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I poliziotti sono assistenti sociali?

Tecnicamente, no. Eppure, in alcuni casi, svolgono anche questo ruolo.

Ho trovato sempre eccessiva l’enfasi e lo sbalordimento alla notizia che un “carabiniere” o un “poliziotto”, solo o insieme ad altri colleghi, abbia deciso di pagare la cifra corrispondente al prezzo della merce sottratta, dallo sventurato o dalla malcapitata, indigenti, per necessità di sopravvivenza.

Allo stesso tempo, non mi meraviglio se, per dare serenità ai bambini, vittime indirette di un delitto da parte del padre nei confronti della madre, i carabinieri li abbiano accolti in caserma dando loro conforto.

Trovo queste azioni in perfetta sintonia con il mandato del loro lavoro. Anche se, più di una volta, ho sentito dire, dai diretti interessati o dai loro sindacalisti, che i poliziotti “non sono assistenti sociali”.

È vero che i poliziotti e le forze dell’ordine in generale non rientrano per definizione e requisiti di formazione nel profilo professionale degli “operatori sociali” (secondo la definizione proposta dal Ministero dell’Interno nel 1984), tuttavia essi agiscono “nell’ambito del sistema organizzato delle risorse messe a disposizione dalla comunità, a favore d’individui, gruppi e famiglie, per prevenire e risolvere situazioni di bisogno”. Agiscono in questa direzione tutti i giorni, in modo diverso, autonomamente o in sinergia con altri enti e servizi, per finalità di sicurezza sociale, protezione civile e salute pubblica. Poi, svolgono anche compiti di repressione dei comportamenti delittuosi e delle trasgressioni di norme amministrative.

La “polizia” appartiene (ed è essa stessa) ad un sistema integrato di persone, competenze, relazioni civiche e istituzionali, che fanno rete per garantire la sicurezza e il benessere di donne, uomini e ambiente.

Nel lavoro di polizia – e ancor di più in quello della polizia locale – possono presentarsi relazioni “psico-socio-educative”, come quelle che gli educatori hanno con bambini e adolescenti; oppure, “relazioni di cura”, come quelle che di solito si prestano ai pazienti; “relazioni amministrative” simili a quelle degli operatori agli sportelli pubblici, ecc. In aggiunta a quelle che i poliziotti svolgono su un terreno più complesso, cioè quelle “relazioni civiche” di sorveglianza, prevenzione, protezione, repressione, con diversi interlocutori (vittime, aggressori, testimoni) e partnership diverse (ad es.: giudici, pubblici ministeri, vigili del fuoco, operatori sanitari, ecc.).

In questo modo, vorrei rispondere anche a un sindacalista forse poco attento alla realtà attuale del servizio che una volta affermò: “I vigili non possono essere la panacea di tutti i mali e neanche formati come se fossero assistenti sociali, perché in caso di reato hanno il dovere di intervenire.” Giusto. Hanno il dovere di intervenire adeguatamente in occasione di un reato e nelle circostanze in cui è necessario prevenire o risolvere situazioni di bisogno. Com’è stato sempre fatto. Rendendosi consapevoli di questa parità di merito.

Secondo me, si tratta di una sfida molto importante che occorre accettare; resa più evidente dai notevoli cambiamenti sociali in corso, che impattano sulla cultura del servizio delle polizie locali sul territorio nazionale e soprattutto sull’identità sociale e professionale degli operatori.

L’anti-terrorismo francese: uno stato di morte clinica

La critica può essere importante, illuminante, e anche fruttuosa. Molto spesso mostra aspetti del nostro agire che rischierebbero di rimanere trascurati e incompresi. E’ ciò che accade anche per i “servizi” e la storia raccontata può rappresentare lo spunto per riflettere sulla organizzazione del lavoro informativo.

Laurent Borredon e Simon Piel, giornalisti che seguono da vicino le attività di polizia e intelligence, hanno scritto un articolo su Le Monde (28.11.2015) che a tutta prima sembra impietoso ma non lo è. 

 

 

Il sistema dell’antiterrorismo francese, a lungo considerato eccellente, è clinicamente morto. Ma nessuno, né al governo né all’opposizione, ha voglia di firmare il certificato di morte, non sapendo come sostituirlo.

Man mano che le indagini sugli attacchi del 13 novembre a Parigi e Saint-Denis procedono, le lacune sulla sorveglianza degli autori, le pessime scelte operative e la pesantezza del dispositivo antiterrorismo sono, ancora una volta, messi in evidenza . Un investigatore, ancora ossessionato dalle immagini delle stragi di Parigi Bataclan e delle terrazze parigine, si indigna: “Allora non facciamo niente? Aspettiamo che ciò accada nuovamente?”

Ciò che scandalizza, è soprattutto la totale incapacità di porsi delle domande dentro il Ministero degli Interni e il governo. “Voglio salutare ancora una volta l’eccellente lavoro dei nostri servizi di intelligence” ha ripetuto Manuel Valls, di fronte ai deputati, il 19 novembre, dopo la morte a Saint-Denis del probabile coordinatore degli attacchi, Abdelhamid Abaaoud – che tuttavia il predetto servizio di intelligence credeva in Siria

 

Sentimento d’impotenza

Il sistema attuale è nato da un periodo in cui gli attacchi sono stati molto più numerosi, gli anni ’80. L’anno 2015 segna tuttavia una rotta tanto più brutale perchè Francia – esclusa la Corsica – era stata risparmiata dal terrorismo per un lungo periodo, dal 1996 al 2012. Cento e trenta morti nel centro di Parigi, tre commando coordinati, attacchi kamikaze, e un senso di impotenza di fronte alla progressione inevitabile della violenza nota, documentata, pubblicizzata.

Dal 2012 al 2015, c’è il caso Merah – sette morti, tra cui tre bambini uccisi a sangue freddo perché ebrei a Tolosa e Montauban – ci sono le lezioni apprese dai fallimenti dell’intelligence che l’assassino ha rivelato, e in special modo l’istituzione della Direzione Generale della Sicurezza interna (DGSI) e il rafforzamento del servizio informazioni territoriali, ci sono due leggi anti-terrorismo nel 2012 e 2014. E poi c’è il massacro di Charlie Hebdo e la presa di ostaggi dell’Hyper Cacher, il 7 e 9 gennaio, e la legge sulla raccolta delle informazioni, approvata dal Parlamento nel mese di giugno.

In sostanza, nessuna di queste riforme strutturali o modifiche legislative  – delle quali alcune si sono rivelate inutili, come la creazione di un reato di “attività terroristica individuale “ – ha cambiato i due pilastri della lotta contro il terrorismo: il reato di “associazione a delinquere in relazione a un’attività terroristica” e la raccolta delle informazioni accumulate all’interno dello stesso servizio. In origine, quest’ultimo doveva  consentire alla Direzione della sorveglianza territoriale (DST), divenuta direzione centrale informazioni interne (DCRI) nel 2008 poi direzione generale per la sicurezza interna (DGSI) nel2014, di mantenere un buon flusso delle informazioni al suo interno.

 

“Queste persone non danno tregua”

Nel caso degli attentati di Parigi, la DGSI stava seguendo un certo numero di indiziati come raccolta di informazioni. A partire da Abdelhamid Abaaoud. Questo belga,che appariva in cinque dossier di progetti di attentati in Francia, è stato anche coinvolto, in Belgio, nell’animazione della cellula terroristica di Verviers, smantellata nel mese di gennaio. La DSGI aveva avviato in itinere quella che viene chiamato “inchiesta specchio” in Francia. Un team congiunto franco-belga ha lavorato bene insieme. Invano.

Samy Amimour, uno dei kamikaze del Bataclan, era incriminato dal 2012 nel quadro diun’indagine penale aperta per un progetto di jihad in Yemen. L’inchiesta è stata affidata alla DGSI. Messo in libertà vigilata, egli scomparve senza che nessuno abbia mosso un dito fino a quando i Turchi hanno segnalato il suo passaggio sul loro territorio. Il lavoro di indagine è stato svolto, in particolare con perquisizioni presso i suoi genitori. E’ stato emesso un mandato di arresto internazionale. Fino alla strage del 13.

Nel quadro del suo ruolo investigativo, la DGSI è stata anche allertata sulle minacce dirette alla Francia. Così come, Reda Hame, arrestato ai primi diagosto di ritorno dalla Siria, che assicura che lo stato islamico colpirà “bersagli facili” come ad esempio dei “concerti”. “La DGSI ha certamente, come tutto il resto, inquadrato questi elementi. Queste persone hanno una strategia predatoria, anche attraverso le minacce che lasciano trapelare. Se ci mettiamo a ragionare in termini di potenziali obiettivi degli attentati e non in termini di reti, ci si esaurirà “, si difende una fonte vicina ai servizi diintelligence.

Oggi,alcuni credono che questo risvolto investigativo abbia contribuito al tracollo della DGSI. Nei servizi territoriali, gli agenti sono versatili e si ritrovano coinvolti nell’indagare ogni arrivo siriano. Il numero dei dossier dell’anti-terrorismo è quintuplicato tra il 2013 e il 2015, da 34 a188, e il numero di indagati da dieci è arrivato a più di 230 persone. Ciò vuol dire decine di indagini, arresti, atti di procedimenti …

 

Il fantasma di un controllo esaustivo

Fare tutto, sempre … Dal 2012, a ogni attentato, la stessa osservazione – Mohamed Merah era noto ma la sua pericolosità giudicata male, la sorveglianza dei fratelli Kouachi era stata interrotta perché non sembravano più degni di nota –scatena la stessa reazione politica nel momento meno opportuno. Invece di incoraggiare i servizi a controllare di più, i ministri che si succedono perseguono il fantasma di un monitoraggio esauriente – pur ricordando che è impossibile quando il peggio accade.

Dopo gli attentati di Charlie Hebdo e Hyper Cacher, è la creazione dello stato maggiore operativo di prevenzione del terrorismo, che centralizza sotto l’autorità del ministro le informazioni dei servizi e la creazione di dossierdei segnalati per la prevenzione e la radicalizzazione a carattere terroristico, che riunisce più di 11.000 nomi. Troppo per essere utile. “Gli agenti passano ore a riempire chilometri di pagine”, si lamenta un poliziotto.

Eppure, nella discrezione, la DGSI si è data i mezzi per definire meglio gli obiettivi da controllare. Negli ultimi mesi, la cellula “Allat”, dal nome di una dea siriana pre-islamica, si occupa di obiettivi della zona tra Iraq e Siria. Gli otto principali servizi francesi riuniti in una stessa stanza. “Ognuno porta i suoi obiettivi, ciascuno porta le sue annotazioni e può connettersi ai database. Il lavoro è estremamente operativo”, spiega una fonte.

Anchela DGSE, la sorella gemella della DGSI a livello internazionale, mette dunque le mani in pasta. Essa se l’era cavata a buon mercato dalla vicenda Merah, quando aveva perso il giro afghano-pakistano dell’omicidio di Tolosa. Nel caso degli attentati di Parigi, la DGSE ha almeno fornito informazioni, ma troppo tardi per essere utilizzabili. Durante il monitoraggio di un obiettivo in Siria, il servizio ha scoperto le conversazioni con una donna in Francia. Sconosciuta fino all’inizio di novembre, quando gli agenti si sono resi conto che sitrattava di una cugina di Abdelhamid Abaaoud, Hasna Aït Boulahcen.

La DGSI viene allertata e scopre anche, tardivamente, l’esistenza della famiglia francese di un suo obiettivo numero uno. Siamo al 12 novembre, alla vigilia degli attacchi. E c’è infine un testimone, dopo gli attacchi, che metterà la polizia giudiziaria sulle tracce di Ait Hasna Boulahcen e Abdelhamid Abaaoud – ambedue morti il 18 novembre, durante l’assalto del RAID in un appartamento di St.Denis.

 

“3000agenti per 4000 obiettivi”

E’ che questo lavoro di coordinamento, dopo anni di dialogo tra la miriade di servizi francesi, non è sufficiente quando la minaccia diventa transnazionale. “Sono organizzati in Siria, finalizzano il progetto in Belgio, arrivano quasi il giorno prima a Parigi. La DGSI rimane un servizio domestico, non può fare molto da sola … “, dice una fonte del ministero dell’Interno.

Il coordinamento europeo funziona, ma anche in quel caso, non è sufficiente in quanto si concentra sulla parte superiore del paniere. Eppure, gli autori degli attentati di Parigi erano conosciuti dai servizi belgi e francesi, ma non come persone di primo piano. I fratelli Abdeslam – Brahim si è fatto saltare in Boulevard Voltaire e Salah è in fuga – sono stati individuati in Belgio, ma non come una priorità, Samy Amimour è stato considerato uno dei meno pericolosi della sua cellula yemenita. Ismaël Omar Mostefai anch’esso kamikaze al Bataclan, era ritenuto secondario per la DGSI.

“La difficoltà, riassume una fonte vicina all’intelligence, è che bisogna essere allo stesso tempo su Yassine Salhi che da oggi al domani decide di decapitare il suo capo, e su Abaaoud. Ci sono 3000 agenti per 4000 obiettivi. E ancora, a Parigi e Saint-Denis, ci sono tra gli autori dei belgi e delle persone che noi non abbiamo ancora individuato. Non abbiamo strutture che sono state pensate per un fenomeno di massa. “

“Se l’indagine permette di evidenziare limiti o mancanze, ci si adatterà”, dice uno al ministero degli Interni. La piazza Beauvau difende anche le misure spinte dalla Francia a livello europeo. Il rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne dello spazio Schengen prima di tutto, perché un certo numero di terroristi sono stati in grado di passare attraverso la strada dei migranti sotto falsa identità. E poi la creazione di un database dei passeggeri aerei (PNR) europeo, vecchio serpente di mare che può essere visto meno sotto il diretto collegamento con gli attacchi, in quanto, per l’appunto, sembra che gli autori degli attentati abbiano seguito una via terrestre.

Ma, fino ad oggi, a destra ea sinistra, nessuno vuole porre l’unica domanda che ha senso, in uno spazio di libera circolazione delle persone: occorre europeizzare la lotta contro il terrorismo?

Lettera agli Insegnanti italiani

Trovo ancora fresca e attuale questa lunga e importante riflessione di James Hillman.

La lettera, scritta agli insegnanti italiani (in realtà, una conferenza), si ricollega ad una iniziativa nata nell’ambito del convegno mondiale sull’istruzione organizzato dalla Fondazione Liberal – Edizione 2003 (Milano, 14-17 maggio 2003)

 

 

 

I.

I miei pensieri oggi si reggono su una distinzione fondamentale che specificherò in questa frase iniziale: l’insegnare e l’imparare non devono essere confusi con l’educazione e possono persino essere impediti dall’educazione. Inoltre, se questa distinzione è fondamentale, allora sarà precedente ai progetti per la riforma dell’educazione, alla certificazione degli insegnanti, alle missioni e e agli scopi dei programmi educativi, ai contenuti dei curricula, e ad altri dibattiti che impegnano cittadini ed esperti.

La distinzione può essere posta in termini semplici e pratici. Qualcosa quasi naturalmente vuole imparare, specialmente nell’infanzia. Come usare una sega, cucinare un uovo strapazzato, ricordare i versi di una canzone? Dove va il sole quando scende “giù”? e dove sono i pettirossi d’inverno, e perché le anatre non annegano come i polli? Qualcosa dentro di noi vuole sapere dove, come, quando, che cosa. Porre domande è innato alla psiche umana. Un bambino fa domande agli insegnanti, ai genitori, agli amici, persino ai libri, per soddisfare la sete di apprendere, anche finoal punto di un comportamento ossessivo, ritualistico, dove “perché ?” si ammucchia su “perché?” su “perché?”.

Possiamo imparare ponendo delle domande, ma impariamo ancora di più osservando, ascoltando, imitando, sperimentando e assorbendo sensualmente il mondo che ci circonda. Il bambino, come facciamo noi stessi, tiene un occhio all’esterno e un cuore aperto per il dove e il che cosa e specialmente il chi può soddisfare questo desiderio d’imparare.

In corrispondenza con questo desiderio d’imparare c’è un impulso a insegnare, egualmente innato. Qualcosa, di nuovo piuttosto naturalmente, vuole rispondere a una domanda, dimostrare, spiegare, correggere.” Su dammi quello; lascia che ti mostri come si fa.” “Non tenere la sega così stretta. Lascia che siano i denti a fare il lavoro.” “La pioggia? Ebbene, noi facciamo la pioggia nella nostra stanza da bagno: guarda come il vapore del bagno fa delle piccole goccioline sulla superficie fredda dello specchio.”

La relazione fra l’imparare e l’insegnare è animale, naturale, data, dotata di ubiquità; non è tanto il prodotto della civilizzazione e della cultura quanto la loro base. La cultura chiama questa relazione tradizione; la civilizzazione, educazione. Comunque diamo forma a questa relazione, l’insegnante e l’allievo, la guida e l’apprendista, l’esperienza e l’innocenza, il sapere e l’ignoranza, il pieno e il vuoto sono costituenti costanti della vita interiore dell’anima. In quanto tali, appartengono non solo ai primi anni o alle prime fasi dell’indagine. La ricerca di un insegnante, di un insegnamento e il desiderio d’insegnare continuano in modo importante nella tarda vita . Uno dei momenti più miserevoli della tarda vita è quello in cui l’impulso ad insegnare viene frustrato: nessuno vuole ciò che si può insegnare.

Fra questi due impulsi e la loro affinità l’uno per l’altro viene l’Educazione. Immaginate l’Insegnare e l’Imparare come un fratello e una sorella, un poco perduti nel bosco, come Hansel e Gretel nella fiaba, catturati dalla strega, l’Educazione, e sempre sul punto di essere divorati dall’insaziabile appetito di quella strega. L’intervento dell’Educazione sembra piuttosto ragionevole: mira a facilitare la serendipità(1) della relazione rimuovendo la casualità e controllando il contingente. Soprattutto l’educazione esteriorizza e sistematizza la relazione nella”scuola” (istituzioni educative). Tenta di mettere in contatto i giusti (qualificati) insegnanti con i giusti (selezionati) allievi. Così l’insegnare e l’imparare divengono personificati in classi di persone: quelli che possono e quelli che non possono; quelli che sanno e quelli che non sanno. La vocazione innata diventa una professione accreditata. Il potere inevitabilmente fa seguito alla divisione in classi, che minaccia l’insegnare e l’imparare con la paura dell’”altro”. Gli insegnanti temono i loro studenti; glistudenti i loro insegnanti, minacciando l’educazione stessa e conducendola a definire il suo ruolo non tanto come uno strumento di agevolazione, ma come un’autorità impositiva. In questo modo l’educazione separa l’insegnare e l’imparare. Pure la storia dell’autodidatta mostra che i due elementi potenziali nella natura umana sono funzioni complementari. Quanto ciascuno di noi ha imparato e ancora impara insegnando a se stesso da solo!

L’educazione richiede un intero esercito di amministratori, esperti, specialisti; divisioni in classi, unità, soggetti, discipline, dipartimenti; conseguimento di traguardi, gradi, prove,valutazioni; e naturalmente bilanci preventivi, supervisione, responsabilità misurabile. Pure l’educazione si suddivide in due specie: primaria e superiore, tecnica e classica, scienze ed arti; riparatrice ed avanzata. Il misterioso lavoro emotivo di insegnare e imparare viene cooptato nelle forme esteriori che mirano a farlo avvenire. In verità, l’insegnare e l’imparare scompaiono in vicoli laterali e in occasioni segrete. Dei lunghi anni trascorsi nella scuola quanti pochi episodi di illuminazione conservati nella memoria, quanti pochi momenti di insegnamento che hanno acceso un fuoco! Anche per gli insegnanti solo una manciata di studenti da tante classi realmente “connesse” restano ben presenti nella memoria.

Potrebbe sembrare che la distinzione che sto tracciando segua un vecchio spartiacque fra ciò che William James – che fu lui stesso molto interessato all’insegnamento (Conversazioni con gli insegnanti,1899) – chiama le menti “dure” e quelle “tenere”. Questa divisione domina la teoria pedagogica come l’opposizione tra disciplina e libertà, tra il classico e il romantico, fra le nozioni del bambino come selvaggio e il vuoto bisognoso del battesimo e la disciplina o il bisogno innato assennato e creativo di opportunità ed espressione. Potrebbe sembrare che la mia enfasi sul desiderio istintivo di imparare e insegnare segua un lato di questo spartiacque, cioè il Romanticismo di Rousseau, Pestalozzi, Frobel, Montessori e Alice Miller, i quali tutti sottolineano l’elemento idiosincratico piuttosto che quello nomotetico, privilegiando l’individuale sulle necessitàcollettive della società.

Ma questa non è la mia intenzione. Io sfuggirei da questo spartiacque del tutto, perché la coppia insegnare-imparare, nonostante preceda l’educazione non può subire un’interpretazione letterale in un programma d’educazione. Io cerco di fuggire dalle ideologie che annunciano, o denunciano, programmi in ciascuna direzione: da una parte, modelli più duri di contatto intensificato fra insegnanti e studenti, o, dall’altra, una tenera educazione in classi collaborative e l’istruzione scolastica a casa. Se io optassi per un progetto diventerei un educatore, mentre sono solo uno psicologo. Cerco di descrivere ciò che giace nell’anima dell’educazione piuttosto che prescriverne la forma. Voglio solo che l’affinità innata fra l’insegnare e l’imparare, e l’idea di ciò come di un fatto primordiale, restino vive nell’anima.

L’educazione oggi assorbe il cinque per cento del prodotto mondiale nazionale lordo; l’educazione è la più grande industria del mondo. Enormi difficoltà stanno schiacciando le scuole nel mondo – l’enumerazione delle quali sta quasi schiacciando anche questa conferenza. Sebbene queste difficoltà appaiano nella psiche turbata di insegnanti e allievi, esse non sono radicate nell’insegnare e nell’imparare. Infatti l’immediatezza di quel rapporto è un porto sicuro, una salvezza dai problemi dell’educazione. Per la gioventù ci sono pochi rifugi, poche fughe dai problemi dell’educazione contro i quali c’è tanta ribellione, sia diretta – come il rifiuto della scuola, la violenza e i desaparecidos o scomparsi – sia indiretta, nei sintomi psicologici che ostacolano l’imparare, ad esempio “i disturbi dell’imparare”. Gli insegnanti, presi fra le richieste dell’educazione da una parte e la ribellione degli studenti dall’altra, sono in una posizione simile a quella di un medico verso il paziente, di un avvocato verso il cliente, di un giornalista verso la fonte, del prete verso il peccatore.

Sono obbligati dalla loro fedeltà alla loro coppia a stare con i loro studenti i cui sintomi rappresentano una resistenza a quel disordine generale dell’imparare chiamato “educazione”.

Immaginate! La psiche si ribella contro il vero imparare che una società guidata dall’economia insiste nel ritenere di primaria importanza. Devi ricevere un’educazione, avere un’educazione, perché allora sarai più vendibile, servendo l’economia e alzando il Pil. Ecco perché gli insegnanti sono risorse nazionali, fornire le loro prestazioni soddisfa le quote di produzione stabilite per loro! L’educazione come merce, come un investimento di capitale che serve alla competizione del liberomercato. E’ questo ciò a cui i sintomi dicono “no” ? E’ questo ciò che il rifiuto della scuola in definitiva significa?

Qualcosa si sta ammalando nel cuore dell’educazione; è malata nel cuore, e questo cuore non può essere ristabilito con semplici esercizi di base o con una nuova dieta dell’anima, né questo cuore può essere sostituito da una macchina ad alta tecnologia.

 

II.

Possiamo osservare il cuore dell’insegnare in azione in tre esempi tratti dalle biografie di scrittori distinti. James Baldwin il romanziere e saggista americano, ricorda: “un edificio scolastico…terribile, antico; scuro, cupo e a volte pauroso. In una classe di cinquanta bambini, per lo più neri, un’insegnante Orilla Miller – una giovane insegnante di scuola bianca, una donna bellissima… che amavo… in modo assoluto, dell’amore di un bambino”, riconobbe una qualità in questo bambino nero di dieci anni. “La giovane donna del Midwest era sorpresa dalla vivezza d’ingegno di questo bambino dei bassifondi”. Scoprirono un interesse comune in Dickens; lo leggevano entrambi ed erano ansiosi di scambiare opinioni. Anni più tardi, dopo essere diventato famoso, Baldwin scrisse alla sua vecchia insegnante, chiedendo una fotografia. “Ho tenuto il tuo volto nella mia mente per molti anni”.

Un altro resoconto; questo di Elias Kazan, lo straordinario regista cinematografico: “Quando avevo dodici anni ebbi un colpo di fortuna, l’incontro con la mia insegnante dell’ottavo grado, Miss Shank influenzò il corso della mia vita… Mi prese in simpatia… fu lei a dirmi che avevo dei begli occhi marroni. Venticinque anni più tardi, mi scrisse una lettera. ‘Quando avevi solo dodici anni’ scrisse ‘la luce cadeva dalla finestra attraverso la tua testa e la tua fisionomia e illuminava l’espressione del tuo volto. Pensai alle grandi possibilità che erano nel tuo sviluppo e …’. Miss Shank si avviò sollecitamente a sottrarmi alla tradizione della nostra gente riguardo al figlio maggiore e a indirizzarmi verso… le discipline classiche”.

Un terzo esmpio è quello di Truman Capote, un tipico “bambino difficile”, che faceva tutto quello che poteva per disturbare la classe e provocare i suoi insegnanti. Ma incontrò la simpatia della sua insegnante di scuola media, Miss Wood. Condividevano un interesse per Ibsen. Miss Wood invitò spesso il giovane Capote a cena, lo favoriva in classe e incoraggiava i suoi colleghi a fare altrettanto.

“Mi prese in simpatia” ha detto Kazan; “Ho tenuto il tuo volto nella mia mente per molti anni”, ha detto Baldwin; Miss Wood invitava Capote a casa per mangiare insieme e gli forniva ciò che desiderava in classe. Miss Shank “mi disse che avevo dei begli occhi marroni”, ha detto Kazan. Queste schizzi ci dicono che c’è un modo di valutare indipendente dagli esami. L’insegnare vede con l’occhio del cuore. Noi non crediamo più in questa specie di visione: “…la luce cadeva dalla finestra attraverso la tua fisionomia e illuminava l’espressione del tuo volto”. Ma al giorno d’oggi, forse specialmente negli Stati Uniti, vediamo solo con l’occhio dei genitali. L’attrazione che ha appassionato questi allievie questi maestri oggi sarebbe seduzione, manipolazione, persino abuso. Agli insegnanti è consentito di essere chiamati dalla bellezza; l’educazione permette che l’eros si risvegli?

Ma se dovesse risvegliarsi, allora l’eros non corromperebbe l’obiettività e l’eguaglianza?

Può darsi che proprio qui risieda la ragione più profonda dei computers all’interno dell’aula: essi sono completamente imparziali. Non c’è eros nel programma.

Niente eros neppure nell’accademia – una mancanza comune in istituzioni di istruzione superiore. I professori non ascoltano le lezioni degli altri, leggono i saggi degli altri. Borsisti e ricercatori non amano l’amministrazione; gli amministratori non amano i professori. Il personale è “di una classe più bassa”, persino al di sotto degli studenti. Gli studenti mettono in contatto i loro cuori affamati con la loro sete di conoscenza che sarà mandata via dalle vane preoccupazioni della facoltà, loro stesse in cerca di amore. La trappola sessuale diviene l’unico accesso all’eros nell’università.

Gli esempi di Baldwin, Capote e Kazan rivelano qualcosa di particolare riguardo all’eros dell’insegnare. Ciò che fece riunire le coppie, la reciproca attrazione, fu una visione comune. L’amore fiorì perché condividevano una fantasia. Per Baldwin e Miss Miller, Dickens; per Capote e Miss Wood, Ibsen e Undset; per Kazan, la visione di un futuro umanista. Essi percepirono la bellezza l’uno nell’altra e permisero la vicinanza. (Capote veniva a casa per cena; Miss Shank studiava il volto e gli occhi di Kazan; Miss Miller dava a Baldwin il suo tempo privato). Quando l’eros è represso cade inun’intimità clandestina. Pure impariamo attraverso la vicinanza – osservando le mani del maestro al lavoro, ascoltando le inflessioni vocali, contagiati dalla gioia del compito. Uno degli studenti di Socrate dice (Teagete 127 Bff): ” Ho fatto progressi ogni volta che ero insieme a te… e sono progredito più rapidamente e profondamente quando mi sono seduto vicino, accanto a te e ti ho toccato”. Mentre per l’educazione nello stesso passaggio (128B) Socrate dice: ” Non so niente di questo raffinato sapere dei Sofisti; io ho soltanto un piccolo corpo di sapere: la natura dell’amore (tà erotika)”.

E’ importante mantenere distinte nella mente le molte specie di eros. I filosofi della Chiesa potrebbero elencare una quarantina di specie di relazioni amorose, come i soldati in armi, i compagni in un viaggio, le suore in un ordine, il servo e il padrone, fratelli e sorelle, e naturalmente madri e figli, mariti e mogli. Ciò che in particolare il mentore divide con il suo o la sua protetta è un amore nato da una fantasia comune. La loro dedizione non è tanto per ciascuno come amanti quanto – in questi casi di scrittori – per la lingua inglese. I loro demoni sono in armonia, ciascuno aiuta l’altro a soddisfarsi. Insegnare e imparare sono necessari l’uno all’altro e, come Hansel e Gretel si salvano l’uno con l’altro. Così l’insegnante non è un genitore sostitutivo che procura allo studente i soldi per il pranzo e scarpe nuove. Miss Miller e Miss Wood e Miss Shank nutrivano le anime degli studenti e mettevano il fuoco nei loro spiriti.

 

III.

Prima di concludere questo discorso rivolto agli insegnanti mi piacerebbe rendere più chiaro un pensiero. Nonostante il titolo di questo Convegno, la base dell’insegnamento nel Ventunesimo secolo non è diversa da quella di qualunque altro, anche se il contenuto e la forma dell’educazione subiscono le esigenze della storia. Il fatto che l’educazione presti il suo corpo alla piazza del mercato nella nostra epoca, non è diverso dalla sua prostituzione alla dottrina politica nell’era di Stalin e Hitler, o Mao e Pol Pot, o alla Chiesa nella Francia della Scolastica, o all’ortodossia musulmana nelle scuole del Medio Oriente. All’insegnamento si chiede sempre di sottomettersi senza protestare di fronte ai dogmi educativi: lo testimoniano il destino di Socrate, la persecuzione degli insegnanti irlandesi nelle scuole di trincea durante la dominazione inglese. A causa del potere degli istituti educativi, il vero imparare, analogamente alla psicanalisi, diventa sovversivo. L’imparare deve nascondersi all’interno dell’educazione come abbiamo visto nei tre piccoli bambini e nei loro insegnanti, dove una corrente erotica lega in modo sovversivo l’insegnante e lo studente. Marsilio Ficino, uno dei più autorevoli insegnanti d’Europa di sempre, si riferì a questo imparare nascosto e sovversivo come contro-educazione. Noi impariamo ciò che è ufficialmente insegnato, e re-impariamo il contrario o ciò che sta più profondamente nel suo interno, vedendo in esso e attraverso esso, decostruendo, diciamo, con il chiedere ulteriormente: “questo materiale, questo metodo, questa ipotesi che cosa significano per l’anima?”. La contro-educazione interiorizza e individualizza, come ha detto Ficino, le uniformità dell’educazione. Individualizzare l’educazione, cioè collocare l’imparare all’interno dell’anima di qualcuno, esige l’eros, non perché l’individualizzare favorisce uno studente a scapito di un altro, il cosiddetto “prediletto dell’insegnante”, ma perché l’eros incendia il particolare stile di desiderio di ogni persona.

Con “uniformità” mi riferisco a modelli di prove, misure di intelligenza, gradazioni attraverso livelli, libri di testo uniformi, divisioni del tempo, architettura delle aule scolastiche, ecc. L’idea autentica dell’uniformità educativa, dell’universalità stessa, è stata radicalmente sfidata teoricamente da Howard Gardiner, a Harvard, e molto tempo fa da Giambattista Vico a Napoli. Per Vico i veri universali dai quali potevano essere derivati i modelli sono i miti classici, che ha chiamato universali fantastici, cioè i tipi archetipici che governano l’immaginazione e dai quali dipende lo stesso pensiero. Questi universali mostrano come la natura umana immagina i suoi problemi, viene a contatto con essi, ed effettua scelte di valore. Essi offrono un modo di pensiero umanista o quella che può anche essere chiamata una base poetica della mente che è capace di superare il nichilismo etico dell’educazione contemporanea e l’ottusità estetica travestitie rinforzati dal “metodo obiettivo”.

Così, seguendo Vico, la base archetipica della mente è un substrato sia di logica che di sogno, di scienza e di arte, di passato e di presente, di obiettività e di soggettività. Mentre Vico propone le molteplici persone e storie e valori dei miti nella loro immensa differenziazione, Gardiner mina l’uniformità dimostrando che l’imparare dev’essere molteplice perché l’intelligenza è molteplice. L’imparare e l’insegnare devono seguire una varietà di pensieri. Una dimensione non va bene a tutto. Anche la nozione di “misura” può essere liberata dalla sua angusta denotazione -significati matematici e statistici – per modi che tengono chi e perché e che cosa è stato misurato; per esempio, l’estetica, la narrativa, la morale o le capacità del corpo.

Ma ora sto andando oltre il mio semplice tema e sto trasgredendo nel campo delle idee educative, idee per rifondare l’educazione lungo linee che derivano da Vico e Gardiner, il che implica che il primo compito dell’educazione sarebbe di psicoanalizzare se stessa, di decostruirsi trovando i miti che suggeriscono i suoi programmi. Pure, qualunque cosa venga proposta da chiunque, dovunque, la techne e la praxis di tutti iprogrammi educativi, la realtà di ogni adempimento dipende dall’affinità naturale fra la coppia archetipica: l’Insegnante e lo Studente.

 

 

Nota

  1. Dall’inglese serendipity. Lo scoprire qualcosa d’inatteso e importante che non ha nulla a che fare con quanto ci si propone vadi trovare o con i presupposti teorici sui quali ci si basava. Il significato del termine trae origine dalla fiaba persiana I tre principi di Serendip, nella quale gli eroi protagonisti posseggono appunto il dono naturale ditrovare cose di valore non cercate.

 

James Hillman, 2002

 

 

Gli insegnati italiani furono invitati a rispondere alla lettera di Hillman inviando le loro considerazioni. Molte di esse sono state pubblicate sul sito Educazione & Scuola:

http://www.edscuola.it/archivio/ped/hillman.htm

 

 

 

Courtesy: Fondazione Liberal e Educazione & Scuola

Cosa vogliamo dai carabinieri

Indipendenza dalla politica. Trasparenza. Equilibrio nella gestione delle risorse. Il compito dell’Arma non è facile. A noi cittadini spetta il dovere di vigilare.

Da questa riflessione di Roberto Saviano, pubblicata sull’Espresso del 6 febbraio scorso, si possono trarre ulteriori stimoli per altre considerazioni a margine. Una tra le tante: la cittadinanza “attiva” da parte nostra ed anche delle varie forze di polizia.

 

 

In Italia, le nomine dei vertici delle forze dell’ordine hanno in genere una scarsissima eco nell’opinione pubblica, ma un peso enorme per gli addetti ai lavori. Capire cosa accade, invece, è fondamentale per comprendere il percorso che le istituzioni stanno tracciando.

Conoscere storia e curriculum di chi occuperà posti di rilievo, di chi interloquirà per diversi anni con politica, stampa e magistratura, di chi contribuirà a segnare il corso che l’Italia imboccherà è necessario. Sono convinto che gran parte delle scelte di un governo sia leggibile attraverso la selezione dei dirigenti militari; le nomine dei vertici indicano direzioni, visioni e non semplicemente scelte tecniche.

Il nuovo comandante generale dell’Arma dei Carabinieri Tullio Del Sette ha un profilo interessante, che vale la pena valutare, per capire quale potrebbe essere la direzione che l’Arma intraprenderà sotto il suo mandato. Su di lui si concentrano molte speranze di cambiamento e miglioramento. Ha retto Comandi in tutte le organizzazioni dell’Arma ed è stato Capo Gabinetto al ministero della Difesa. Conosce il settore giuridico e questo potrebbe renderlo un innovatore, potrebbe avere un ruolo riformista all’interno dell’Arma.

Sono quasi dieci anni che vivo sotto scorta, conosco i Carabinieri, spesso trascorro in auto blindate e nelle caserme talmente tanto tempo da sentirmi uno di loro, da sapere di cosa ha bisogno l’Arma per poter ancora una volta giocare un ruolo fondamentale in un Paese che sta vivendo un momento difficilissimo. La necessità prima è equilibrare le risorse, non cedere ai timori di attentati terroristici e continuare a valutare ogni situazione per l’importanza e l’urgenza che ha.

In Italia è fondamentale dare risorse all’antimafia, alle investigazioni, alla presenza sul territorio, alla prevenzione e mi auguro che il Comandante Del Sette saprà gestire questo momento di emergenza. Così come c’è bisogno di una voce autorevole che dia il punto di vista dei Carabinieri sull’immigrazione. Non può essere tutto sempre e solo affidato ai presidi sulterritorio, ma il Paese deve avere consapevolezza, deve essere messo a conoscenza di quali sono le strategie.

Ecco perché la comunicazione è fondamentale. Una comunicazione che non sia strizzare l’occhio alla stampa, passare informazioni, ma che sia rigorosa, che serva a parlare al cittadino più che a creare rapporti personali.

La stampa è diventata spesso un ispettore aggiunto all’inchiesta, e questo spesso svilisce l’autorevolezza delle indagini, ecco perché è fondamentale comunicare, ma bisogna trovare il modo per farlo nella maniera più corretta possibile. È fondamentale poi arginare la quantità di sprechi e privilegi: limitare al massimo l’interlocuzione, quella nociva, con la politica, fatta di assunzioni e favori, che indebolisce politici e forze dell’ordine.

Il Generale Del Sette dovrà mantenere un profilo di totale indipendenza rispetto alla politica. Dovrà essere controllore e poi garante di fronte ai cittadini. Dovrà tenersi autonomo da un governo che tende a mal sopportare qualunque voce critica. Il profilo è quello giusto per non trovarsi impelagato in queste sabbie mobili.

Occorre poi ciò che in Italia manca, ovvero una trasparenza assoluta per quanto riguarda leindagini sui Carabinieri come nel caso di Stefano Cucchi, in quello più recente che riguarda Riccardo Magherini. Il compito di Del Sette sarà difficilissimo e la sua nomina, se la si guarda da questa prospettiva, ha più peso della nomina di un ministro. Il suo, oserei dire, dovrebbe essere quasi un atto di creatività geniale per riuscire a far bene investigazione, tutela e presidio. Perché se c’è una cosa che all’Arma dei Carabinieri variconosciuta è di essere sempre presente sul territorio e non solo insituazioni di emergenza.

Anche nei luoghi più remoti la figura del Maresciallo, diventata ormai un topos, incarna proprio questo: la capacità di esserci e di presidiare, la capacità di dialogare e conoscere, la volontà di cercare e creare vicinanza. Il Generale Tullio Del Sette viene da questa tradizione di presidi, ecco perché da lui il Paese deve aspettarsi una gestione rigorosa e dialettica. Volevo fortemente che queste considerazioni non rimanessero solo nell’ambito ristretto dell’Arma, volevo provare a condividerle. Perché fondamentale è sapere chi guida le forze dell’ordine se la nostra prospettiva è sempre più quella di una cittadinanza attiva. Partecipare alle decisioni e non subirle, significa svolgere il nostro dovere di cittadini: controllare, presidiare, non abbassare mai la guardia. Anche quando una nomina non dipende direttamente da noi, abituiamoci a vigilare. Solo così la democrazia funzionerà.

Quali sono i lavoratori più obesi?

Quali sono le professioni con il maggior numero di obesi nei loro ranghi? Il Wall Street Journal ha pubblicato le cifre dei tassi di obesità per occupazione negli Stati Uniti.

Nella popolazione dei vigili del fuoco, degli agenti di polizia e della vigilanza privata, l’incidenza è superiore al 40%, secondo i dati raccolti nel 2010 e pubblicati quest’anno.

A circa il 35% di obesità, si trovano gli operatori del sociale e gli appartenenti al clero, gli assistenti domiciliari, i massaggiatori, gli architetti e gli ingegneri.

Le occupazioni in cui l’obesità è meno frequente sono logicamente quelle degli atleti, ma anche attori, artisti e giornalisti (20,1%). In basso alla scala vi sono gli economisti, gli scienziati e gli psicologi, con un tasso del 14,2%.

Questi risultati sono in accordo con quelli ottenuti da un altro studio CDC pubblicato nel gennaio 2014. Gli accademici, i medici generici e gli specialisti hanno tassi più bassi di obesità per occupazione; camionisti, poliziotti e vigili del fuoco sono quelli che hanno i più alti tassi di sovrappeso.

Alcune occupazioni non sedentarie sono dunque molto colpite da obesità, e ciò può essere dovuto al forte stress della loro occupazione. Al contrario, tutti i lavori sedentari non sono colpiti nella stessa misura. Perché ricercatori ed economisti, sono poco colpiti da obesità e non sono meno sedentari di dipendenti del call center, dove la prevalenza di obesità è l’85%.Queste differenze, dicono gli autori della ricerca, si spiegano con il livello socio-professionale.

 

http://www.wsj.com/articles/memo-to-staff-time-to-lose-a-few-pounds-1418775776