligge tutta la società e che molto spesso rimane sottovalutato.

In particolare, le persone anziane, sempre più numerose, sono costantemente bersaglio di malintenzionati che cercano di approfittare della loro scarsa vigilanza. Ogni giorno si registrano vittime raggirate, imbrogliate e derubate. E l’attenzione normalmente è più centrata sul reato e sull’entità del danno, trascurando la la sofferenza diretta della persona.

Se da un punto di vista giuridico, si tratta del comportamento di “Chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri uningiusto profitto con altrui danno…“; di un’azione illecita che genera un detrimento o pregiudizio materiale (la perdita di un bene); raramente si tiene conto dell’impatto che l’evento delittuoso ha sulle vittime.

Si immagina, infatti, che la truffa sia un crimine meno violento di altri. Ma, come numerose ricerche hanno messo in luce, è minima la differenza tra gli effetti traumatici di un crimine violento e quelli di una “banale” truffa.

Le persone che hanno subito una truffa possono vivere soggettivamente un’esperienza simile a quelle di violenza o di abuso e, di conseguenza, provare sentimenti di colpa, vergogna, scarsa autostima, “rabbia”, umore depresso, isolamento e insensibilità sociale, giudizio morale negativo da parte di altri,sfiducia, somatizzazioni e disturbi di vario tipo.

Spesso, e penso soprattutto alle persone anziane, si patisce una doppia vittimizzazione: quella (primaria) direttamente in relazione con il comportamento dannoso e quella (secondaria) relativa alla stigmatizzazione da parte dei parenti e degli amici della vittima e anche a ciò che si vive nel corso delle indagini.

Molto spesso accade anche che, chi ha subito il reato, viva il proprio dramma nel silenzio assoluto e nell’isolamento, sviluppando nel corso del tempo problematiche psico-sociali molto più complesse.

La vigilanza dei parenti e degli amici risulta essere il migliore strumento di difesa, anche se esiste una cornice giuridica sufficiente a inquadrare le attività delittuose e a perseguire i reati che spesso non vengono presi in considerazione, perché non denunciati, oppure perché le denunce non possono essere adeguatamente supportate da prove atte a dimostrare la realtà dei fatti.

Secondo me, un’attività efficace di contrasto alla criminalità fraudolenta può essere realizzata attraverso lo sviluppo di una cultura di prevenzione articolata su piani diversi, quali ad esempio campagne di sensibilizzazione, con adeguate forme di comunicazione e informazione, per medici di base, operatori sociali e della polizia, oppure per la cittadinanza più esposta; corsi di formazione ad hoc per operatori sociali e della polizia; un adeguato supporto psicologico delle persone particolarmente vulnerabili; organizzazione di gruppi di auto mutuo aiuto; una conforme realizzazione di punti d’ascolto e sostegno telefonico, ed altro ancora, che in questa occasione ometto di citare.

Per quanto concerne l’intervento sui casi, ritengo di primaria importanza la qualità della presa in carico da parte della Polizia nel momento in cui la vittima denuncerà i fatti. In queste circostanze, un ascolto paziente e attivo volto innanzitutto al conforto della persona è fondamentale; possibilmente all’interno di uno spazio accogliente, tranquillo e rispettoso della intimità delle esperienze vissute; che offra sicurezza innanzitutto attraverso un ascolto cortese e rispettoso, tale da creare un clima di fiducia e confidenza.

Se adeguatamente preparati, gli addetti della polizia potrebbero essere in grado di fornire anche un primo soccorso psicologico, competente e umano, in grado di sostenere le persone senza essere intrusivi; valutare i bisogni e le preoccupazioni della persona; aiutare le vittime a soddisfare i loro bisogni primari e aiutarle a ottenere le informazioni per raggiungere i servizi e il sostegno sociale di cui hanno bisogno; proteggere le persone da eventuali nuovi danni.

Lo psicologo rimarrebbe a disposizione per i casi più complicati.

 

Più cervello meno muscoli nella guerra al terrorismo

Il soft-power e il cervello si stanno sostituendo progressivamente ai muscoli.

Credo sia questo il principio di un cambiamento culturale importante nelle attività di prevenzione e contrasto.

Romano Prodi, nell’articolo comparso ieri sul Messaggero, illustra l’argomento con la consueta perizia.

 

 

 

All’inizio del secondo mandato Obama aveva concentrato l’attenzione della sua politica estera sulla Cina  e sulle aree circostanti. Tutto il resto era secondario. L’Ucraina non era ancora arrivata ad un livello intollerabile di tensione e il Medio Oriente sembrava perdere l’importanza prioritaria che aveva avuto in passato. Gli esperti di politica internazionale pensavano inoltre che questa importanza sarebbe ulteriormente diminuita. Essa si era infatti sempre fondata su due pilastri indiscutibili: la protezione di Israele e la garanzia del rifornimento energetico per gli Stati Uniti.

 

Il primo obiettivo, anche se con un minore entusiasmo, rimaneva e rimane ma il secondo è uscito rapidamente dall’agenda, dato che le nuove risorse di shale-gas e di shale-oil stanno portando gli Stati Uniti verso un’indipendenza energetica nemmeno immaginata in passato. Un evento che non solo rafforza enormemente l’economia americana ma che sta producendo una diminuzione dei prezzi mondiali del petrolio pur in presenza di gravissime tensioni in molti Paesi produttori.

 

Un calo di prezzi che, se continuerà in futuro, metterà a dura prova anche l’economia russa, che ancora fonda una parte prevalente del bilancio dello stato e del commercio estero su gas e petrolio. A distanza di pochi mesi lo scenario è quindi cambiato. I problemi dell’oceano Pacifico sono ancora sul tavolo ma per ora non sono prioritari.

 

Le tensioni fra la Cina e i Paesi limitrofi (a cominciare dal Giappone) rimangono molto elevate ma si manifestano per ora più in espressioni verbali che non in atti di concreta ostilità. Come se la Cina egli altri Paesi dello scacchiere asiatico si fossero resi conto che le loro priorità sono ancora legate allo sviluppo economico e che quindi conviene raffreddare le tensioni o, addirittura, aprire nuovi canali di collaborazione, come sta avvenendo tra India e Cina.

 

Tutto questo non vuol dire che la competizione fra Cina e Stati Uniti non rimanga la grande sfida del nuovo millennio. Significa solo che la gara è stata rinviata perché, per il momento, prevalgono altri problemi ed altri interessi,

Il Medio Oriente è infatti di nuovo in prima linea non più per il petrolio (almeno da parte americana) ma per il ritorno dei sanguinosi conflitti ereditati dalla guerra in Iraq e dagli innumerevoli errori della passata politica, errori che hanno contribuito a dare vita ad un evento nuovo ed imprevisto, cioè la nascita del terrorismo con base territoriale. Un terrorismo che si fa Stato.

 

Tutti siamo al corrente di quanto sia pericolosa questa evoluzione e come grande sia la preoccupazione per una sua possibile espansione verso molti altri territori.

Minore riflessione è stata invece dedicata al modo con cui gli Stati Uniti sono costretti ad affrontare questa nuova sfida. Non certo scendendo di nuovo sul campo di battaglia. Prima di tutto perché l’opinione pubblica americana è stanca di combattere. Nel dibattito politico interno vi è ancora chi preferisce mostrare i muscoli ma, nella realtà dei fatti, nessuno è disposto ad assistere di nuovo alle cerimonie di ritorno delle salme dei soldati caduti nel lontano ed incomprensibile fronte del Medio Oriente.

 

Non essendo più in grado di pagare quest’altissimo prezzo, si usano strumenti meno rischiosi ma anche meno efficaci, come i bombardamenti aerei e il crescente rifornimento di armi alle coalizioni (più o meno amiche) disposte a combattere il terrorismo. Si è, a questo proposito, chiesta la collaborazione ad una quarantina di paesi e in primo luogo ai governi europei, che hanno reagito in modo cooperativo ma estremamente prudente, anche se la Francia si è più degli altri esposta inviando i propri jet a bombardare le postazioni dell’Isis. Ancora più prudente è stata la reazione dei Paesi arabi “amici”, alcuni dei quali continuano a mantenere un elevato livello di ambiguità anche di fronte a questa nuova espressione dell’estremismo islamico.

 

Nonostante questi comportamenti prudenti la nuova strategia di Obama si dedicherà sempre di più a chiedere un crescente impegno militare ai suoi alleati, impegno che, nel caso europeo, difficilmente potrà materializzarsi fino a che non ci sarà una politica estera comune.

Oltre all’interrogativo sulla risposta iraniana tre sono i maggiori ostacoli perché quest’accordo possa essere raggiunto. Il primo, del tutto ovvio, è quello di convincere l’opinione pubblica americana. Dopo tanti decenni in cui l’Iran è stato etichettato come il grande Satana non si tratta certo di un passaggio indolore.

 

Il secondo ostacolo, anch’esso non facile da fare digerire, riguarda la paura di Israele di essere abbandonato dall’ombrello protettivo americano. Senza questa riassicurazione difficilmente un qualsiasi accordo potrà andare in porto. Il terzo ostacolo si esprime nella necessità di concludere il trattato nucleare con l’Iran in accordo con la Cina e la Russia.

 

Inutile dire quanto questo sia difficile perché, anche se sbagliando, Russia e Cina possono pensare di avere interesse a tenere gli Stati Uniti impantanati ancora a lungo nel Medio Oriente.

Oggi, tuttavia, quest’accordo è possibile perché il nuovo terrorismo minaccia di espandersi ovunque e quindi fa paura a tutti, a partire dalla Russia e dalla Cina. Resta tuttavia fermo che, senza la firma di Russia e Cina, né l’opinione pubblica americana né Israele possono sentirsi rassicurati. Un fatto è quindi certo: la politica americana si sta allontanando sempre di più dalle solitarie prove di forza per fondarsi sulla diplomazia, le alleanze e gli accordi. Il soft-power e il cervello si sostituiscono progressivamente ai muscoli.

 

Solo con questa strategia Obama potrà affrontare con possibilità di successo anche la sfida con la Cina che, come egli stesso ha dichiarato, sarà il punto di riferimento della politica del secolo che stiamo vivendo. Non avendo per ora alcuna prospettiva che a questa grande gara partecipi l’Europa, ci limitiamo a sperare che questa sfida sia pacifica.

 

Fonte: Il Messaggero 21/9/2014

Se vince il modello americano

Trovo molto interessante e stimolante quanto scrive Daniele Tissone sull’ultimo numero di Rassegna Sindacale. Lo trascrivo perché è giusto riflettere su questi argomenti. Per capire meglio.

A capirlo per prima dovrebbe essere la politica, che dimostra ogni giorno di più di non conoscere quell’organismo delicato preposto alla sicurezza dei cittadini, il suo capitale umano, la psicologia delle sue donne e dei suoi uomini.

 

 

Probabilmente gli avvenimenti di Ferguson, Missouri, dove lo scorso mese di agosto l’uccisione di un diciottenne da parte della polizia locale ha causato diverse giornate di protesta, è la spia di un fenomeno molto più ampio e diffuso in tutti gli Stati Uniti e riguarda la crescente militarizzazione delle forze dell’ordine di quel paese.

In “Rise of the warrior cop” (La nascita del poliziotto guerriero), Radley Banko parla di un fenomeno che negli ultimi anni sta causando negli Usa grande dibattito: uno degli argomenti è la formazione di squadre speciali – le Swat – anche nei centri abitati che sono poco più di paesini, questione che ha fatto riemergere la retorica, vecchia di decenni, che la lotta contro il crimine sia una “guerra”, e che dunque vada gestita e combattuta come tale, anche se entrambi gli “schieramenti” in campo sono formati da cittadini dello stesso paese.

 

Al di là delle ingenti cifre che si spendono con la creazione di squadre di intervento, la militarizzazione delle forze di polizia negli Usa ha molti altri aspetti problematici. Le squadre Swat sono addestrate molto spesso damilitari in servizio, generalmente delle forze speciali dell’esercito.

 

“Nessuno ha preso la decisione di militarizzare la polizia in America – scrive Banko nel suo libro -. Il cambiamento è arrivato lentamente, il risultato di una generazione di politici e funzionari pubblici che hanno sventolato e sfruttato le paure diffuse dichiarando guerra ad astrazioni come il crimine, l’abuso di droga e il terrorismo. Le politiche che ne sono risultate hanno reso quelle metafore belliche sempre più reali”.

Questo è quello che accade negli States e fare oggi un paragone con il nostro paese rispetto alla situazione descritta può sembrare esagerato, ma siamo così convinti che, anche da noi e magari sulla base di alcuni dei presupposti fin qui esposti non si stia andando verso una simile direzione?

 

A questo proposito, un aspetto in particolare, che riguarda già da tempo le forze di polizia del nostro paese, preoccupa. Mi riferisco alla massiccia assunzione di personale proveniente esclusivamente dall’esercito, un ambito dal quale si prevede che nel 2020 proverrà oltre il 60 per cento del personale assunto nella Polizia di Stato, nell’arma dei Carabinieri e nella Guardia di Finanza, avendo il Parlamento varato una legge che, per oltre 20 anni, prevede l’ingresso nei corpi di Polizia di solo personale militare, spesso con esperienza presso i teatri di guerra e con già 4-5 anni di ferma volontaria alle spalle. Una lenta e graduale militarizzazione di apparati che hanno finalità ben diverse da quelle militari e che andrà, nel tempo, a modificare, inevitabilmente e sempre di più, l’intera organizzazione di quei corpi.

 

Tutto questo è un male, oltre che costituire un’anomalia del sistema, anche perché, senza demonizzarla, la provenienza militare reca con sé attitudini diverse dalla formazione di una Polizia civile come quella dell’attuale modello previsto dalla legge di riforma del 1981, che si incentra su un’autorità centrale di pubblica sicurezza con il compito di collaborare in pieno con i cittadini.

 

In relazione alle polizie locali non possiamo dimenticare come, in tempo di devolution, molte di esse – ma non in tutto il paese – si siano dotate di reparti specializzati, facendo ricorso a strumenti e mezzi in alcuni casi superiori a quelli delle forze dell’ordine nazionali. Penso a tanti comuni del Veneto o della Lombardia, ma non solo, dove abbiamo assistito a una vera e propria “metamorfosi” senza valutare mete od obiettivi e dove autoreferenzialità e ostentazione possono condurre a fenomeni incontrollabili.

 

Tutto ciò ci preoccupa non poco, perché la mission di un operatore della sicurezza deve essere cosa ben diversa dagli scenari dei teatri di guerra, nonché dal moltiplicarsi di polizie territoriali che mutano i propri obiettivi e le proprie funzioni.

E’ fuor di ogni dubbio chel’attuale scenario di crisi ha creato un vasto spazio di sofferenza, di ansia, rabbia e tensione, che si può affrontare con responsabilità e cultura riformista o che, al contrario, può rappresentare una grande opportunità di marketing della paura (dai manager della violenza di piazza alla Val di Susa, agli stadi).

 

Purtroppo, con la quasi totale assenza della politica, dimessasi da tempo dal suo ruolo di mediazione-composizione delle tensioni, le operazioni di marketing guadagnano terreno. Avvengono così due fenomeni tra la popolazione, che non percepisce le istituzioni al proprio fianco, lievita la rabbia; dal canto suo, la politica enfatizza il ricorso allo strumento di “compressione”. Salvo poi prenderne nettamente le distanze.

 

Dovrebbe essere scontato, alla luce delle nostre riflessioni e di quanto sta accadendo oltreoceano, che la Polizia avrebbe bisogno, soprattutto in questo momento, di segnali coerenti e in controtendenza con simili operazioni.

A capirlo per prima dovrebbe essere la politica, che dimostra ogni giorno di più di non conoscere quell’organismo delicato preposto alla sicurezza dei cittadini, il suo capitale umano, la psicologia delle sue donne e dei suoi uomini. I riflessi della recessione e delle tensioni su questo personale non andrebbero ulteriormente aggravati attraverso i continui blocchi contrattuali, il mancato sblocco degli automatismi, la scarsità di mezzi e tecnologie.

 

 

 

Se vince il modello americano

Daniele Tissone, segretario generale Silp-Cgil

Rassegna Sindacale, n. 32, 2014,pag. 6-7

Manca una cultura dell’attività di polizia

Dal caso Ruby al delitto di via Poma: 
lo sguardo dell’avvocato Nino Marazzita 
sulla giustizia italiana

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Il 27 gennaio il New York Times ha posto una domanda ai suoi lettori: cosa dice degli italiani la loro tolleranza nei confronti dell’edonismo di Silvio Berlusconi? Io, pochi giorni dopo, ho rigirato la questione all’avvocato Marazzita. “Dice che siamo un popolo che ha perso il senso civico”, mi ha risposto, con la prontezza di chi quella domanda se l’era già posta un milione di volte.

E come lo recuperiamo?


La gente si deve ribellare. Politicamente non c’è soluzione, perché la politica è nelle mani del Presidente del Consiglio. Berlusconi la spunta sempre, perché compra, illude, da. Ha una schiera di fedeli che lo difende con le unghie e con i denti. Quello che serve è una rivoluzione promossa da quella parte di società che ha ancora il senso della legalità, che non può più tollerare un governo incapace di intervenire sulle questioni importanti.

La cosa preoccupante, a mio avviso, è che la mentalità di moltissimi italiani è quella di Berlusconi: del resto non è stato eletto dal Padre Eterno, ma da tantissime persone che in lui vedono un modello da emulare, non certo da condannare. Interpellati sulle feste ad Arcore, in molti hanno risposto: “magari mia figlia partecipasse!”, “beato lui!”. Questo non lascia ben sperare.

Infatti questa storia del Rubygate non sembra aver intaccato più di tanto la sua immagine. In un certo senso, dopo Noemi e la D’Addario, è storia vecchia.
 Intendiamoci, Berlusconi non sarebbe il primo uomo a pagare una donna in cambio di prestazioni sessuali. Quando Gronchi, democristiano, era Presidente della Repubblica, c’era un viavai di donne al Quirinale che non aveva nulla da invidiare ad Arcore. Quello, però, era un uomo che aveva il senso dello Stato e che rispettava le forme. Non si è mai arrivati ad una simile deriva. Si diceva, si mormorava, ma in quell’Italia codina non si sconfinava oltre la dimensione del petegolezzo sussurrato.

Oggi, invece, quello che accade durante le feste di Berlusconi è sulla bocca di tutti e noi siamo oggetto di derisione da parte dei giornali e delle televisioni di tutto il mondo. Il problema è che siamo in un tale stato di arretratezza giuridica e costituzionale che la classe politica attuale risulta inamovibile. Da giurista penso che ci vorrebbe una repubblica presidenziale, perché più agile, più funzionale. Ma poi, se immagino che Berlusconi potrebbe diventare il Presidente, inorridisco: se siamo arrivati fino a questo punto con i poteri che ha ora, tutto sommato limitati, figuriamoci con quelli di Capo di Stato.

La magistratura è al centro del mirino di Berlusconi e dei suoi. Il premier ha definito le inchieste a suo carico “farsesche, degne della Ddr”. Lei pensa ci sia un accanimento nei suoi confronti?
 L’indipendenza della magistratura è la chiave di volta dell’indipendenza di un Paese democratico. La libertà può essere garantita solo dalla divisione dei poteri. Ma, come fanno notare i giuristi più sottili, se l’esecutivo e il legislativo sono due poteri che derivano direttamente dal popolo attraverso le elezioni, quello giudiziario è un ordine. 
Oggi, però, l’ordine giudiziario si è trasformato in un potere, che talvolta prevale sugli altri. Ma perché? Perché la politica è assente e la Procura è costretta ad agire, diventando un controllore etico. 
Il problema è che dopo la Prima Repubblica non si è creata una classe dirigente nuova, ma solo un rimescolamento di quella precedente. Non si parla neanche più di politica, ma solo di un vecchio satrapo incapace di gestire il governo e se stesso. 

Secondo lei ci sono squilibri nella situazione attuale? E’ necessaria una riforma della giustizia o va bene così com’è?
Nel sistema italiano uno squilibrio c’è: quello tra accusa e difesa. Il nuovo Codice di procedura penale, ad esempio, ha degradato la prova agli indizi: si può arrivare ad una condanna se gli indizi sono gravi, precisi e concordanti. Questo è un grosso passo indietro nella cultura giuridica, un danno culturale: prima un sospetto non dava luogo a nessuna iniziativa di tipo processuale e per emettere una condanna serviva una prova certa e assoluta. Qual è il risultato di questa modifica? Ci sono moltissime sentenze in più rispetto a 19 anni fa, quando è stato fatto il nuovo Codice. Ci sono più impugnative, più appelli, più ricorsi in Cassazione e, soprattutto, più revisioni di processi.

In quest’ultimo caso, ad esempio, c’è stato un cambiamento significativo. Una volta si poteva chiedere una revisione del processo solo se in possesso di nuove prove decisive, come una nuova e comprovata confessione. In questi anni, invece, la Cassazione ha considerato anche prove già valutate, ma integrate in un contesto nuovo. Le revisioni dei processi, del resto, aumentano perché si commettono più errori. Il rito inquisitorio precedente era sì arretrato e medievale, ma evidentemente queste carenze erano supplite dalla maggiore professionalità dei giudici, da una più spiccata capacità di capire, di valutare gli elementi probatori.

Mi fa un esempio di una sentenza emessa sulla base di soli indizi?

Un esempio è la condanna di Raniero Busco per l’omicidio di via Poma. In quel processo gli elementi, un morso e alcune tracce di Dna, non mi sembrano sufficienti per una verifica. 
Attenzione alla prova scientifica, non è così certa come si possa pensare. Anche la più semplice come il Dna presenta dei problemi: il Dna può essere preso male, gli elementi organici oggetto di accertamento possono essere contaminati. Quando la prova scientifica è esatta, poi, può essere al massimo un elemento di verifica. Busco era il fidanzato di Simonetta Cesaroni, quindi il fatto che il suo Dna sia stato rilevato sul corpo della vittima non sembra sufficiente per emettere una condanna. Lo stesso vale per il morso. E poi il movente? Il pubblico ministero l’ha ricostruito così: il giorno dell’omicidio la Cesaroni e Busco si spogliano e si mettono a fare l’amore. Da alcune lettere di Simonetta si evince che lei fosse molto innamorata, ma non ricambiata dal suo fidanzato. Simonetta, mentre era con Busco, arrabbiata per qualcosa che lui avrebbe detto, impugna un tagliacarte e inizia a minacciarlo. Busco, di fronte a questa reazione, avrebbe perso la testa e inferto 29 coltellate a Simonetta. Le sembra credibile? A me pare che un movente simile giustificherebbe il contrario, cioè che la persona respinta, in questo caso la Cesaroni, nutrisse sentimenti di odio.

A me, in sostanza, sembra che manchino prove concrete. Ci sono state troppe imprecisioni durante le indagini, troppi dettagli trascurati e poi ripresi anni dopo. I vestiti di Simonetta, ad esempio. Sulla scena del crimine non sono stati trovati perché, secondo l’accusa, erano serviti per pulire il sangue. Sei anni fa, però, in una trasmissione televisiva della Leosini un medico legale, uno dei migliori che abbiamo in Italia, ha dichiarato di essere in possesso di quei vestiti e di custodirli nell’Istituto di medicina legale di Torino. Che senso ha esaminarli anni dopo?

C’è, però, il problema dell’alibi di Busco, che il giorno dell’omicidio prima ha dichiarato di trovarsi con un suo amico, poi nel suo garage a lavorare sulla macchina. 
Busco è la prima persona ad essere sentita. Alle tre del mattino è alla Squadra Mobile che rende l’interrogatorio. Pare, però, che nessuno degli investigatori gli chiese mai l’alibi o, come ha dichiarato l’ex capo della Mobile Nicola Cavaliere, l’alibi venne chiesto verbalmente ma non fu mai verbalizzato. Gli fu chiesto nuovamente nel 2004, a 14 anni dall’omicidio: chi di noi saprebbe dire con esattezza dove e con chi si trovava un giorno di così tanto tempo fa?

Come ho già detto, gli elementi a disposizione sono troppo deboli. I raffronti sul morso sul seno di Simonetta sono stati fatti da una fotografia del cadavere, quindi non sono sufficienti a dimostrare che si è trattato di un episodio di violenza prima dell’omicidio e non un atto durante un precedente rapporto sessuale. Busco, poi, non aveva ferite addosso subito dopo il delitto. L’assassino avrebbe usato la sinistra, mentre Busco non è mancino. Con queste contraddizioni, in assenza di prove e di un movente, non si può emettere una condanna.

In questa tendenza, in cui l’indizio può essere una prova, le intercettazioni hanno un ruolo molto rilevante. 
I grandi fenomeni criminali non si possono combattere senza le intercettazioni. Certo, al momento in Italia si tende a farne un abuso. Per sapere se due persone si incontrano per organizzare un piano criminale, non c’è bisogno di intercettare tutte le persone con cui parlano. E’ tutta questione di buon senso, di misura e di capacità professionale. Sta al giudice capire se una parola è criptata o equivoca.

Ci sono dei casi in cui si commettono errori a dir poco grossolani. Prendiamo, per esempio, il caso di Yara, la ragazzina scomparsa vicino Bergamo. Il primo indiziato è stato un ragazzo marocchino, Mohammed Fikri. Durante una telefonata pareva avesse detto: “Allah mi perdoni, l’ho uccisa io”. Dopo il consueto processo mediatico, però, si è scoperto il malinteso linguistico: si trattava infatti, non di una confessione, ma di un’imprecazione. La persona a cui stava telefonando non rispondeva. Lo stesso è accaduto a Bari: un ingegnere francese e uno sceicco-imam siriano, in seguito ad alcune intercettazioni telefoniche, vengono arrestati con l’accusa di terrorismo internazionale. Per un errore di traduzione, il loro discorso relativo all’acquisto di una tonnellata di melograni, che in francese si dice “pommegranate”, era diventato un piano di attacco terroristico con granate. Il problema è che, nel nostro Paese, manca una cultura dell’attività investigativa. Come si cerca di ovviare? Con intercettazioni telefoniche a tappeto: tanto qualcuno prima o poi parla.

Pensa che se ne faccia un uso eccessivo?


Le intercettazioni devono essere concentrate. Nel caso di Berlusconi, i magistrati di Milano pare abbiano fatto molte ore di intercettazioni: è normale che la gente si ponga anche il problema del costo. In Inghilterra, la prima sentenza sul caso Calvi [trovato morto sotto un ponte sul Tamigi, n.d.r.] è stata quella di suicidio. Un secondo processo, però, dimostrò che si trattò di omicidio. Il giudice che emise la prima sentenza, allora, fu costretto a risarcire l’erario dei soldi spesi per un processo il cui esito fu poi smentito.
In Italia c’è stato un referendum per la responsabilità civile, per la quale l’82% degli italiani si è espresso a favore. Una legge, però, non è mai stata fatta. Io credo, invece, che una responsabilità civile ed erariale sia necessaria: se ti mettono ingiustamente in carcere, non devi risarcire solo la vittima, ma anche lo Stato che ha speso soldi in intercettazioni e agenti.

Alcuni sostengono che la pubblicazione sui giornali delle intercettazioni comporti un ingiusto processo mediatico prima di una sentenza effettiva. Lei cosa ne pensa?
Io penso che il dovere del giornalista sia far sapere, anche se talvolta finisce per essere controproducente. Il segreto investigativo serve a tutelare l’acquisizione delle prove. Guarda il caso dell’Olgettina: rendendo note le intercettazioni si sono avvertite tutte le persone coinvolte. Tanto è vero che Berlusconi le ha convocate tutte per organizzare una difesa: questo è un chiaro caso di inquinamento probatorio. 
Il problema è che, se venisse osservato il segreto investigativo, in un Paese in cui ci vogliono due anni per fissare un’udienza preliminare, le cose le verremmo a sapere molti anni dopo. Che senso avrebbe venire a conoscenza di Ruby nel 2013?

 

“In Italia manca una cultura dell’attività investigativa”

L’opinione dell’avv. Nino Marazzita

intervista raccolta da  Eleonora Fedeli

 

courtesy: Polizia e Democrazia, Gennaio-Febbraio/2011 – Interviste