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L’empatia salva il lavoro umano

 

Pubblico uno stralcio dell’articolo che gli economisti americani Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee hanno scritto per il numero 71 di «Aspenia» (La Grande Incertezza) in questi giorni in libreria.

E’ uscito sul Corriere della Sera di giovedì 10 dicembre 2015, pagina 40. con il titolo: I sentimenti che salveranno il lavoro – L’empatia salva il lavoro umano

 

 

Il dibattito sull’impatto che la tecnologia esercita sul lavoro, l’occupazione e i salari è antico quanto la stessa era industriale. Ogni nuovo avanzamento tecnologico ha scatenato il timore di una possibile sostituzione in massa della forza lavoro.

Un fronte vede schierati quanti ritengono che le nuove tecnologie rimpiazzeranno con ogni probabilità i lavoratori. Karl Marx definì l’automazione del proletariato una caratteristica necessaria del capitalismo. Nel 1964, all’alba dell’era dei computer, un gruppo di scienziati sociali inviò al presidente statunitense Lyndon Johnson una lettera aperta per ammonire che la cibernetizzazione «comporta una capacità produttiva pressoché illimitata, che richiederà sempre meno manodopera umana». Di recente, molti hanno sostenuto che il rapido progresso delle tecnologie digitali potrebbe lasciare per strada molti lavoratori – e questo è certamente vero.

Sull’altro fronte ci sono coloro che non vedono pericoli per i lavoratori. La storia è dalla loro parte: i salari reali e il numero dei posti di lavoro hanno conosciuto un aumento relativamente costante in tutto il mondo industrializzato sin dalla metà dell’Ottocento, anche a fronte di uno sviluppo tecnologico senza precedenti. Un rapporto della National Academy of Sciences del 1987 ne spiegava i motivi: «Riducendo i costi di produzione e abbassando di conseguenza il prezzo di un particolare bene in un mercato competitivo, il cambiamento tecnologico comporta spesso un aumento della domanda di produzione: una maggiore domanda genera un aumento della produzione stessa e quindi della manodopera necessaria a produrre quel dato bene».

Quest’idea ha fatto presa al punto che l’opinione contraria – ovvero che il progresso tecnologico possa ridurre i livelli di occupazione — è stata liquidata come lump of labor fallacy («l’errore della quantità fissa di lavoro»): sarebbe un errore perché non esiste una quantità statica di lavoro, dal momento che i lavori possono crescere all’infinito.

Nel 1983 l’economista premio Nobel Wassily Leontief rese il dibattito più popolare e pepato introducendo un confronto tra gli esseri umani e i cavalli. Per molti decenni, l’impiego dei cavalli era sembrato resistere ai cambiamenti tecnologici. Perfino quando il telegrafo aveva soppiantato il Pony Express, la popolazione equina degli Stati Uniti aveva continuato a crescere, aumentando di sei volte tra il 1840 e il 1900, sino a superare i 21 milioni tra cavalli e muli. Gli animali erano fondamentali non soltanto nelle fattorie ma anche nei centri urbani in rapido sviluppo, dove trasportavano merci e persone.

Poi, però, con l’avvento e la diffusione del motore a combustione interna, la tendenza subì una brusca inversione. Quando i motori furono applicati alle automobili in città e ai trattori in campagna, i cavalli divennero in larga misura inilevanti. Nel 1960, negli Stati Uniti se ne contavano ormai appena tre milioni. Se all’inizio del Novecento si fosse aperto un dibattito sul destino del cavallo, qualcuno magari avrebbe formulato una lump of equine labor fallacy, basata sulla resilienza dimostrata dall’animale fino ad allora. Ma la teoria si sarebbe dimostrata ben presto falsa: una volta affermatasi la tecnologia giusta, la sorte del cavallo come forza lavoro era segnata.

È possibile una svolta simile per la forza lavoro umana? I veicoli autonomi, i chioschi self service, i robot da magazzino e i supercomputer sono i segni premonitori di un’ondata di progresso tecnologico che alla fine spazzerà via gli esseri umani dalla scena economica? Per Leontief la risposta era affermativa: «Il ruolo dell’uomo come fattore fondamentale della produzione non potrà che ridursi, proprio come il ruolo dei cavalli». Ma gli esseri umani, per fortuna, non sono cavalli e a Leontief erano sfuggite alcune differenze, molte delle quali fanno pensare che l’uomo rimarrà un fattore importante dell’economia. Seppure il lavoro umano diventasse molto meno necessario, le persone, a differenza dei cavalli, possono adoperarsi per scongiurare l’irrilevanza economica

Il motivo più comune addotto per dimostrare che la quantità di lavoro non è fissa e immutabile è che i bisogni umani sono infiniti. In effetti, nel corso dell’intera storia moderna i consumi procapite non hanno fatto che aumentare.

Questa tesi, per quanto confortante, è erronea, perché la tecnologia può recidere il legame tra desideri infiniti e piena occupazione. Gli ultimi progressi lasciano intendere che non è più fantascienza immaginare miniere, fattorie, fabbriche e reti logistiche completamente automatizzate che riforniscono la popolazione di tutto il cibo e i prodotti di cui necessita. Molti servizi e lavori intellettuali potranno essere anch’essi automatizzati, dal ricevere ordinazioni all’assistenza clienti, all’esecuzione dei pagamenti. Forse in un mondo siffatto ci sarà ancora bisogno di esseri umani che sappiano ideare nuovi beni e servizi da consumare — ma non ne serviranno molti.

I bisogni illimitati non sono una garanzia di piena occupazione in un mondo dalla tecnologia sufficientemente avanzata. Dopo tutto, se anche le esigenze di trasporto degli umani crescessero all’infinito – e sono cresciute enormemente nel secolo scorso – ciò avrebbe scarse ripercussioni sulla domanda di cavalli.

A meno che, ovviamente, non ci rifiutiamo di farci servire esclusivamente da robot. È questa la barriera più solida contro un’economia totalmente automatizzata e il motivo più valido per cui la forza lavoro umana non scomparirà in un prossimo futuro. Noi siamo una specie profondamente sociale, e il desiderio di contatti umani si riflette sulla nostra vita economica. In molte delle cose per cui spendiamo i nostri soldi c’è un esplicito elemento interpersonale. Ci riuniamo, a teatro o allo stadio, per apprezzare l’espressività o l’abilità umane. I clienti abituali di un certo bar o ristorante vi si recano non soltanto per il cibo e le bevande, ma anche per l’ospitalità. Allenatori e trainer forniscono una motivazione che è impossibile trovare nei libri o nei video di esercizi. I buoni insegnanti trasmettono agli studenti l’ispirazione per continuare ad apprendere, psicologi e terapeuti stringono con i pazienti legami che li aiutano a guarire.

In questi e molti altri casi, l’interazione umana non è marginale bensì cruciale per la transazione economica. Anziché enfatizzare la quantità delle esigenze umane, sarebbe meglio concentrarsi sulla loro qualità. Gli esseri umani hanno bisogni economici che possono essere soddisfatti soltanto da altri esseri umani, e ciò rende meno probabile che facciamo la fine dei cavalli.

 

 

L’anti-terrorismo francese: uno stato di morte clinica

La critica può essere importante, illuminante, e anche fruttuosa. Molto spesso mostra aspetti del nostro agire che rischierebbero di rimanere trascurati e incompresi. E’ ciò che accade anche per i “servizi” e la storia raccontata può rappresentare lo spunto per riflettere sulla organizzazione del lavoro informativo.

Laurent Borredon e Simon Piel, giornalisti che seguono da vicino le attività di polizia e intelligence, hanno scritto un articolo su Le Monde (28.11.2015) che a tutta prima sembra impietoso ma non lo è. 

 

 

Il sistema dell’antiterrorismo francese, a lungo considerato eccellente, è clinicamente morto. Ma nessuno, né al governo né all’opposizione, ha voglia di firmare il certificato di morte, non sapendo come sostituirlo.

Man mano che le indagini sugli attacchi del 13 novembre a Parigi e Saint-Denis procedono, le lacune sulla sorveglianza degli autori, le pessime scelte operative e la pesantezza del dispositivo antiterrorismo sono, ancora una volta, messi in evidenza . Un investigatore, ancora ossessionato dalle immagini delle stragi di Parigi Bataclan e delle terrazze parigine, si indigna: “Allora non facciamo niente? Aspettiamo che ciò accada nuovamente?”

Ciò che scandalizza, è soprattutto la totale incapacità di porsi delle domande dentro il Ministero degli Interni e il governo. “Voglio salutare ancora una volta l’eccellente lavoro dei nostri servizi di intelligence” ha ripetuto Manuel Valls, di fronte ai deputati, il 19 novembre, dopo la morte a Saint-Denis del probabile coordinatore degli attacchi, Abdelhamid Abaaoud – che tuttavia il predetto servizio di intelligence credeva in Siria

 

Sentimento d’impotenza

Il sistema attuale è nato da un periodo in cui gli attacchi sono stati molto più numerosi, gli anni ’80. L’anno 2015 segna tuttavia una rotta tanto più brutale perchè Francia – esclusa la Corsica – era stata risparmiata dal terrorismo per un lungo periodo, dal 1996 al 2012. Cento e trenta morti nel centro di Parigi, tre commando coordinati, attacchi kamikaze, e un senso di impotenza di fronte alla progressione inevitabile della violenza nota, documentata, pubblicizzata.

Dal 2012 al 2015, c’è il caso Merah – sette morti, tra cui tre bambini uccisi a sangue freddo perché ebrei a Tolosa e Montauban – ci sono le lezioni apprese dai fallimenti dell’intelligence che l’assassino ha rivelato, e in special modo l’istituzione della Direzione Generale della Sicurezza interna (DGSI) e il rafforzamento del servizio informazioni territoriali, ci sono due leggi anti-terrorismo nel 2012 e 2014. E poi c’è il massacro di Charlie Hebdo e la presa di ostaggi dell’Hyper Cacher, il 7 e 9 gennaio, e la legge sulla raccolta delle informazioni, approvata dal Parlamento nel mese di giugno.

In sostanza, nessuna di queste riforme strutturali o modifiche legislative  – delle quali alcune si sono rivelate inutili, come la creazione di un reato di “attività terroristica individuale “ – ha cambiato i due pilastri della lotta contro il terrorismo: il reato di “associazione a delinquere in relazione a un’attività terroristica” e la raccolta delle informazioni accumulate all’interno dello stesso servizio. In origine, quest’ultimo doveva  consentire alla Direzione della sorveglianza territoriale (DST), divenuta direzione centrale informazioni interne (DCRI) nel 2008 poi direzione generale per la sicurezza interna (DGSI) nel2014, di mantenere un buon flusso delle informazioni al suo interno.

 

“Queste persone non danno tregua”

Nel caso degli attentati di Parigi, la DGSI stava seguendo un certo numero di indiziati come raccolta di informazioni. A partire da Abdelhamid Abaaoud. Questo belga,che appariva in cinque dossier di progetti di attentati in Francia, è stato anche coinvolto, in Belgio, nell’animazione della cellula terroristica di Verviers, smantellata nel mese di gennaio. La DSGI aveva avviato in itinere quella che viene chiamato “inchiesta specchio” in Francia. Un team congiunto franco-belga ha lavorato bene insieme. Invano.

Samy Amimour, uno dei kamikaze del Bataclan, era incriminato dal 2012 nel quadro diun’indagine penale aperta per un progetto di jihad in Yemen. L’inchiesta è stata affidata alla DGSI. Messo in libertà vigilata, egli scomparve senza che nessuno abbia mosso un dito fino a quando i Turchi hanno segnalato il suo passaggio sul loro territorio. Il lavoro di indagine è stato svolto, in particolare con perquisizioni presso i suoi genitori. E’ stato emesso un mandato di arresto internazionale. Fino alla strage del 13.

Nel quadro del suo ruolo investigativo, la DGSI è stata anche allertata sulle minacce dirette alla Francia. Così come, Reda Hame, arrestato ai primi diagosto di ritorno dalla Siria, che assicura che lo stato islamico colpirà “bersagli facili” come ad esempio dei “concerti”. “La DGSI ha certamente, come tutto il resto, inquadrato questi elementi. Queste persone hanno una strategia predatoria, anche attraverso le minacce che lasciano trapelare. Se ci mettiamo a ragionare in termini di potenziali obiettivi degli attentati e non in termini di reti, ci si esaurirà “, si difende una fonte vicina ai servizi diintelligence.

Oggi,alcuni credono che questo risvolto investigativo abbia contribuito al tracollo della DGSI. Nei servizi territoriali, gli agenti sono versatili e si ritrovano coinvolti nell’indagare ogni arrivo siriano. Il numero dei dossier dell’anti-terrorismo è quintuplicato tra il 2013 e il 2015, da 34 a188, e il numero di indagati da dieci è arrivato a più di 230 persone. Ciò vuol dire decine di indagini, arresti, atti di procedimenti …

 

Il fantasma di un controllo esaustivo

Fare tutto, sempre … Dal 2012, a ogni attentato, la stessa osservazione – Mohamed Merah era noto ma la sua pericolosità giudicata male, la sorveglianza dei fratelli Kouachi era stata interrotta perché non sembravano più degni di nota –scatena la stessa reazione politica nel momento meno opportuno. Invece di incoraggiare i servizi a controllare di più, i ministri che si succedono perseguono il fantasma di un monitoraggio esauriente – pur ricordando che è impossibile quando il peggio accade.

Dopo gli attentati di Charlie Hebdo e Hyper Cacher, è la creazione dello stato maggiore operativo di prevenzione del terrorismo, che centralizza sotto l’autorità del ministro le informazioni dei servizi e la creazione di dossierdei segnalati per la prevenzione e la radicalizzazione a carattere terroristico, che riunisce più di 11.000 nomi. Troppo per essere utile. “Gli agenti passano ore a riempire chilometri di pagine”, si lamenta un poliziotto.

Eppure, nella discrezione, la DGSI si è data i mezzi per definire meglio gli obiettivi da controllare. Negli ultimi mesi, la cellula “Allat”, dal nome di una dea siriana pre-islamica, si occupa di obiettivi della zona tra Iraq e Siria. Gli otto principali servizi francesi riuniti in una stessa stanza. “Ognuno porta i suoi obiettivi, ciascuno porta le sue annotazioni e può connettersi ai database. Il lavoro è estremamente operativo”, spiega una fonte.

Anchela DGSE, la sorella gemella della DGSI a livello internazionale, mette dunque le mani in pasta. Essa se l’era cavata a buon mercato dalla vicenda Merah, quando aveva perso il giro afghano-pakistano dell’omicidio di Tolosa. Nel caso degli attentati di Parigi, la DGSE ha almeno fornito informazioni, ma troppo tardi per essere utilizzabili. Durante il monitoraggio di un obiettivo in Siria, il servizio ha scoperto le conversazioni con una donna in Francia. Sconosciuta fino all’inizio di novembre, quando gli agenti si sono resi conto che sitrattava di una cugina di Abdelhamid Abaaoud, Hasna Aït Boulahcen.

La DGSI viene allertata e scopre anche, tardivamente, l’esistenza della famiglia francese di un suo obiettivo numero uno. Siamo al 12 novembre, alla vigilia degli attacchi. E c’è infine un testimone, dopo gli attacchi, che metterà la polizia giudiziaria sulle tracce di Ait Hasna Boulahcen e Abdelhamid Abaaoud – ambedue morti il 18 novembre, durante l’assalto del RAID in un appartamento di St.Denis.

 

“3000agenti per 4000 obiettivi”

E’ che questo lavoro di coordinamento, dopo anni di dialogo tra la miriade di servizi francesi, non è sufficiente quando la minaccia diventa transnazionale. “Sono organizzati in Siria, finalizzano il progetto in Belgio, arrivano quasi il giorno prima a Parigi. La DGSI rimane un servizio domestico, non può fare molto da sola … “, dice una fonte del ministero dell’Interno.

Il coordinamento europeo funziona, ma anche in quel caso, non è sufficiente in quanto si concentra sulla parte superiore del paniere. Eppure, gli autori degli attentati di Parigi erano conosciuti dai servizi belgi e francesi, ma non come persone di primo piano. I fratelli Abdeslam – Brahim si è fatto saltare in Boulevard Voltaire e Salah è in fuga – sono stati individuati in Belgio, ma non come una priorità, Samy Amimour è stato considerato uno dei meno pericolosi della sua cellula yemenita. Ismaël Omar Mostefai anch’esso kamikaze al Bataclan, era ritenuto secondario per la DGSI.

“La difficoltà, riassume una fonte vicina all’intelligence, è che bisogna essere allo stesso tempo su Yassine Salhi che da oggi al domani decide di decapitare il suo capo, e su Abaaoud. Ci sono 3000 agenti per 4000 obiettivi. E ancora, a Parigi e Saint-Denis, ci sono tra gli autori dei belgi e delle persone che noi non abbiamo ancora individuato. Non abbiamo strutture che sono state pensate per un fenomeno di massa. “

“Se l’indagine permette di evidenziare limiti o mancanze, ci si adatterà”, dice uno al ministero degli Interni. La piazza Beauvau difende anche le misure spinte dalla Francia a livello europeo. Il rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne dello spazio Schengen prima di tutto, perché un certo numero di terroristi sono stati in grado di passare attraverso la strada dei migranti sotto falsa identità. E poi la creazione di un database dei passeggeri aerei (PNR) europeo, vecchio serpente di mare che può essere visto meno sotto il diretto collegamento con gli attacchi, in quanto, per l’appunto, sembra che gli autori degli attentati abbiano seguito una via terrestre.

Ma, fino ad oggi, a destra ea sinistra, nessuno vuole porre l’unica domanda che ha senso, in uno spazio di libera circolazione delle persone: occorre europeizzare la lotta contro il terrorismo?

Se l’addestramento degli agenti non basta

Ho riscoperto tra le mie carte questa lettera a la Repubblica (16 settembre 2014) e relativa risposta di C. Augias, contenete elementi utili per una riflessione ulteriore.

 

 

Caro Augias, sono olandese, ho letto sui giornali italianidi quattro poliziotti colpiti e feriti da un senzatetto a Roma. 

Come mai è possibile ciò? Non addestrano i poliziotti al combattimento non armato? 

Ero un soldato della leva semplice in Olanda e abbiamo imparato tutti a incontrare un uomo armato con fucile, pistola o coltello. Si imparava ad agire automaticamente solo per riflesso. 

Capisco che magari un poliziotto dei quattro può essere colpito, ma tutti e quattro è difficile da capire. La stessa roba con il ragazzo Davide di Napoli, perché non si mira alle gambe? Forse nemmeno ipoliziotti in Olanda sono capaci di sparare con precisione ma posso dire che con molto allenamento io soldato di leva colpivo una scatola di fiammiferi a 20 metri. 

Credo che bisogna dare più occasioni di addestramento a quei poveri poliziotti.

(Henk Moraal)

 

 

La risposta di C. Augias:

L’episodio al quale il signor Moraal si riferisce è avvenuto a Roma il 10 scorso in piazza della Libertà, quartiere Prati. Un anziano clochard tedesco, Klaus Dieter Bogner, definito “squilibrato”, forse ubriaco, ha cominciato ad aggredire i passanti. Qualcuno ha chiamato il 112, è arrivata un’auto pattuglia dei carabinieri che l’uomo ha aggredito a martellate; all’arrivo di una seconda auto ha cominciato a vibrare coltellate ferendo in maniera grave un tenente colonnello e in modo più lieve gli altri tre militari.

La prima cosa che si può dire è che negli Stati Uniti al primo cenno di violenza l’uomo sarebbe stato abbattuto. In Europa le cose sono diverse, Bogner alla fine è stato arrestato con l’accusa di tentato omicidio.

Mi sono informato sulla questione sollevata nella lettera.

L’addestramento al corpo a corpo è molto impegnativo, richiede tempo, soldi, istruttori esperti. Per di più esige che gli agenti continuino anche dopo il corso ad allenarsi per proprio conto, altrimenti in poco tempo tutto diventa inutile. Solo i reparti di élite hanno un vero addestramento di questo tipo.

Tra la sbrigativa brutalità americana e i poveri carabinieri feriti da uno squilibrato non è facile trovare una via di mezzo.

Il caso del ragazzo napoletano, mi è stato detto, è ancora più complicato.

Gli uomini impegnati nelle zone a rischio lavorano in condizioni di tensione paragonabili a quella di un’azione di guerra, incerti se intervenire di fronte a situazioni di illegalità. 

Tre ragazzi su un motorino senza casco in una qualunque città sarebbe un caso quasi impensabile. Non in quel rione napoletano. 

I militari dovevano intervenire? 

Lei vede, ha continuato la mia fonte, la difficoltà della situazione? 

Aggravata dal fatto che la risposta deve arrivare nel giro di secondi e in condizioni così difficili? 

Che cosa scegliere tra il rispetto della legge e le obiettive anomalie locali?

 

(Corrado Augias)

 

fonte: la Repubblica, 16 settembre 2014, pag. 32

Lettera agli Insegnanti italiani

Trovo ancora fresca e attuale questa lunga e importante riflessione di James Hillman.

La lettera, scritta agli insegnanti italiani (in realtà, una conferenza), si ricollega ad una iniziativa nata nell’ambito del convegno mondiale sull’istruzione organizzato dalla Fondazione Liberal – Edizione 2003 (Milano, 14-17 maggio 2003)

 

 

 

I.

I miei pensieri oggi si reggono su una distinzione fondamentale che specificherò in questa frase iniziale: l’insegnare e l’imparare non devono essere confusi con l’educazione e possono persino essere impediti dall’educazione. Inoltre, se questa distinzione è fondamentale, allora sarà precedente ai progetti per la riforma dell’educazione, alla certificazione degli insegnanti, alle missioni e e agli scopi dei programmi educativi, ai contenuti dei curricula, e ad altri dibattiti che impegnano cittadini ed esperti.

La distinzione può essere posta in termini semplici e pratici. Qualcosa quasi naturalmente vuole imparare, specialmente nell’infanzia. Come usare una sega, cucinare un uovo strapazzato, ricordare i versi di una canzone? Dove va il sole quando scende “giù”? e dove sono i pettirossi d’inverno, e perché le anatre non annegano come i polli? Qualcosa dentro di noi vuole sapere dove, come, quando, che cosa. Porre domande è innato alla psiche umana. Un bambino fa domande agli insegnanti, ai genitori, agli amici, persino ai libri, per soddisfare la sete di apprendere, anche finoal punto di un comportamento ossessivo, ritualistico, dove “perché ?” si ammucchia su “perché?” su “perché?”.

Possiamo imparare ponendo delle domande, ma impariamo ancora di più osservando, ascoltando, imitando, sperimentando e assorbendo sensualmente il mondo che ci circonda. Il bambino, come facciamo noi stessi, tiene un occhio all’esterno e un cuore aperto per il dove e il che cosa e specialmente il chi può soddisfare questo desiderio d’imparare.

In corrispondenza con questo desiderio d’imparare c’è un impulso a insegnare, egualmente innato. Qualcosa, di nuovo piuttosto naturalmente, vuole rispondere a una domanda, dimostrare, spiegare, correggere.” Su dammi quello; lascia che ti mostri come si fa.” “Non tenere la sega così stretta. Lascia che siano i denti a fare il lavoro.” “La pioggia? Ebbene, noi facciamo la pioggia nella nostra stanza da bagno: guarda come il vapore del bagno fa delle piccole goccioline sulla superficie fredda dello specchio.”

La relazione fra l’imparare e l’insegnare è animale, naturale, data, dotata di ubiquità; non è tanto il prodotto della civilizzazione e della cultura quanto la loro base. La cultura chiama questa relazione tradizione; la civilizzazione, educazione. Comunque diamo forma a questa relazione, l’insegnante e l’allievo, la guida e l’apprendista, l’esperienza e l’innocenza, il sapere e l’ignoranza, il pieno e il vuoto sono costituenti costanti della vita interiore dell’anima. In quanto tali, appartengono non solo ai primi anni o alle prime fasi dell’indagine. La ricerca di un insegnante, di un insegnamento e il desiderio d’insegnare continuano in modo importante nella tarda vita . Uno dei momenti più miserevoli della tarda vita è quello in cui l’impulso ad insegnare viene frustrato: nessuno vuole ciò che si può insegnare.

Fra questi due impulsi e la loro affinità l’uno per l’altro viene l’Educazione. Immaginate l’Insegnare e l’Imparare come un fratello e una sorella, un poco perduti nel bosco, come Hansel e Gretel nella fiaba, catturati dalla strega, l’Educazione, e sempre sul punto di essere divorati dall’insaziabile appetito di quella strega. L’intervento dell’Educazione sembra piuttosto ragionevole: mira a facilitare la serendipità(1) della relazione rimuovendo la casualità e controllando il contingente. Soprattutto l’educazione esteriorizza e sistematizza la relazione nella”scuola” (istituzioni educative). Tenta di mettere in contatto i giusti (qualificati) insegnanti con i giusti (selezionati) allievi. Così l’insegnare e l’imparare divengono personificati in classi di persone: quelli che possono e quelli che non possono; quelli che sanno e quelli che non sanno. La vocazione innata diventa una professione accreditata. Il potere inevitabilmente fa seguito alla divisione in classi, che minaccia l’insegnare e l’imparare con la paura dell’”altro”. Gli insegnanti temono i loro studenti; glistudenti i loro insegnanti, minacciando l’educazione stessa e conducendola a definire il suo ruolo non tanto come uno strumento di agevolazione, ma come un’autorità impositiva. In questo modo l’educazione separa l’insegnare e l’imparare. Pure la storia dell’autodidatta mostra che i due elementi potenziali nella natura umana sono funzioni complementari. Quanto ciascuno di noi ha imparato e ancora impara insegnando a se stesso da solo!

L’educazione richiede un intero esercito di amministratori, esperti, specialisti; divisioni in classi, unità, soggetti, discipline, dipartimenti; conseguimento di traguardi, gradi, prove,valutazioni; e naturalmente bilanci preventivi, supervisione, responsabilità misurabile. Pure l’educazione si suddivide in due specie: primaria e superiore, tecnica e classica, scienze ed arti; riparatrice ed avanzata. Il misterioso lavoro emotivo di insegnare e imparare viene cooptato nelle forme esteriori che mirano a farlo avvenire. In verità, l’insegnare e l’imparare scompaiono in vicoli laterali e in occasioni segrete. Dei lunghi anni trascorsi nella scuola quanti pochi episodi di illuminazione conservati nella memoria, quanti pochi momenti di insegnamento che hanno acceso un fuoco! Anche per gli insegnanti solo una manciata di studenti da tante classi realmente “connesse” restano ben presenti nella memoria.

Potrebbe sembrare che la distinzione che sto tracciando segua un vecchio spartiacque fra ciò che William James – che fu lui stesso molto interessato all’insegnamento (Conversazioni con gli insegnanti,1899) – chiama le menti “dure” e quelle “tenere”. Questa divisione domina la teoria pedagogica come l’opposizione tra disciplina e libertà, tra il classico e il romantico, fra le nozioni del bambino come selvaggio e il vuoto bisognoso del battesimo e la disciplina o il bisogno innato assennato e creativo di opportunità ed espressione. Potrebbe sembrare che la mia enfasi sul desiderio istintivo di imparare e insegnare segua un lato di questo spartiacque, cioè il Romanticismo di Rousseau, Pestalozzi, Frobel, Montessori e Alice Miller, i quali tutti sottolineano l’elemento idiosincratico piuttosto che quello nomotetico, privilegiando l’individuale sulle necessitàcollettive della società.

Ma questa non è la mia intenzione. Io sfuggirei da questo spartiacque del tutto, perché la coppia insegnare-imparare, nonostante preceda l’educazione non può subire un’interpretazione letterale in un programma d’educazione. Io cerco di fuggire dalle ideologie che annunciano, o denunciano, programmi in ciascuna direzione: da una parte, modelli più duri di contatto intensificato fra insegnanti e studenti, o, dall’altra, una tenera educazione in classi collaborative e l’istruzione scolastica a casa. Se io optassi per un progetto diventerei un educatore, mentre sono solo uno psicologo. Cerco di descrivere ciò che giace nell’anima dell’educazione piuttosto che prescriverne la forma. Voglio solo che l’affinità innata fra l’insegnare e l’imparare, e l’idea di ciò come di un fatto primordiale, restino vive nell’anima.

L’educazione oggi assorbe il cinque per cento del prodotto mondiale nazionale lordo; l’educazione è la più grande industria del mondo. Enormi difficoltà stanno schiacciando le scuole nel mondo – l’enumerazione delle quali sta quasi schiacciando anche questa conferenza. Sebbene queste difficoltà appaiano nella psiche turbata di insegnanti e allievi, esse non sono radicate nell’insegnare e nell’imparare. Infatti l’immediatezza di quel rapporto è un porto sicuro, una salvezza dai problemi dell’educazione. Per la gioventù ci sono pochi rifugi, poche fughe dai problemi dell’educazione contro i quali c’è tanta ribellione, sia diretta – come il rifiuto della scuola, la violenza e i desaparecidos o scomparsi – sia indiretta, nei sintomi psicologici che ostacolano l’imparare, ad esempio “i disturbi dell’imparare”. Gli insegnanti, presi fra le richieste dell’educazione da una parte e la ribellione degli studenti dall’altra, sono in una posizione simile a quella di un medico verso il paziente, di un avvocato verso il cliente, di un giornalista verso la fonte, del prete verso il peccatore.

Sono obbligati dalla loro fedeltà alla loro coppia a stare con i loro studenti i cui sintomi rappresentano una resistenza a quel disordine generale dell’imparare chiamato “educazione”.

Immaginate! La psiche si ribella contro il vero imparare che una società guidata dall’economia insiste nel ritenere di primaria importanza. Devi ricevere un’educazione, avere un’educazione, perché allora sarai più vendibile, servendo l’economia e alzando il Pil. Ecco perché gli insegnanti sono risorse nazionali, fornire le loro prestazioni soddisfa le quote di produzione stabilite per loro! L’educazione come merce, come un investimento di capitale che serve alla competizione del liberomercato. E’ questo ciò a cui i sintomi dicono “no” ? E’ questo ciò che il rifiuto della scuola in definitiva significa?

Qualcosa si sta ammalando nel cuore dell’educazione; è malata nel cuore, e questo cuore non può essere ristabilito con semplici esercizi di base o con una nuova dieta dell’anima, né questo cuore può essere sostituito da una macchina ad alta tecnologia.

 

II.

Possiamo osservare il cuore dell’insegnare in azione in tre esempi tratti dalle biografie di scrittori distinti. James Baldwin il romanziere e saggista americano, ricorda: “un edificio scolastico…terribile, antico; scuro, cupo e a volte pauroso. In una classe di cinquanta bambini, per lo più neri, un’insegnante Orilla Miller – una giovane insegnante di scuola bianca, una donna bellissima… che amavo… in modo assoluto, dell’amore di un bambino”, riconobbe una qualità in questo bambino nero di dieci anni. “La giovane donna del Midwest era sorpresa dalla vivezza d’ingegno di questo bambino dei bassifondi”. Scoprirono un interesse comune in Dickens; lo leggevano entrambi ed erano ansiosi di scambiare opinioni. Anni più tardi, dopo essere diventato famoso, Baldwin scrisse alla sua vecchia insegnante, chiedendo una fotografia. “Ho tenuto il tuo volto nella mia mente per molti anni”.

Un altro resoconto; questo di Elias Kazan, lo straordinario regista cinematografico: “Quando avevo dodici anni ebbi un colpo di fortuna, l’incontro con la mia insegnante dell’ottavo grado, Miss Shank influenzò il corso della mia vita… Mi prese in simpatia… fu lei a dirmi che avevo dei begli occhi marroni. Venticinque anni più tardi, mi scrisse una lettera. ‘Quando avevi solo dodici anni’ scrisse ‘la luce cadeva dalla finestra attraverso la tua testa e la tua fisionomia e illuminava l’espressione del tuo volto. Pensai alle grandi possibilità che erano nel tuo sviluppo e …’. Miss Shank si avviò sollecitamente a sottrarmi alla tradizione della nostra gente riguardo al figlio maggiore e a indirizzarmi verso… le discipline classiche”.

Un terzo esmpio è quello di Truman Capote, un tipico “bambino difficile”, che faceva tutto quello che poteva per disturbare la classe e provocare i suoi insegnanti. Ma incontrò la simpatia della sua insegnante di scuola media, Miss Wood. Condividevano un interesse per Ibsen. Miss Wood invitò spesso il giovane Capote a cena, lo favoriva in classe e incoraggiava i suoi colleghi a fare altrettanto.

“Mi prese in simpatia” ha detto Kazan; “Ho tenuto il tuo volto nella mia mente per molti anni”, ha detto Baldwin; Miss Wood invitava Capote a casa per mangiare insieme e gli forniva ciò che desiderava in classe. Miss Shank “mi disse che avevo dei begli occhi marroni”, ha detto Kazan. Queste schizzi ci dicono che c’è un modo di valutare indipendente dagli esami. L’insegnare vede con l’occhio del cuore. Noi non crediamo più in questa specie di visione: “…la luce cadeva dalla finestra attraverso la tua fisionomia e illuminava l’espressione del tuo volto”. Ma al giorno d’oggi, forse specialmente negli Stati Uniti, vediamo solo con l’occhio dei genitali. L’attrazione che ha appassionato questi allievie questi maestri oggi sarebbe seduzione, manipolazione, persino abuso. Agli insegnanti è consentito di essere chiamati dalla bellezza; l’educazione permette che l’eros si risvegli?

Ma se dovesse risvegliarsi, allora l’eros non corromperebbe l’obiettività e l’eguaglianza?

Può darsi che proprio qui risieda la ragione più profonda dei computers all’interno dell’aula: essi sono completamente imparziali. Non c’è eros nel programma.

Niente eros neppure nell’accademia – una mancanza comune in istituzioni di istruzione superiore. I professori non ascoltano le lezioni degli altri, leggono i saggi degli altri. Borsisti e ricercatori non amano l’amministrazione; gli amministratori non amano i professori. Il personale è “di una classe più bassa”, persino al di sotto degli studenti. Gli studenti mettono in contatto i loro cuori affamati con la loro sete di conoscenza che sarà mandata via dalle vane preoccupazioni della facoltà, loro stesse in cerca di amore. La trappola sessuale diviene l’unico accesso all’eros nell’università.

Gli esempi di Baldwin, Capote e Kazan rivelano qualcosa di particolare riguardo all’eros dell’insegnare. Ciò che fece riunire le coppie, la reciproca attrazione, fu una visione comune. L’amore fiorì perché condividevano una fantasia. Per Baldwin e Miss Miller, Dickens; per Capote e Miss Wood, Ibsen e Undset; per Kazan, la visione di un futuro umanista. Essi percepirono la bellezza l’uno nell’altra e permisero la vicinanza. (Capote veniva a casa per cena; Miss Shank studiava il volto e gli occhi di Kazan; Miss Miller dava a Baldwin il suo tempo privato). Quando l’eros è represso cade inun’intimità clandestina. Pure impariamo attraverso la vicinanza – osservando le mani del maestro al lavoro, ascoltando le inflessioni vocali, contagiati dalla gioia del compito. Uno degli studenti di Socrate dice (Teagete 127 Bff): ” Ho fatto progressi ogni volta che ero insieme a te… e sono progredito più rapidamente e profondamente quando mi sono seduto vicino, accanto a te e ti ho toccato”. Mentre per l’educazione nello stesso passaggio (128B) Socrate dice: ” Non so niente di questo raffinato sapere dei Sofisti; io ho soltanto un piccolo corpo di sapere: la natura dell’amore (tà erotika)”.

E’ importante mantenere distinte nella mente le molte specie di eros. I filosofi della Chiesa potrebbero elencare una quarantina di specie di relazioni amorose, come i soldati in armi, i compagni in un viaggio, le suore in un ordine, il servo e il padrone, fratelli e sorelle, e naturalmente madri e figli, mariti e mogli. Ciò che in particolare il mentore divide con il suo o la sua protetta è un amore nato da una fantasia comune. La loro dedizione non è tanto per ciascuno come amanti quanto – in questi casi di scrittori – per la lingua inglese. I loro demoni sono in armonia, ciascuno aiuta l’altro a soddisfarsi. Insegnare e imparare sono necessari l’uno all’altro e, come Hansel e Gretel si salvano l’uno con l’altro. Così l’insegnante non è un genitore sostitutivo che procura allo studente i soldi per il pranzo e scarpe nuove. Miss Miller e Miss Wood e Miss Shank nutrivano le anime degli studenti e mettevano il fuoco nei loro spiriti.

 

III.

Prima di concludere questo discorso rivolto agli insegnanti mi piacerebbe rendere più chiaro un pensiero. Nonostante il titolo di questo Convegno, la base dell’insegnamento nel Ventunesimo secolo non è diversa da quella di qualunque altro, anche se il contenuto e la forma dell’educazione subiscono le esigenze della storia. Il fatto che l’educazione presti il suo corpo alla piazza del mercato nella nostra epoca, non è diverso dalla sua prostituzione alla dottrina politica nell’era di Stalin e Hitler, o Mao e Pol Pot, o alla Chiesa nella Francia della Scolastica, o all’ortodossia musulmana nelle scuole del Medio Oriente. All’insegnamento si chiede sempre di sottomettersi senza protestare di fronte ai dogmi educativi: lo testimoniano il destino di Socrate, la persecuzione degli insegnanti irlandesi nelle scuole di trincea durante la dominazione inglese. A causa del potere degli istituti educativi, il vero imparare, analogamente alla psicanalisi, diventa sovversivo. L’imparare deve nascondersi all’interno dell’educazione come abbiamo visto nei tre piccoli bambini e nei loro insegnanti, dove una corrente erotica lega in modo sovversivo l’insegnante e lo studente. Marsilio Ficino, uno dei più autorevoli insegnanti d’Europa di sempre, si riferì a questo imparare nascosto e sovversivo come contro-educazione. Noi impariamo ciò che è ufficialmente insegnato, e re-impariamo il contrario o ciò che sta più profondamente nel suo interno, vedendo in esso e attraverso esso, decostruendo, diciamo, con il chiedere ulteriormente: “questo materiale, questo metodo, questa ipotesi che cosa significano per l’anima?”. La contro-educazione interiorizza e individualizza, come ha detto Ficino, le uniformità dell’educazione. Individualizzare l’educazione, cioè collocare l’imparare all’interno dell’anima di qualcuno, esige l’eros, non perché l’individualizzare favorisce uno studente a scapito di un altro, il cosiddetto “prediletto dell’insegnante”, ma perché l’eros incendia il particolare stile di desiderio di ogni persona.

Con “uniformità” mi riferisco a modelli di prove, misure di intelligenza, gradazioni attraverso livelli, libri di testo uniformi, divisioni del tempo, architettura delle aule scolastiche, ecc. L’idea autentica dell’uniformità educativa, dell’universalità stessa, è stata radicalmente sfidata teoricamente da Howard Gardiner, a Harvard, e molto tempo fa da Giambattista Vico a Napoli. Per Vico i veri universali dai quali potevano essere derivati i modelli sono i miti classici, che ha chiamato universali fantastici, cioè i tipi archetipici che governano l’immaginazione e dai quali dipende lo stesso pensiero. Questi universali mostrano come la natura umana immagina i suoi problemi, viene a contatto con essi, ed effettua scelte di valore. Essi offrono un modo di pensiero umanista o quella che può anche essere chiamata una base poetica della mente che è capace di superare il nichilismo etico dell’educazione contemporanea e l’ottusità estetica travestitie rinforzati dal “metodo obiettivo”.

Così, seguendo Vico, la base archetipica della mente è un substrato sia di logica che di sogno, di scienza e di arte, di passato e di presente, di obiettività e di soggettività. Mentre Vico propone le molteplici persone e storie e valori dei miti nella loro immensa differenziazione, Gardiner mina l’uniformità dimostrando che l’imparare dev’essere molteplice perché l’intelligenza è molteplice. L’imparare e l’insegnare devono seguire una varietà di pensieri. Una dimensione non va bene a tutto. Anche la nozione di “misura” può essere liberata dalla sua angusta denotazione -significati matematici e statistici – per modi che tengono chi e perché e che cosa è stato misurato; per esempio, l’estetica, la narrativa, la morale o le capacità del corpo.

Ma ora sto andando oltre il mio semplice tema e sto trasgredendo nel campo delle idee educative, idee per rifondare l’educazione lungo linee che derivano da Vico e Gardiner, il che implica che il primo compito dell’educazione sarebbe di psicoanalizzare se stessa, di decostruirsi trovando i miti che suggeriscono i suoi programmi. Pure, qualunque cosa venga proposta da chiunque, dovunque, la techne e la praxis di tutti iprogrammi educativi, la realtà di ogni adempimento dipende dall’affinità naturale fra la coppia archetipica: l’Insegnante e lo Studente.

 

 

Nota

  1. Dall’inglese serendipity. Lo scoprire qualcosa d’inatteso e importante che non ha nulla a che fare con quanto ci si propone vadi trovare o con i presupposti teorici sui quali ci si basava. Il significato del termine trae origine dalla fiaba persiana I tre principi di Serendip, nella quale gli eroi protagonisti posseggono appunto il dono naturale ditrovare cose di valore non cercate.

 

James Hillman, 2002

 

 

Gli insegnati italiani furono invitati a rispondere alla lettera di Hillman inviando le loro considerazioni. Molte di esse sono state pubblicate sul sito Educazione & Scuola:

http://www.edscuola.it/archivio/ped/hillman.htm

 

 

 

Courtesy: Fondazione Liberal e Educazione & Scuola

I multiformi volti della “famiglia” alla soglia del XXI secolo

Nel quadro delle profonde trasformazioni che in questi ultimi anni hanno investito i rapporti tra generazioni e quelli tra generi, la famiglia mononucleare, caratterizzata dalla coppia uomo/donna con figli, non rappresenta più la “normale” struttura entro la quale prendono corpo i legami primari. E’ attualmente necessario includere le forme nuovecoppie senza figli; famiglie ricostituite, con o senza figli di precedenti unioni; singles, uomini o donne, con figli; coppie di omosessuali, con o senza figli; immigrati, con eventuali “altri” stili di coniugalità; famiglie non di tipo coniugale; famiglie multiple; famiglie unipersonali; famiglie con uno dei coniugi pendolare o assente per lunghi periodi e/o residente altroveche la famiglia oggi può assumere, occasione di trasformazione della comunità sociale in cui le famiglie stesse sono inserite [1].

Tra le famiglie europee, la famiglia italiana è quella più legata alla tradizione, è quella che ha resistito maggiormente alle trasformazioni della modernità. La protratta permanenza dei giovani in famiglia (e, di riflesso, la loro ritardata uscita dalla casa dei genitori) è ormai considerato uno dei mutamenti principali della struttura familiare [2]. Le ultime generazioni di giovani sono più lente a lasciare la casa dei genitori [3]. Il fatto che nella nostra società, come negli altri paesi occidentali, si sia affermata la categoria sociale dei giovani adulti, rende manifesta una nuova condizione esistenziale, quasi una nuova fase della vita che vede la compresenza di aspetti di vita giovanile (dipendenza affettiva dai genitori, indefinitezza e dilazione dei propri progetti, ecc.) e di sfere di vita adulta (autogoverno del proprio tempo e delle proprie relazioni extra familiari, eventuale indipendenza economica e stabilità lavorativa, ecc.).

Limitandoci a considerare i fattori di ordine culturale, riscontriamo che nella maggioranza dei casi l’attenzione è rivolta soprattutto sui cambiamenti del rapporto genitori figli in senso più paritario, oltre che sui fattori strutturali. Va scomparendo il ruolo autoritario paterno, i rapporti sono più equilibrati e i giovani hanno più spazi di autonomia e di tempo, inoltre i genitori sono contenti della convivenza con i figli “quasi adulti” e desiderano che essi rimangano in casa. La famiglia è disposta a farsi carico dei figli molto a lungo, dando loro appoggio materiale ed affettivo, per garantire loro una base sicura da cui partire (con modalità diverse a seconda della classe sociale) [4] .

Cavalli e De Lillo [5] pongono in evidenza che la dilazione dell’uscita dalla famiglia sia frutto di cambiamenti culturali nelle relazioni genitori e figli, ma allo stesso tempo che tali cambiamenti siano stati resi possibili grazie al forte valore tradizionale attribuito ai legami familiari, soprattutto tra genitori e figli.

Ogni evento significativo, nello sviluppo dell’individuo e della famiglia, vada studiato quale parte del ciclo di vita familiare, più che di quello individuale, in quanto prodotto dei processi evolutivi dei sistemi di relazioni intra-familiari e intergenerazionali, che a loro volta vengono influenzati dagli esiti dell’evento che li coinvolge.
Faimberg e Corel, evidenziano che il figlio “per la propria sopravvivenza psichica, perde il libero accesso all’interpretazione del proprio psichismo e resta assoggettato a ciò che i genitori dicono o tacciono” [6].

La Kaes scrive che l’individuo assorbe, senza una sua adesione volontaria, soprattutto ciò di cui non si parla, attraverso divieti, rituali, abitudini e tutto quanto prende forma dentro di lui e vi resta in maniera indiscussa e invariabile. Solo se viene riportato a livello di coscienza, egli può rendersi conto dell’alta influenza che questo patrimonio ha nella sua vita:
… la famiglia di cui il bambino entra a far parte, predispone e consegna al nuovo venuto “segni di riconoscimento e di richiamo, assegna dei posti, presenta degli
oggetti, offre dei mezzi di protezione e di attacco, traccia delle vie di realizzazione, segnala dei limiti, enuncia degli interdetti” [7]. Aggiungendo anche che “Se i processi psichici di una generazione non si prolungassero nella generazione successiva, ogni generazione dovrebbe acquisire ex-novo il proprio atteggiamento verso l’esistenza, e non vi sarebbe in questo campo nessun progresso e in sostanza nessuna evoluzione” [8].

Ci ricorda Oliver Sacks che Ognuno di noi ha una storia del proprio vissuto, un racconto interiore, la cui continuità, il cui senso è la nostra vita. Si potrebbe dire che ognuno di noi costruisce e vive un “racconto”, e che questo racconto è noi stessi, la nostra identità.

Se nelle cosiddette società arcaiche tutto era connesso con tutto e l’individuo non era nulla al di fuori della famiglia, della tribù o della “città” di appartenenza, oggi registriamo un vero e proprio capovolgimento di questa prospettiva, così che da un lato la società si differenzia in innumerevoli sistemi parziali, dall’altro gli interessi e i bisogni individuali sembrano aver preso il sopravvento su qualsiasi dimensione Vorremmo essere, in primo luogo, autonomi e liberi da legami troppo impegnativi, ma in questo modo indeboliamo anche quel riconoscimento reciproco dal quale dipende non da ultimo la nostra identità [10]

Grande influenza, nella formazione del bambino, hanno i messaggi non verbali, comportamentali e gestuali; il bambino “legge” e registra quotidianamente le azioni dei genitori e soprattutto nei casi di incongruenza tra parole e fatti, di fronte ai silenzi o ai vuoti del non detto, tenta di darsi delle risposte da solo (Pagano, 2005) [11]

Cigoli [12] è stato il primo in Italia a mettere in luce questa realtà sostenendo l’esistenza di un reciproco vantaggio di tipo psicologico, tanto per i genitori quanto per i figli, nel perpetuare il loro rapporto di interdipendenza e di convivenza. Individuando un meccanismo di doppia identificazione negli atteggiamenti genitoriali, è riuscito a dimostrare che i genitori si identificano con i propri genitori (in quanto genitori), perpetuando il lavoro interno di riparazione in cui recuperano positivamente le figure genitoriali. Dall’altro lato, si identificano con i figli (in quanto sono stati figli) a cui cercano di dare di più di quanto hanno avuto loro e si autogratificano per questo. Realizzando così il loro ideale di rapporto, in quanto riescono ad incarnare l’immagine dei genitori che avrebbero idealmente voluto, auspicando allo stesso tempo che i figli vivano quella condizione che loro stessi avrebbero voluto vivere in quanto figli. Tutto questo disporrebbe i genitori a mantenere viva questa esperienza gratificante di “buona genitorialità” e – inconsciamente – a non incoraggiare l’uscita dei figli. In questo caso è evidente che dei buoni e soddisfacenti rapporti tra genitori e figli, pur essendo delle notevoli risorse evolutive per la famiglia e gli individui, possono diventare un ostacolo al distacco dei giovani dalla famiglia di origine, impedendo loro di vivere quelle positive tensioni alla trasformazione che portano dalla dipendenza all’autonomia.

L’aforisma di Oscar Wilde “è con le migliori intenzioni che il più delle volte si ottengono gli effetti peggiori” sembra essere perfettamente calzante all’evoluzione del rapporto fra genitori e figli in questi ultimi decenni. Risulta evidente anche da un recente studio pubblicato con il titolo “Modelli di famiglia” [13].

Basta osservare ciò che accade quando le famiglie tentano di risolvere i problemi in cui sono intrappolate. Ogni sistema familiare, usualmente, tende ad organizzarsi intorno a quelle interazioni che si riveleranno più utili al mantenimento dell’unità familiare ed a cercare relazioni permanenti. Di solito vengono privilegiate quelle relazioni che si accordano meglio con le convinzioni personali di uno o di entrambi i genitori.
Le ridondanze comportamentali e comunicative nell’interazione fra genitori e figli reiterate danno origine a modelli diversi di relazioni familiari. I modelli emergenti nella società italiana sono:
iperprotettivo : i genitori si sostituiscono continuamente ai figli considerati fragili e impediscono loro di crescere;
democratico-permissivo : i genitori sono amici dei figli, mancano di autorevolezza, sono saltate le gerarchie;
sacrificante : i genitori si sacrificano costantemente per dare il massimo ai figli, aspettandosi che i figli facciano lo stesso, ma essi a volte si imitano, a volte si mostrano ingrati;
intermittente : genitori incerti e disorientati, oscillano da un modello all’altro, sentendosi sempre più inadeguati a fronteggiare le sfide educative;
delegante : i genitori delegano ad altri il loro ruolo di guida (nonni, insegnanti) e non sono un valido punto di riferimento;
autoritario : i genitori esercitano il potere in modo deciso e rigido per mostrare che vince il più forte.) [14]

Sono due le tendenze nello stile educativo dei genitori italiani particolarmente frequenti e, sfortunatamente, dannose quando esse vengono estremizzate: la iper protezione e l’amicizia tra genitori e figli.
Purtroppo favoriscono la mancata assunzione di responsabilità e la realizzazione di personali progetti di vita sulla base di un eccesso di amore e protezione profusi dai genitori in maniera incondizionata, senza cioè alcuna pretesa che i figli se li meritino.

1. FRANCESCONI M, SCOTTO DI FASANO D., (1998) Divenire famiglia: nuovi scenari alla luce di nuovi bisogni, in: IORI V., RAMPAZI M., Strumenti n. 3, Storie di famiglie, Osservatorio Permanente sulle Famiglie di Reggio Emilia
2. DI NICOLA P., (1998) I mutamenti della famiglia dalla società semplice alle società complesse: nuove dinamiche relazionali; in: AA:VV, La famiglia. Trasformazioni, tendenze, interpretazioni, Centro Studi Giuridici sulla Persona, Roma, pag. 21-26
GOLINI A., (1998) Tendenze demografiche e tipologia della famiglia contemporanea; in: AA:VV, La famiglia. Trasformazioni, tendenze, interpretazioni, Centro Studi Giuridici sulla Persona, Roma, pag. 9-20
3. RIGHI A:, SABBADINI L., (1994) La permanenza dei giovani adulti nella famiglia di origine negli anni 80. Comunicazione al Convegno Internazionale “Mutamenti della famiglia nei paesi occidentali”, Bologna 6-8 ottobre 1994.
4. SGRITTA G: B:, (1990) La crescita dell’adolescente tra familiarizzazione e socialità limitata, Studi di Sociologia, 28, pag. 181-200
5. CAVALLI A., DE LILLO A. (1993), Giovani anni 90. Terzo rapporto IARD sulla condizione giovanile in Italia, Bologna, Il Mulino
6. FAIMBERG H., COREL A., (1989) Transmission et assujettissement, in Gros F.et Huber G., Vers un antidestin ?, Paris, Odile Jacob 1992, pag. 278
7. ibidem, pag. 19-20
8. ibidem, pag. 61
9. BELARDINELLI S:, (1996), Il gioco delle parti, AVE Roma
10. Belardinelli S, cit., pag. 57
11. PAGANO D., (2005), La questione intergenerazionale, in: http://www.vertici.it/rubriche/studi/template.asp?cod=8480
12. CIGOLI V., (1988) Giovani adulti e loro genitori: un eccesso di vicinanza? in: SCABINI E., DONATI P., La famiglia “lunga” del giovane adulto, Studi interdisciplinari sulla famiglia, Milano, Vita e Pensiero, pag. 63-84
13. NARDONE G., GIANNOTTI E., ROCCHI R., (2001) Modelli di famiglia, Ponte alle Grazie, Milano, 2001
14. GIANNOTTI E., ROCCHI R:, (2004) Le ultime evoluzioni nella famiglia italiana, Rivista Europea di Terapia Breve Strategica e Sistemica, n. 1/2004, Pag. 298-301