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Qualità dell’organizzazione del lavoro e salute psicologica

Trovo ancora interessante questo articolo scritto per Risorse Umane in Azienda (Maggio/Giugno 2003). Mi sembra molto attuale.

 

Che il disagio psichico, la qualità dello stato d’animo, è concausa – se non fonte diretta – di malattia, è ormai risaputo da tempo. Il fatto che, anche negli Stati Uniti, un cospicuo numero di psichiatri abbia richiesto all’American Board of Medical Specialties che la psicosomatica venga riconosciuta a tutti gli effetti come branca ufficiale della medicina, ammanta ancora più di rispetto il dato di realtà. Naturalmente il legame tra buon umore, serenità, equilibrio e salute del corpo è stato già riconosciuto da diversi studi scientifici ed è un fondamento che anima i medici clown, ma anche le direzioni aziendali più avvedute. Stare bene vuol dire fare bene.

Quando i dipendenti sono soddisfatti del loro ambiente di lavoro e delle loro condizioni di lavoro, possono sentirsi maggiormente coinvolti e responsabilizzati in ciò che fanno e offrire servizi e prodotti di alta qualità alla clientela.

Le aziende a loro volta stanno imparando a non trascurare che l’incremento della produttività e la qualità dei servizi si trova sempre più in relazione con il morale dei collaboratori e il benessere (nei termini di salute e sicurezza) nel luogo di lavoro. Stanno apprendendo che quando investono sulla salute ed il benessere dei loro collaboratori ne traggono un beneficio in termini di qualità del lavoro, creatività e migliore servizio al cliente. Ed hanno appreso anche quanto sia importante contare – in termini di opportunità – sulle evoluzioni imposte dall’ambiente, per farne una vera leva di cambiamento, una reale opportunità per mobilitare le persone e la loro creatività; per concepire, con esse, una impresa intelligente e proattiva, flessibile e umana, redditizia e generosa.

La qualità del lavoro può influire direttamente sulla nostra salute fisica e mentale. Quando si parla di salute mentale al lavoro si fa riferimento al sentimento di benessere o di malessere psicologico ed emotivo che la persona sperimenta sul luogo di lavoro. La letteratura in questo caso mette in relazione specifici fattori di rischio psicologico con il rischio lavorativo (in relazione ai ruoli e ai compiti delle persone, in termini di quantità di lavoro, responsabilità, capacità o competenze, incertezze, priorità, processi spesso interrotti, ecc.) ed il rischio organizzativo ( conseguente a un conflitto di valori, a uno scarso coinvolgimento nelle decisioni, a una mancanza di riconoscimento e di rispetto da parte dei superiori e/o colleghi, alle limitate prospettive di carriera, alla scarsa autonomia decisionale, ecc.). A queste evenienze possono aggiungersi caratteristiche più individuali, che possono predisporre la persona a sviluppare un vero problema di salute psicologica. Ad esempio, è stato dimostrato che le personalità di tipo A, cioè le persone considerate come competitive, ambiziose, perfezioniste e che hanno bisogno di controllare ogni cosa, sono più soggette a problemi di salute mentale. Lo stesso si può dire per quei lavoratori che mettono in atto strategie di adattamento inappropriate; ad esempio quelli che consumano droghe o alcolici per tentare di diminuire la tensione psicologica o per alleggerire il proprio stato d’animo e “curare” il proprio stress.

Il lavoro può avere conseguenze dirette sulla nostra salute fisica e mentale; lo stress è senza dubbio il problema più comune che pone molto bene in evidenza lo squilibrio tra le risorse interne della persona e le richieste dell’esterno, alle quali l’individuo “deve” rispondere.

Nel corso degli ultimi anni, cambiamenti su larga scala di natura socio economica e tecnologica hanno influito in modo considerevole sui luoghi di lavoro ed alcuni cambiamenti che si ritengono di miglioramento – cito la recente ricerca sulla stress correlato al lavoro realizzata dall’Institute of Work, Healt & Organisations, dell’Università di Nottingam per conto dell’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro – per l’ambiente di lavoro “possono produrre l’effetto opposto”.

Cambiano le caratteristiche delle organizzazioni e dei settori di lavoro; cambiano i tempi di lavoro e i contratti di lavoro; cambia la organizzazione del lavoro, la presenza dominante delle nuove tecnologie imprime maggiore velocità ai cambiamenti; cambia la qualità e il genere dell’incidenza dei disturbi correlati al lavoro e all’organizzazione del lavoro.
Attualmente diventa sempre più evidente e straordinariamente importante il ruolo centrale della soggettività e della intersoggettività nei rapporti di lavoro e nelle organizzazioni. Emerge la necessità di trasformare le disfunzioni e gli elementi critici emergenti in esperienze pro-positive, avviare interventi di formazione e di ricerca adeguati alle mutate condizioni.

La psicologia e gli psicologi non sono esclusi in queste trasformazioni; la psicologia del lavoro non può esimersi dalle responsabilità che le competono e dall’accettare la sfida delle trasformazioni per apprendere dalle nuove esperienze e accrescere la cultura della Psicologia del Lavoro e dell’Organizzazione quale disciplina in grado di accompagnare concretamente le organizzazioni di ogni tipo e dimensione lungo un percorso di sviluppo continuo e di continue trasformazioni.

Il tema del cambiamento e quello delle società ultramoderne o ipermoderne, coinvolge anche gli psicologi del lavoro. Perché le “complessità”, i rapporti interpersonali che vengono vissuti in azienda, la crescita e lo sviluppo degli individui nel contesto produttivo e organizzativo, la qualità della vita delle persone e degli ambienti di lavoro, costituiscono un campo privilegiato per la psicologia del lavoro e dell’organizzazione.

Non si può trascurare che, ad ogni livello organizzativo, le persone soffrono pressioni nuove e particolarmente intense derivanti in vario modo dalle politiche di qualità e di eccellenza, dall’accrescimento di produttività, ecc. che vengono attuate attraverso l’utilizzo di “risorse umane” che fanno appello soprattutto alla mente e al mentale di chi lavora.

All’interno delle organizzazioni, le cause di tensione mentale e affettiva possono situarsi su differenti piani: la organizzazione del lavoro, la eventuale mancanza di risorse umane appropriate, le esigenze della clientela, il ritmo serrato dell’attività, le relazioni interpersonali, ecc.
La maggior parte di noi passa più di un terzo del suo tempo al lavoro e le esigenze reali del lavoro diventano sempre più importanti. La qualità della nostra vita è direttamente proporzionale alla qualità del nostro lavoro.

Con il convegno “Qualità dell’organizzazione del lavoro e salute psicologica” (Milano, 29 maggio 2003) vogliamo proseguire il nostro cammino di ricerca e di confronto coinvolgendo i colleghi della psicologia del lavoro e delle organizzazioni, i datori di lavoro e i direttori del personale, i medici del lavoro e gli altri professionisti interessati, in una giornata di studio affinché insieme si possa realizzare un confronto sereno e produttivo che giunga ad evidenziare la sostenibilità di interventi che, con il sostegno della ricerca scientifica nel campo del la psicologia del lavoro e delle organizzazioni, contribuiscano ad aumentare la qualità delle salute psicologica in ambito lavorativo ed organizzativo. Soprattutto alla luce della strategia comunitaria per la salute e la sicurezza 2002-2006.

La strategia comunitaria per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro, si conferma impostata sulla prevenzione e progettata a livello del benessere individuale, di quello organizzativo e sociale, con misure diversificate, interdisciplinari, capaci di affrontare i rischi tradizionali e quelli emergenti nelle aziende.
Lo scopo rimane quello di creare ambienti di lavoro che forniscano e facilitino un ritorno di benessere economico e sociale nonché un ritorno di vantaggi competitivi per le aziende.
Le indicazioni comunitarie confermano la importanza della qualità della vita lavorativa per il benessere delle persone e costituiscono uno schema di riferimento per accogliere una specifica domanda sociale di professionalità psicologica nei contesti di lavoro e per potenziare gli appositi servizi a livello aziendale.

Facendo riferimento a gli obiettivi che la Comunicazione della Commissione europea 2002/118 pone in primo piano e che, nel loro insieme definiscono un profilo di psicologo esperto dei problemi della sicurezza e della salute occupazionale, si possono schematizzare almeno le seguenti aree di attività psicologica:
a) essere in grado di effettuare una diagnosi della qualità e degli effetti del lavoro, a livello individuale, correlata al contesto di lavoro;
b) essere in grado di effettuare una diagnosi della qualità e degli effetti del lavoro, a livello di gruppo e di organizzazione;
c) essere in grado di identificare e di effettuare valutazioni dei rischi di natura “trasversale”, psicosociale, connessi con le specifiche situazioni di lavoro, cooperando con gli altri specialisti e funzioni aziendali deputati alla valutazione dei rischi e alla individuazione di misure di sicurezza e salute lavorativa;
d) essere in grado di effettuare valutazioni di rispondenza ai principi ergonomici degli strumenti di lavoro;
e) essere in grado di progettare programmi multidisciplinari di intervento preventivo e soluzioni correttive;
f) essere in grado di progettare e realizzare progetti di stress management, di counseling individuale e di gruppo;
g) essere in grado di progettare interventi informativi e formativi efficaci adottando le tecniche psicologiche più adatte ad attivare processi di apprendimento da parte degli operatori;
h) essere in grado di cooperare con gli altri specialisti allo sviluppo di programmi di promozione e di sistemi di comunicazione

Il tema della salute e del benessere al lavoro non si limita alla considerazione degli effetti negativi individuali, ma si connette con i numerosi fattori che incidono sulla qualità della vita lavorativa in una organizzazione
Lo sforzo di rispondere alle nuove domande sociali di qualità della vita lavorativa e di salute e benessere segnalate dalla Commissione europea può concretizzarsi in una nuova figura professionale che renderà progressivamente più articolata la categoria generale degli psicologi del lavoro e dell’organizzazione.
In tale contesto di riferimento il convegno trae spunto e si propone come momento di presentazione e diffusione di una cultura della prevenzione nel campo della salute mentale al lavoro alla luce della Psicologia del Lavoro e dell’Organizzazione.
Intende inoltre stimolare dibattito e riflessioni più ampie sui meccanismi che presiedono le scelte in questo particolare settore e sulle prospettive ed opportunità nuove che si aprono, a livello europeo, nazionale e delle singole Regioni, nell’attuale scenario normativo, politico istituzionale, economico e sociale, in forte evoluzione.

Gli aspetti psicologici del ruolo della polizia urbana e degli organi di vigilanza in situazioni di emergenza

Alcune premesse di carattere generale

Le grandi trasformazioni degli ultimi trenta anni che hanno coinvolto profondamente la nostra società (famiglia, scuola, lavoro, vita privata, vita sociale, ecc.) hanno fatto emergere il problema della “fatica mentale” e dei conseguenti disagi psicologici nel mondo del lavoro. Il fenomeno sta divenendo ogni giorno più rilevante in quanto aumenta la emergenza di bisogni sociali, personali e relazionali nei confronti degli operatori che lavorano, attraverso disturbi psicosomatici, conflittualità nelle relazioni e rischi di natura psicopatologica.

Laddove poi, l’emergenza rappresenta la quotidianità e non l’eccezionalità (ad esempio, nel lavoro delle forze di polizia), è ancora più evidente l’esasperarsi del problema, poiché gli lavoratori del settore sono a contatto continuo e diretto con la sofferenza e la vulnerabilità umana.

Se un tempo era comune esprimere la valutazione del proprio lavoro in termini di fatica, ora nella nostra quotidianità parliamo sempre di stress.
Mentre la fatica rappresentava uno “stato di indebolimento conseguente a uno sforzo eccessivo di natura fisica, oppure a un dispendio di energie profuse nelle nostre attività, lo stress rappresenta una condizione più complessa. Si tratta in questo caso di una reazione di tipo emozionale a una serie di stimoli esterni (problemi o difficoltà di diversa natura e complessità) che mettono in moto risposte fisiologiche e psicologiche di natura adattiva. Lo stress segnala un processo di adattamento; ma se gli sforzi del soggetto falliscono perché lo stress supera la capacità di risposta, l’individuo è sottoposto a una vulnerabilità nei confronti della sua salute psichica e fisica.

Fu H. Selye a definire lo stress “la risposta non specifica dell’organismo ad ogni richiesta effettuata ad esso”. Tale reazione difensiva e adattiva, denominata emergenza o anche sindrome generale di adattamento, è caratterizzata da una fase di allarme con modificazioni biochimiche ormonali, da una fase di resistenza in cui l’organismo si organizza funzionalmente in senso difensivo e da una fase di esaurimento in cui avviene il crollo delle difese e l’incapacità di adattarsi ulteriormente.

Promuovere la riflessione sulla qualità del servizio e, in primo luogo, sulla salute e della sicurezza nelle attività di lavoro, rappresenta un fattore essenziale per la prevenzione delle problematiche di natura fisica e psichica anche nei lavoratori della sicurezza e della salute.

Questo intervento formativo aiuterà i partecipanti a portare consapevolezza sul loro individuale modo di porsi in relazione, nelle attività di servizio ma anche fuori servizio, per far fronte alle difficoltà che possono incontrare nel confrontarsi con le proprie responsabilità di ruolo, i compiti, la organizzazione del servizio, nonché gli eventi critici e le persone che incontrano durante il loro lavoro.

La conoscenza dei fattori di rischio connessi a una determinata attività lavorativa costituisce indispensabile premessa a qualsiasi intervento preventivo.
Questo assioma trova riscontro in una serie di direttive comunitarie e, di conseguenza, nella legislazione italiana, a partire dal decreto legislativo 626 del 19 settembre 1994 e le successive modifiche e integrazioni.

Nel caso delle Forze dell’Ordine il processo di valutazione del rischio è reso difficoltoso dalla estrema varietà dei compiti e delle mansioni e dalla eterogeneità del personale.
La loro attività è certamente complessa e quindi soggetta a danni da stress, poiché comprende gli aspetti sfavorevoli legati alla vita sociale e alle comuni professioni, oltre agli aspetti determinati dalla specificità dell’attività, che di per sé è carica di eventi stressanti di diversa natura.

Secondo alcune statistiche nazionali gli operatori delle Forze dell’Ordine si sentono soli, demotivati, schiacciati da molteplici rischi, vanificati nei loro sforzi dalla facile messa in libertà di malviventi da loro arrestati con enorme fatica; essi cadono così facilmente vittime di stati di stress distruttivi.

Maggiormente portato a subire eventi stressanti risulta essere il lavoro del sottufficiale (o equivalente), a causa del ruolo intermedio che esso occupa, tra l’area decisionale e progettuale dell’istituzion, in cui opera, e l’area esecutiva. Tale ruolo risente di una doppia sollecitazione dall’alto e dal basso, alla quale il diretto interessato deve quotidianamente rispondere e che finisce per essere praticamente stressante.

La professione di tutore dell’ordine è caratteristicamente ad alto stress. Una delle fonti più importanti è il pericolo per l’incolumità fisica, connaturato alle attività volte a mantenere l’ordine pubblico e a combattere la criminalità. Il rischio di essere feriti o di perdere la vita in servizio richiede un continuo e usurante stato di vigilanza, poiché situazioni di relativa tranquillità possono esitare, in maniera imprevedibile e improvvisa, in situazioni estremamente pericolose.

Anche i ritmi lavorativi e gli orari di lavoro sono importanti cause di disagio: ben noti sono gli effetti della turnazione sui ritmi circadiani e biologici; tra questi si annoverano una peggiore qualità del sonno e una maggiore stanchezza e sonnolenza diurna, a loro volta responsabili di aumentato rischio infortunistico.

Tra gli aspetti extralavorativi stressanti non deve essere dimenticato il pendolarismo, a volte molto oneroso, e l’assegnazione d’autorità a destinazioni tali da costringere il lavoratore a una emigrazione forzata.

L’esposizione cronica a stress eccessivo può comportare una vasta gamma di conseguenze, comprendenti innanzitutto atteggiamenti di fuga dal lavoro (assenteismo, ritardo cronico, sonnolenza sul lavoro) e difficoltà nelle relazioni interpersonali (difficoltà a collaborare con i colleghi, rifiuto delle regole). Queste ultime si possono estendere anche all’ambito familiare, come testimoniato dall’elevata frequenza di divorzi tra i poliziotti.

Altre conseguenze sono gli eventuali comportamenti patologici, quali la tendenza all’isolamento sociale, gli atteggiamenti sleali, l’abuso di farmaci, alcool, tabacco o l’uso di stupefacenti. In particolare, l’alcool è uno dei mezzi più diffusi e più facilmente disponibili per fronteggiare situazioni di stress ed è spesso assunto dai tutori dell’ordine, a volte anche durante il servizio.

Lo stress può essere all’origine di manifestazioni psicosomatiche, che possono confondersi con patologie organiche da altra causa, e di disturbi d’ansia come irritabilità, insonnia, psicoastenia, appetito scarso o al contrario eccessivo, ansia, depressione. Quest’ultima è probabilmente responsabile (assieme alla disponibilità di armi da fuoco) della relativamente alta mortalità per suicidio tra poliziotti e militari segnalata in alcuni studi epidemiologici. A seguito di eventi drammaticamente violenti (come i conflitti a fuoco), non sono rari disturbi post-traumatici da stress.

Alle Forze dell’Ordine è spesso richiesto di reagire a situazioni drammatiche (es.: rinvenimento di cadaveri, arresti, esecuzione di sfratti, comunicazione di notizie luttuose) in maniera “impersonale”, celando le proprie emozioni e la propria sensibilità. Questa incongruenza tra doveri della professione ed emotività, se reiterata e profonda, può determinare in taluni soggetti un progressivo distacco dall’impegno lavorativo con disinteresse per il proprio compito, eventualmente accompagnato da sintomi di affaticamento e da disturbi psicosomatici, inquadrabile in una sindrome da burn-out.

Contribuiscono ad aggravare la demotivazione l’inquadramento in una gerarchia rigida e i contrasti con il sistema giudiziario, i media o la comunità, che possono alimentare nei tutori dell’ordine la frustrante sensazione di essere lasciati soli ad affrontare un compito impari.

È indubbiamente difficile trattare, in modo completo, il problema della tutela della salute degli operatori della polizia municipale e quello dei rischi connessi con le attività prestate: difficoltà che nasce essenzialmente dagli impieghi multidisciplinari e polifunzionali, che spesso si incrociano con le attività complesse degli operatori in condizioni di esposizione multifattoriale, non tralasciando le evenienze di impiego in condizioni critiche o addirittura pericolose, in disparate condizioni climatiche, in diverse situazioni di stress e di responsabilità. Dal punto di vista più didattico che pratico, la prima distinzione che si può fare riguarda principalmente la città ove il servizio viene svolto: nei grossi centri urbani le mansioni in linea di massima sono ben definite e stabili rispetto ai centri medio-piccoli in cui non lo sono e ove spesso la regola è il pluri impiego, con evidente sovrapposizione dei rischi dovuta alla esposizione a diversi fattori. (G. Trovato)

Nelle piccole realtà non si può perseguire l’obiettivo della specializzazione su argomenti, ma la generalità delle conoscenze per far fronte, a volte anche da soli, alle casistiche più disparate (F. Alovisi).
Va citato anche lo stress che si accumula nel continuo ed incalzante rapporto con l’utenza: un’utenza sempre più pretenziosa e meno incline a risolvere i conflitti in via ragionata e civile; “un’utenza anche sempre più desiderosa di vedere sulla graticola il pubblico dipendente che non l’ha ascoltata e velocemente esaudita” (F. Alovisi).

La domanda di sicurezza della gente richiede concrete ed immediate capacità di risposta con compiti di sostegno e di controllo più che di repressione. Tali fattori a cui aggiungiamo l’imprevedibilità e il cambiamento repentino del lavoro, il rischio connesso a taluni interventi, i ritmi stessi del lavoro spesso turnativi come in talune mansioni (il pesante lavoro notturno!), i rapporti con i superiori e con l’autorità giudiziaria spesso conflittuali, i rapporti con la gente, le scarse gratificazioni, possono determinare condizioni peggiorative dello stato anteriore e psicologico del lavoratore.

Nelle più contenute realtà comunali di Provincia, la stragrande maggioranza del territorio Italiano, l’approccio fra l’Operatore di Polizia e il cittadino o l’utente della strada in genere, con quel gruppo cioè che egli esprime, è ancora più diretto. Qui davvero l’occhio Vigile dell’Operatore di Polizia Municipale ha un’attenzione davvero particolare e immediata. Questo, se da un lato costituisce una grande ed insostituibile risorsa sotto il profilo della informazione e del monitoraggio, dall’altro è motivo di stress operativo e di incertezza comportamentale, fattori che senza dubbio influiscono nell’animus e nel modus operandi del Vigile Urbano. (F. Alovisi)

Non possiamo trascurare quell’oneroso compito “di essere sempre e comunque interfaccia di una Pubblica Amministrazione che comprende dallo Stato centrale alla più particolare Autonomia Locale, e che se per il cittadino poco importa il fattore competenza o a volte un non lineare collegamento fra Istituzioni, va per lui stesso e per il suo bisogno, ad individuare certamente e chiaramente in quel Vigile Urbano che egli conosce il suo bersaglio ove indirizzare le frecce delle sue esigenze” (F. Alovisi).

Si spiega chiaramente perché chi è chiamato a svolgere un servizio sociale ed un servizio per conto di un’enormemente più grande realtà che rappresenta, non può considerare il nostro mestiere come un altro (F. Alovisi)

Il problema della qualità delle prestazioni operative che si trova in stretta correlazione con la qualità della salute psichica delle donne e degli uomini che lavorano, è di estrema importanza (P. Fortezza). Tale problema va affrontato con un approccio metodologico sistematico, completo ed integrato, con diversi livelli d’intervento, seguendo una metodologia ben ponderata come ad esempio quella che attualmente in opera presso alcuni corpi di soccorso e difesa civile nazionali :
1. prevenzione primaria, come attività di organizzazione salutare del contesto lavorativo (ad es. non conflittuale..) e di formazione, svolta in tempi di non-emergenza, tesa a sensibilizzare e a far conoscere non solo i rischi psicologici del soccorso, come lo stress, ma anche le risorse umane naturali e difensive di ogni soccorritore, gli aspetti relazionali, motivazionali …;
2. prevenzione secondaria, come supporto psicologico di base nell’immediato di eventi critici e ad elevato impatto emotivo, con incontri di sostegno di gruppo e individuali;
3. prevenzione terziaria, come attività di assistenza psichiatrica e psicoterapeutica finalizzata alla comprensione del disagio/disturbo presentato ed alla sua risoluzione.

Non dimenticando comunque, in fatto di prevenzione primaria per le forze di polizia, che l’abituale e semplicistica visita psico-attitudinale degli operatori andrebbe supportata da un accertamento psicodiagnostico in grado di rilevare efficacemente segni di disturbo o di sofferenza psichica (G. Scarpa, A.M. Scarpa).

Recenti studi hanno appurato che lo stress non è dovuto non tanto alla qualità degli stimoli (buoni o cattivi) che l’organismo riceve, quanto all’intensità del bisogno di adattamento che essi attivano. Non solo l’eccesso di stimolazioni provoca stress, ma anche la loro carenza. Se le sollecitazioni o le richieste da parte delle circostanze sono proporzionali alla capacità di risposta dell’organismo, si produrrà uno stress positivo; mentre se le sollecitazioni eccedono rispetto alle risorse dell’organismo, si verifica uno stress negativo che potrà essere accompagnato da reazioni emotive (tristezza, irritazione, rabbia, ecc.); insieme a reazioni comportamentali (scarsa concentrazione, perdita di memoria, calo di rendimento, ecc.) e sintomatologie fisiche. Oltre a un generale impoverimento del senso di autostima e dall’aumento del senso di impotenza.

Le strategie che l’individuo pone in essere per far fronte a situazioni di stress, vengono definite coping, un termine anglosassone che in italiano potrebbe essere tradotto con “capacità di riuscire a far fronte efficacemente all’evento ” ; strategie che mettono in luce il tentativo della persona di non soccombere alle pressioni delle circostanze o degli eventi critici. Gli stili di coping sono sostanzialmente dettati dalle caratteristiche dell’individuo, dalle sue modalità percettive e mutuati dalle esperienze personali.

Un particolare tipo di stress lavorativo è il burn-out, considerato una sindrome per il complesso dei sintomi che lo contraddistinguono. Diversi autori, soprattutto anglosassoni, hanno affrontato il problema. La Maslach, in particolare, ha definito il burn-out come: “una sindrome di esaurimento emotivo, di spersonalizzazione e riduzione delle capacità personali che può presentarsi in soggetti che per professione si occupano della gente” e ancora: “una reazione alla tensione emotiva cronica creata dal contatto continuo con altri esseri umani, in particolare quando essi hanno problemi o motivi di sofferenza”.
La Maslach ritiene che i lavoratori più a rischio siano quelli che hanno difficoltà nel definire i limiti tra sé e gli altri e i confini funzionali tra professione e vita privata.
A fronte delle caratteristiche di personalità di ciascuno, bisognerebbe prendere in considerazione anche altri parametri, come le cosiddette “costrittività organizzative” di cui si farà cenno in seguito..

Altro evento stressante, che può determinare molteplici manifestazioni fisiche, e che è frequente nelle forze dell’ordine, è il mobbing, determinato da un complesso di comportamenti autoritari e arroganti, attuati nei riguardi del sottoposto, che si traducono in problemi di salute fisica e mentale tutt’altro che banali, quali gastriti, cattiva digestione, disturbi intestinali, tachicardia, cefalea ricorrente e persino eritemi cutanei ricorrenti (esantema neurogeno).

Il Disturbo da Stress Post-Traumatico (DSPT) costituisce una condizione debilitante che segue un evento traumatico. Il DSPT è stato originariamente portato all’attenzione pubblica dai veterani di guerra, ma può avere origine da un numero indefinito di eventi traumatici. Come, ad esempio: un sequestro di persona, un incidente grave come un disastro ferroviario o un incidente stradale, una alluvione o un terremoto; atti violenti come le percosse, lo stupro o la tortura, ecc. L’evento che causa il DSPT potrebbe essere riferito a qualcosa che ha minacciato la vita di una persona o la vita di qualcuno a cui è legata. Oppure la causa potrebbe dipendere da un fatto a cui la persona ha assistito.
Qualunque sia la causa, alcune persone che presentano una sintomatologia da DSPT rivivono ripetutamente il trauma sotto forma di incubi notturni e pensieri angoscianti durante il giorno. Possono avere problemi di sonno, soffrire di depressione, sentirsi distaccati o essere facilmente spaventati. Possono inoltre essere irritabili, più aggressivi di prima, o anche violenti. Vedere immagini, persone o oggetti, direttamente riferibili all’incidente, può essere per loro un’esperienza molto sofferta, che li porta poi ad evitare determinati luoghi o situazioni che suscitano ricordi del trauma subito. Gli anniversari dell’incidente sono spesso molto difficili da vivere.

Nel caso delle attività delle forze di polizia ma anche dei servizi di emergenza e difesa civile, il soccorso prestato alle persone con reazioni da stress, o con altre urgenze comportamentali, può causare delle manifestazioni tardive riconducibili a varie forme di stress (da uno “stato lieve di stress” fino a un “disturbo post-traumatico di stress).

Generalmente si parla di sindrome da stress dell’operatore. Somiglia molto a qualsiasi altra sindrome da stress, ad eccezione del fatto che è associata allo stress derivante da incidenti, urgenze mediche, servizi di particolare gravità, eventi che comportano morte o delitti, urgenze emozionali o psichiatriche. Questa sindrome può portare ad una “esplosione” emotiva che travalica le normali difese della persona.

E’ legittimo parlare di sindrome da stress quando compaiono:
– Irritabilità.
– Sensazioni di non essere apprezzati.
– Spossatezza.
– Incapacità di concentrarsi.
– Mancanza di entusiasmo e magari desiderio di rassegnare le
dimissioni dall’associazione.
– Insonnia o incubi.
– Perdita dell’appetito e/o dell’interesse nell’attività sessuale.
– Attività sociale ridotta.
– Chiusura nei confronti di ogni cambiamento e verso idee nuove.

Per prevenire, ridurre o arrestare l’evolversi della sindrome da stress ho pensato di fornire all’interno di questa giornata di formazione diverse opportunità di sperimentazione diretta. I partecipanti avranno modo di acquisire maggiore consapevolezza e padronanza delle proprie emozioni; aumentando allo stesso tempo le capacità individuali di far fronte ai problemi.

 

Versione aggiornata, apparsa con lo stesso titolo in:

Vittorio Tripeni – La gestione delle situazioni critiche. Gli aspetti psicologici del ruolo della polizia urbana e degli organi di vigilanza in situazioni di emergenza.Dispensa del corso Formel, Milano, 27 febbraio 2007, pag. 2-7

La linea d’ombra nella continuità dell’azienda familiare

Lasciare il timone è un’impresa eroica; il senior che lo cede compie un grande sacrificio. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquisire credito e ispirare fiducia, hanno sostenuto nel tempo gli investimenti d’energie e di capitali; allo stesso tempo hanno reso la sua vita un viaggio interessante ed avventuroso. In futuro sarà tutto diverso per lui.

Chi sarà chiamato a succedergli, ancora prima di assicurare continuità all’azienda e dare inizio ad un nuovo ciclo d’espansione, dovrà attraversare la sua linea d’ombra. Si troverà da una parte a sentirsi in obbligo di garantire la continuità aziendale – perché non è certo utile ad alcuno che l’azienda perda valore – dovendo allo stesso tempo assumersene le responsabilità.

Dall’altra parte proverà sentimenti ed emozioni contrastanti come ha descritto efficacemente in una bella canzone il cantante Jovanotti (cfr. La linea d’ombra, nell’album “l’albero”).

Egli da voce ad un giovane a cui è affidato un incarico di responsabilità e per la prima volta nella vita si trova a considerare quello che lascia e a non sapere immaginare ciò che troverà.
Incaricato di portare una “nave” verso una rotta che nessuno conosce in dettaglio e in un momento di stabilità precaria, egli considera quanto è più facile stare in mare se sono gli altri a far la direzione.

Gli è stato detto “che una nave ha bisogno di un comandante, che la paga è interessante e che il carico è importante”. Il pensiero della responsabilità però è enorme.

Quella del giovane protagonista – narra la canzone – è un’età in cui si sa come si stava e non si sa dove si sta andando e che cosa si sarà. Nella quale la dimensione delle responsabilità che si hanno nei confronti degli esseri umani che ti vivono accanto non è ancora ben chiara. Un’età dove ogni mossa “può cambiare la partita intera e si ha paura di essere mangiato”.

In cui non si sa ancora cos’è il coraggio, “se prendere o mollare tutto, se scegliere la fuga o affrontare questa realtà difficile da interpretare ma bella da esplorare”.

Tuttavia, pur non potendo ancora immaginare cosa avverrà, una volta “attraversato il mare e portato questo carico importante a destinazione”, quel timoniere accetterà un compito così sfidante e dirà che è pronto a partire. Studierà le carte e quando sarà il momento dirà “levate l’ancora diritta, avanti tutta: questa è la rotta, questa è la direzione, questa è la decisione”.

Tornando al passaggio del timone aziendale, dobbiamo riconoscere che in realtà è del tutto assente, nell’agire di molte aziende familiari, la definizione di obiettivi e modalità per raggiungerli e verificarli. Appare spesso inconcepibile, per l’imprenditore che vuole cedere il comando, riflettere sulla opportunità di pianificare una successione sulla base di una ponderata valutazione della strategia aziendale, delle deleghe da assegnare, delle competenze necessarie per raggiungere quegli obiettivi.

In un modo del tutto implicito, un senior si aspetta che anche i successori, da lui immaginati identici per competenze e conoscenze, riusciranno nell’impresa così come lui è riuscito a raggiungere il successo, superando le prove e gli ostacoli insiti nel proprio percorso imprenditoriale.

Quest’implicita riflessione o, meglio, attribuzione di senso e significato, porta il senior ad organizzare per il successore o i successori delle prove di ingresso che riecheggiano quelle alle quali egli è stato sottoposto in giovane età e che ritiene “naturale” far passare anche ai successori. Nell’inconscio tentativo di guidare il destino del figlio/figli, quasi fosse il prolungamento di quello proprio e in una dinamica emotiva, già nota alla psicologia sociale dalla seconda metà del secolo scorso, che Heider (1958) aveva definito con il termine Fundamental Attribution Error.

Ciò rappresenta un elemento di criticità, in quanto pone un insieme di problemi nei rapporti interpersonali e scarsa chiarezza di ruoli. Generando spesso, nella fase del passaggio generazionale e anche successivamente, conflitti a partire dalla omogeneità/eterogeneità degli schemi cognitivi (i cosiddetti assunti di base) delle persone in gioco e delle loro rappresentazioni della realtà e delle evoluzioni future.

Pertanto, non si tratta più semplicemente di un “ricambio” o “passaggio” generazionale quanto di una “integrazione” di generazioni; o, meglio, di una mediazione di punti di vista legittimamente differenti), volta a definire un piano di Sviluppo Generativo Competitivo, capace di creare nuove opportunità e nuove ricchezze per l’azienda e la famiglia.