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La prevenzione della salute psicologica nei luoghi di lavoro come modalità di gestione delle risorse umane

Essendo ormai introvabile la raccolta degli Atti del Convegno che conteneva questo contributo, lo trascrivo integralmente a beneficio di quanti gentilmente hanno espresso il desiderio di leggerlo.

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Il pensiero corre, con molta riconoscenza e ammirazione a Francesco Novara che ci ha sempre incoraggiato a “fratturare quello che siamo diventati, per divenire possibilità svelate”.

E non si può fare a meno di citare un suo concetto.
“Sovente l’organizzazione si ammala perché espia il tradimento della missione cui deve servire: le disfunzioni interne risultano – in un circolo vizioso di aggravamento – effetto e causa di una perdita di contatto con la realtà per la quale l’organizzazione deve operare.
Ciò impedisce un orientamento realistico e un mantenimento dinamico dell’equilibrio complessivo: l’avvio alla confusione prepara la disintegrazione”
.

Perché investire sulla prevenzione della salute psicologica attivando la gestione delle risorse umane?
Innanzitutto, occorre chiarire che il miglioramento della salute sul posto di lavoro non deve essere necessariamente complicato o dispendioso e tantomeno esigere molto tempo per la sua realizzazione.
È sufficiente impegnarsi per facilitare i processi relazionali alla base della salute mentale delle persone al lavoro. Attraverso una gestione funzionale proprio delle risorse umane, quell’elemento che costituisce il fondamentale capitale fondamentale dell’azienda.

Qui vorrei fare un piccolo inciso richiamando quanto ricordato dall’amico e collega William Levati (W. Levati, M. Saraò: Psicologia e sviluppo delle risorse umane nelle organizzazioni, FrancoAngeli)
Se riformuliamo i tre classici fattori della produzione (capitale, terra e lavoro come finanza, tecnologia/organizzazione e risorse umane) possiamo constatare che di fatto le prime due hanno conquistato nelle organizzazioni una credibilità, un peso e una visibilità che manca totalmente alla terza.
Prova ne è che raramente, (…) i direttori risorse umane fanno parte dei Board of Directors a differenza degli altri primi livelli aziendali.
In altri termini a un direttore di finanza o a un direttore commerciale viene chiesto di contribuire alla formulazione delle strategie attraverso la pianificazione di loro competenza, mentre al direttore risorse umane viene chiesto solo a valle di eliminare i possibili ostacoli legali, amministrativi, sindacali o al massimo di presentare una analisi quantitativa del fabbisogno di risorse umane.

In realtà le risorse umane non sono un semplice fattore della produzione, ma rappresentano un meta fattore, nel senso che la finanza, l’organizzazione o la tecnologia non esistono in sé, ma esistono uomini (e donne) che fanno funzionare la finanza, la tecnologia, l’organizzazione.

Quindi un’indagine qualitativa che riguardi queste persone dovrebbe essere l’elemento portante di un discorso di pianificazione economica dell’azienda. Invece alla funzione Risorse umane si chiede quanti sono gli individui e quanti potranno essere, non quali sono e quali dovranno essere per rendere fattibile la strategia aziendale.

In questo modo, precludendosi la possibilità di formulare una pianificazione qualitativa, si impedisce alla funzione Risorse Umane di passare da un ruolo tattico a un ruolo strategico all’interno dell’organizzazione.

La promozione della salute psicologica al lavoro riguarda innanzitutto le relazioni esistenti tra la salute e il benessere dei dipendenti – da una parte – e il successo della azienda dall’altra. Successo che a sua volta può essere inteso come “salute” (dei bilanci, delle relazioni, ecc.) e “sofferenza” (ahimè è ormai costante la sofferenza dei mercati!)

Riguardo ai costi e ai vantaggi
Va subito detto che è più impegnativo e costoso sostituire i dipendenti qualificati o affrontare gli aumenti dei costi di gestione dipendenti da una non puntuale organizzazione del lavoro. Si pensi ad esempio ai costi legati alla ricerca del personale, ai relativi colloqui, alla formazione, al reclutamento, ecc. Si rifletta sul valore della perdita delle competenze, delle conoscenze e della “memoria istituzionale”, che viene a mancare nel momento in cui un valido collaboratore ci lascia.

Per non parlare poi dei costi aggiunti derivanti da assenteismo, bassa produttività, insoddisfazione al lavoro, ecc. Tenendo presente che, secondo le ricerche e la letteratura scientifica sull’argomento, il fatto di investire sulla salute e sulla sicurezza permette di risollevare il morale dei dipendenti e aumentare il successo dell’azienda.

Investiamo quindi sulla promozione della salute psicologica per il successo della nostra azienda!
Come dirigenti o collaboratori di una azienda siamo consapevoli dei problemi derivanti dalla demotivazione del personale, dell’organizzazione del lavoro, dal tasso di assenteismo cronico, dei numerosi conflitti da gestire, e degli sforzi necessari per trovare la “persona giusta per il posto giusto” soprattutto quando un dipendente molto stimato decide di lasciare il posto di lavoro.

Oltre ad essere lunghi, costosi e onerosi, questi compiti impediscono di spendere tutte le energie in un progetto più vantaggioso per l’azienda, come la cura della clientela e la pianificazione strategica dell’azienda.

Investiamo per migliorare la nostra salute mentale!
Sapendo che la maggior parte delle persone trascorre i 2/3 della giornata al lavoro, parlando di qualità della vita non possiamo fare a meno di riferirci alla qualità del nostro lavoro

Di fatto, le ricerche evidenziano che il luogo di lavoro ha una certa incidenza sulla salute e il benessere dei dipendenti e anche sulla salute dell’azienda.
Ormai conosciamo molto bene la incidenza dello stress professionale sulla salute e molti fattori che possono determinarlo. Ad esempio: il livello di controllo sul lavoro, il carico di lavoro, la responsabilità nei confronti degli altri, le esigenze di riconoscimento personale, l’ambiguità rispetto all’avvenire dell’impiego, ecc. Tra questi elementi la variabile principale che incide sulla salute – e contemporaneamente sul livello di soddisfazione che il dipendente ha verso il suo ambiente di lavoro – è il controllo che egli esercita sul suo lavoro stesso, ossia la sua sfera (ampiezza) decisionale. Più semplicemente, l’ampiezza decisionale può essere definita come il grado di controllo che una persona può esercitare sul suo ambiente di lavoro e sulle sue attività quotidiane, le decisioni che vengono prese e i risultati di tali decisioni. Essa è anche correlata con la capacità di poter dire “no” o di negoziare il carico di lavoro senza timore di rappresaglie o di reprimende.

Dirigere, essere a capo di un comparto o di una equipe, insegnare, delegare delle responsabilità, significa trasmettere esperienza. Ciò che viene trasmesso o trasferito dovrebbe essere garantito dalla storia della persona che avvia tale scambio e dai suoi “maestri” di riferimento.
Dirigere, comandare, essere leader, vuol dire anche “drammatizzare” la propria storia e il proprio vissuto professionale e personale.

Una gestione delle risorse umane che si basa sull’esperienza, non dovrebbe ridursi alla ripetizione di un corpus asettico di norme e procedure.
Non è un caso che molti autori in questi ultimi anni abbiano affrontato l’argomento, mettendo in relazione la funzionalità e le competenze di “facilitazione” insite nella leadership con la qualità del lavoro e il benessere delle persone.

Cito tra i molti:

• BACHMANN Kimberley, 2000, La création de milieux de travail sains: pas juste une histoire de casques e de battes de securité, Le Conference Board du Canada, (novembre), p. 37
Bachmann discute sul bisogno per i quadri superiori di affrontare la salute e il ben essere in ambito lavorativo in modo integrato; affinché si possa successo in una economia globale competitiva. Definisce un approccio globale in grado di promuovere la elaborazione di politiche e di programmi capaci di affrontare le questioni relative all’ambiente fisico, all’ambiente psico sociale e alle pratiche di salute individuale. Il lavoro suggerisce che tutti i diretti interessati, compreso i governi, i datori di lavoro, le organizzazioni non governative, le organizzazioni sindacali e i fornitori di servizi profit, hanno un ruolo da giocare creando un approccio globale alla salute nell’ambito lavorativo.

• BADARACCO Joseph L. Jr. 2001. “We Don’t Need Another Hero”, Harvard Business Review, vol. 79, n. 2 (settembre). P. 120 (7).
Questo testo descrive le caratteristiche dei leaders morali che agiscono in modo trasversale in prospettiva di vittorie discrete. Esso suggerisce che i leader discreti sono pratici, efficaci e validi. Sostiene che spesso è più efficace per i leader scegliere accuratamente i loro combattimenti piuttosto che “immergersi in una fiammata di gloria per un semplice sforzo drammatico”.
Badaracco fornisce linee direttrici di base per i leader morali: riportare le cose al domani, scegliere il combattimento, aggirare i regolamenti senza violarli, trovare un compromesso. Utilizza degli aneddoti per illustrare come ciascuna di queste linee direttrici può essere utilizzata per gestire dei dilemmi di ordine etico. Include un inserto che descrive due caratteristiche distintive dei leader morali discreti: le loro motivazioni sono definitivamente sfumate e la loro visione del mondo è chiaramente realista.

• BUHLER Patricia M., 2001, “Managing in the New Millennium: the agile manager”, Supervision, vol. 6, n. 8 (agosto), p. 13 (3)
Buhler descrive la necessità per i dirigenti di essere flessibili affinchè possano efficacemente incoraggiare la vivacità nel loro ambiente di lavoro. Fa emergere la necessità di trattare i dipendenti in modo eqanime e di rispondere ai loro bisogni individuali. Il documento fornisce esempi del modo in cui i dirigenti possono dare prova di flessibilità nel loro modo di ricompensare i dipendenti, di pianificare per il futuro, di utilizzare le nuove tecnologie per incentivare il lavoro, di far fronte ai giochi politici interni all’ufficio e di risolvere dei problemi.

• Canada. SOUS-COMITE’ DU CHF SUR LE MIEUX ETRE EN MILIEU DE TRAVAIL. 2000, Le mieux etre en milieu de travail – un défi a relever; Rapport du Sous Comité. (settembre), 74 p. Bilingue
Questo rapporto definisce il senso del benessere al lavoro e discute sulla sfida attuale da accogliere affinché la funzione pubblica federale diventi un “datore di lavoro di prima qualità”. Discute le principali questioni sollevate dai dipendenti nel Sondaggio promosso presso i funzionari federali nel 1999: carico di lavoro, equità nei processi di selezione, molestie morali e discriminazione, avanzamento professionale e apprendimento. Raccomanda anche dei mezzi secondo i quali i dirigenti possono abbordare tali questioni nel quadro della funzione pubblica federale. Contiene anche degli esempi di iniziative prese da diversi ministeri ed organismi di governo per affrontare tali questioni.

• Centre syndacal et patronal du Canada. 2000, Point de vue 2000: Le milieu de travail sain, 15 p., 17 grafiques.
Questo rapporto presenta i risultati di un sondaggio presso i dirigenti del settore pubblico e privato e di organizzazioni sindacali. Presenta un confronto di punti di vista degli intervistati in merito al ciò che costituisce un ambiente di lavoro sano.

Non volendo trascurare la importanza della qualità dell’organizzazione del lavoro per la salute psicologica dei lavoratori. Cito ad esempio:

• CANADA. SANTE’ CANADA, 2002, Conseil sur la gestion des risques associés au stress en milieu de travail, partie 2, p. 23-38
Questo documento fornisce delle informazioni sulle cause di stress organizzativo e le sue ripercussioni per le organizzazioni e le persone. Cerca di “aumentare la presa di coscienza e a ispirare l’azione concernente i rischi molto reali per la salute e la sicurezza portati da diversi agenti di stress tossico presenti in ambiente di lavoro”. Fornisce dei consigli sia alle direzioni che ai comitati per l’ambiente sulle modalità di affrontare efficacemente la questione dello stress. Include una serie di lucidi che possono essere utilizzati nel corso di una presentazione.

• DUGDILL L., 2000, “Developing a Holistic Undestanding of Workplace Health: The Case of Bank Workers”, Ergonomic, vol. 43, n. 10, p. 1738 (12).
Dugdill esamina i risultati di uno studio riguardante gli impiegati di una banca del Regno Unito e riferito al loro punto di vista sul rapporto tra i fattori psicologici, lo stile di vita e la salute. Enumera alcuni fattori che contribuiscono alla salute dei dipendenti includendovi il contenuto del lavoro, le relazioni, la concezione dei compiti, l’ampiezza del processo decisionale e il controllo del lavoro. Suggerisce che le strategie di promozione della salute in ambiente di lavoro devono affrontare sia questioni di stile di vita psicosociali che individuali.

• DYCK Dianne e Tony ROITHMAYR, 2001, “The Toxic Workplace”, Benefits Canada, vol. 25, n. 3 (marzo), p. 52 (1=9
Gli autori riferiscono dell’impatto di agenti stressanti dell’ambiente di lavoro su individui e organizzazioni. Sottolineano i costi dello stress e pongono dei dubbi sul livello dei successi dei programmi che hanno come finalità il benessere nel trattare le cause dello stress. Presentano uno schema per individuare e misurare le cause fondamentali dello stress in ambito lavorativo.

• GEMIGNANI Janet, 2001, “When Work Becomes Toil”, Business & Health, vol. 19, n. 6 (giugno) p. 7 (1)
L’autrice presenta i risultati di un sondaggio riferito su 1000 operai americani effettuato da Families and Work Institute. Essa discute della prevalenza dei sentimenti di surmenage tra gli operai americani. Enumera una serie di fattori relativi all’ambiente di lavoro che contribuiscono al surmenage. Descive le conseguenze del surmenage per le persone e le organizzazioni. L’articolo include brevi statistiche riguardo le differenze dei sentimenti di surmenage dichiarati per età e professione.

• LEITER Michael P. e Christina MASLACH, 2001, “Burnout and Quality in a Sped-Up World”, The Journal for Quality and Participation, vol. 24, n. 2 (estate), p. 48-51
In questo articolo, gli autori trattano della importanza di affrontare la questione dell’esaurimento all’interno delle organizzazioni. Presentano uno schema diagnostico del potenziale di esaurimento nei dipendenti. Segnalano un metodo per valutare la situazione attuale nelle organizzazioni e avviare il processo di cambiamento.

• LYNCH Wendy D., 2001, “Health Affects Work and Work Affects Health: We Know How Health Affects Productivity, But Do We Undestand How Work Affects Healt?”, Business & Healt, vol. 19, n. 10 (nov-dic) p. 31 (4)
Questo articolo tratta degli inconvenienti del lavorare per tante ore e rinunciare alle vacanze. Presenta i risultati delle ricerche che evidenziano il costo per i dipendenti dei comportamenti ad alto rischio come ad esempio il tabagismo. Formula dei dubbi riguardo i provvedimenti in cui piccoli compromessi da parte dei dipendenti in favore del lavoro possono avere un impatto negativo a lungo termine sulla produttività. Enumera alcune conseguenze negative delle troppe ore di lavoro includendo la privazione del sonno, la depressione e la diminuzione delle competenze interpersonali. Tratta anche dei problemi acuti ai quali fanno fronte i dipendenti in situazioni di lavoro di forte domanda e debole controllo, in particolare coloro che devono anche trattare con un cattivo dirigente. Sottolinea il bisogno di affrontare i problemi sistemici nel contesto di lavoro piuttosto che semplicemente concentrarsi su interventi circoscritti come i programmi di gestione dello stress.

• MASLACH Christina e Michael P. LEITER, 1999, “Take This Job and Love It!”, Psychology Today, vol. 32, n. 5, p. 50 (6)
Questo articolo mette in luce come gli ambienti di lavoro contribuiscono all’esaurimento dei dipendenti. Gli autori pongono in evidenza sei fattori chiave che contribuiscono al senso di benessere di un dipendente: un carico di lavoro ragionevole, il sentimento di avere il controllo della situazione, l’occasione di ricevere dei riconoscimenti (ricompense), un sentimento di comunità, la fiducia nel luogo di lavoro e la condivisione di valori. L’articolo fornisce esempi della manifestazione di questi fattori nell’ambito lavorativo e descrive degli scenari che mostrano come i dipendenti possano far fronte alle situazioni e alle sfide che possono sorgere. Include una lista di misure da prendere per provocare miglioramenti dell’ambiente di lavoro.

• Mental Health in the Workplace, 2001, Worklife Report, vol. 13, n. 2, p. 11 (2)
Questo articolo riassume i risultati di uno studio dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro sulla incidenza e il costo dei problemi di salute mentale in ambito lavorativo. Fornisce informazioni sulla incidenza e le cause delle malattie legate alla salute mentale in cinque paesi: gli Stati Uniti, l’inghilterra, la Germania, Finlandia e Polonia. Tratta dei costi malattia mentale per le persone e i datori di lavoro ma anche dei progressi fatti fino a questo momento nelle soluzioni da apportare a questo problema.

• RAIMY Eric, 2001, “Back to the Table”, Human Resource Executive, (15 marzo) p. 1, 28-32
Questo autore presenta il concetto di un processo doppio di ristrutturazione degli orari di lavoro nel quale degli sforzi vengono fatti per concepire i compiti con la finalità di aumentare la produttività e allo stesso tempo ridurre le ore di lavoro. Include degli esempi che mostrano come delle organizzazioni come FleetBoston, Bank of America e Marriot International hanno messo in opera questo processo con successo.

Ho citato solo due aspetti della questione, vi è però un certo numero di dati comuni che emergono dalle ricerche e che possono essere riassunti in tre ambiti: le caratteristiche di un buon posto in cui lavorare, le condizioni che facilitano la creazione di salutari posti di lavoro e allo stesso tempo gli strumenti e le tecniche per aiutare i datori di lavoro a creare dei posti di lavoro di qualità.
Ecco un riassunto di questi messaggi:

Le caratteristiche di buoni posti di lavoro
–  le persone sono dedite al lavoro
–  vi è una reciprocità di rispetto e fiducia tra i dipendenti e i dirigenti
–  le persone ritengono di essere trattate con equità
–  vi è uno scopo ben preciso
–  i dipendenti sono capaci di garantire un equilibrio tra il loro lavoro e le loro responsabilità personali
–  i dipendenti si sentono al riparo dalle molestie psicologiche o morali e dalla discriminazione

Condizioni che aiutano a creare dei posti di lavoro salutari
–  la direzione è dedita al compito
–  i quadri intermedi sono motivati e vengono adeguatamente riconosciuti e compensati
–  comunicazioni aperte e oneste vengono incoraggiate dovunque nell’organizzazione
–  il rendimento viene valutato in funzione dei risultati piuttosto che sulle apparenze
–  la partecipazione dei dipendenti al processo decisionale viene incoraggiata e facilitata
–  viene delegata ai dipendenti una parte del controllo sul loro lavoro

Strumenti per agevolare la crescita delle persone e dell’azienda
–  sondaggi sul clima organizzativo
–  programmi di formazione e di perfezionamento “centrati”
–  impiego di strumenti di valutazione per misurare i progressi
–  elaborazione e messa in opera di strategie e programmi che favoriscono l’impegno responsabile sul piano professionale e personale
–  elaborazione di progetti pilota e creazione di gruppi di lavoro impegnati sugli elementi chiave dell’ambiente di lavoro
–  programmi di gestione del cambiamento che facciano perno sui comportamenti come mezzi per realizzare un cambiamento culturale durevole
–  tecniche specifiche per definire meglio il compito, l’impegno, carico di lavoro e la programmazione delle attività

Per una più accurata descrizione dei casi di “sofferenza” organizzativa e individuale e degli interventi di prevenzione che possono essere realizzati, sono a disposizione per i vostri quesiti. Sia durante la pausa che inizierà a breve, subito dopo avere ringraziato tutti voi per la presenza e la cordiale attenzione. Sia nel caso vogliate incontrami o scrivermi in un altro momento.

Grazie.

 

Contributo di Vittorio Tripeni al convegno:

Qualità dell’organizzazione del lavoro e salute psicologica – Una riflessione nell’ottica della Psicologia del Lavoro e dell’Organizzazione per prevenire i rischi della salute psicologica correlati al lavoro.

Milano, Via Bernardino Luini 5 – 29 maggio 2003

 

Qualità dell’organizzazione del lavoro e salute psicologica

Trovo ancora interessante questo articolo scritto per Risorse Umane in Azienda (Maggio/Giugno 2003). Mi sembra molto attuale.

 

Che il disagio psichico, la qualità dello stato d’animo, è concausa – se non fonte diretta – di malattia, è ormai risaputo da tempo. Il fatto che, anche negli Stati Uniti, un cospicuo numero di psichiatri abbia richiesto all’American Board of Medical Specialties che la psicosomatica venga riconosciuta a tutti gli effetti come branca ufficiale della medicina, ammanta ancora più di rispetto il dato di realtà. Naturalmente il legame tra buon umore, serenità, equilibrio e salute del corpo è stato già riconosciuto da diversi studi scientifici ed è un fondamento che anima i medici clown, ma anche le direzioni aziendali più avvedute. Stare bene vuol dire fare bene.

Quando i dipendenti sono soddisfatti del loro ambiente di lavoro e delle loro condizioni di lavoro, possono sentirsi maggiormente coinvolti e responsabilizzati in ciò che fanno e offrire servizi e prodotti di alta qualità alla clientela.

Le aziende a loro volta stanno imparando a non trascurare che l’incremento della produttività e la qualità dei servizi si trova sempre più in relazione con il morale dei collaboratori e il benessere (nei termini di salute e sicurezza) nel luogo di lavoro. Stanno apprendendo che quando investono sulla salute ed il benessere dei loro collaboratori ne traggono un beneficio in termini di qualità del lavoro, creatività e migliore servizio al cliente. Ed hanno appreso anche quanto sia importante contare – in termini di opportunità – sulle evoluzioni imposte dall’ambiente, per farne una vera leva di cambiamento, una reale opportunità per mobilitare le persone e la loro creatività; per concepire, con esse, una impresa intelligente e proattiva, flessibile e umana, redditizia e generosa.

La qualità del lavoro può influire direttamente sulla nostra salute fisica e mentale. Quando si parla di salute mentale al lavoro si fa riferimento al sentimento di benessere o di malessere psicologico ed emotivo che la persona sperimenta sul luogo di lavoro. La letteratura in questo caso mette in relazione specifici fattori di rischio psicologico con il rischio lavorativo (in relazione ai ruoli e ai compiti delle persone, in termini di quantità di lavoro, responsabilità, capacità o competenze, incertezze, priorità, processi spesso interrotti, ecc.) ed il rischio organizzativo ( conseguente a un conflitto di valori, a uno scarso coinvolgimento nelle decisioni, a una mancanza di riconoscimento e di rispetto da parte dei superiori e/o colleghi, alle limitate prospettive di carriera, alla scarsa autonomia decisionale, ecc.). A queste evenienze possono aggiungersi caratteristiche più individuali, che possono predisporre la persona a sviluppare un vero problema di salute psicologica. Ad esempio, è stato dimostrato che le personalità di tipo A, cioè le persone considerate come competitive, ambiziose, perfezioniste e che hanno bisogno di controllare ogni cosa, sono più soggette a problemi di salute mentale. Lo stesso si può dire per quei lavoratori che mettono in atto strategie di adattamento inappropriate; ad esempio quelli che consumano droghe o alcolici per tentare di diminuire la tensione psicologica o per alleggerire il proprio stato d’animo e “curare” il proprio stress.

Il lavoro può avere conseguenze dirette sulla nostra salute fisica e mentale; lo stress è senza dubbio il problema più comune che pone molto bene in evidenza lo squilibrio tra le risorse interne della persona e le richieste dell’esterno, alle quali l’individuo “deve” rispondere.

Nel corso degli ultimi anni, cambiamenti su larga scala di natura socio economica e tecnologica hanno influito in modo considerevole sui luoghi di lavoro ed alcuni cambiamenti che si ritengono di miglioramento – cito la recente ricerca sulla stress correlato al lavoro realizzata dall’Institute of Work, Healt & Organisations, dell’Università di Nottingam per conto dell’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro – per l’ambiente di lavoro “possono produrre l’effetto opposto”.

Cambiano le caratteristiche delle organizzazioni e dei settori di lavoro; cambiano i tempi di lavoro e i contratti di lavoro; cambia la organizzazione del lavoro, la presenza dominante delle nuove tecnologie imprime maggiore velocità ai cambiamenti; cambia la qualità e il genere dell’incidenza dei disturbi correlati al lavoro e all’organizzazione del lavoro.
Attualmente diventa sempre più evidente e straordinariamente importante il ruolo centrale della soggettività e della intersoggettività nei rapporti di lavoro e nelle organizzazioni. Emerge la necessità di trasformare le disfunzioni e gli elementi critici emergenti in esperienze pro-positive, avviare interventi di formazione e di ricerca adeguati alle mutate condizioni.

La psicologia e gli psicologi non sono esclusi in queste trasformazioni; la psicologia del lavoro non può esimersi dalle responsabilità che le competono e dall’accettare la sfida delle trasformazioni per apprendere dalle nuove esperienze e accrescere la cultura della Psicologia del Lavoro e dell’Organizzazione quale disciplina in grado di accompagnare concretamente le organizzazioni di ogni tipo e dimensione lungo un percorso di sviluppo continuo e di continue trasformazioni.

Il tema del cambiamento e quello delle società ultramoderne o ipermoderne, coinvolge anche gli psicologi del lavoro. Perché le “complessità”, i rapporti interpersonali che vengono vissuti in azienda, la crescita e lo sviluppo degli individui nel contesto produttivo e organizzativo, la qualità della vita delle persone e degli ambienti di lavoro, costituiscono un campo privilegiato per la psicologia del lavoro e dell’organizzazione.

Non si può trascurare che, ad ogni livello organizzativo, le persone soffrono pressioni nuove e particolarmente intense derivanti in vario modo dalle politiche di qualità e di eccellenza, dall’accrescimento di produttività, ecc. che vengono attuate attraverso l’utilizzo di “risorse umane” che fanno appello soprattutto alla mente e al mentale di chi lavora.

All’interno delle organizzazioni, le cause di tensione mentale e affettiva possono situarsi su differenti piani: la organizzazione del lavoro, la eventuale mancanza di risorse umane appropriate, le esigenze della clientela, il ritmo serrato dell’attività, le relazioni interpersonali, ecc.
La maggior parte di noi passa più di un terzo del suo tempo al lavoro e le esigenze reali del lavoro diventano sempre più importanti. La qualità della nostra vita è direttamente proporzionale alla qualità del nostro lavoro.

Con il convegno “Qualità dell’organizzazione del lavoro e salute psicologica” (Milano, 29 maggio 2003) vogliamo proseguire il nostro cammino di ricerca e di confronto coinvolgendo i colleghi della psicologia del lavoro e delle organizzazioni, i datori di lavoro e i direttori del personale, i medici del lavoro e gli altri professionisti interessati, in una giornata di studio affinché insieme si possa realizzare un confronto sereno e produttivo che giunga ad evidenziare la sostenibilità di interventi che, con il sostegno della ricerca scientifica nel campo del la psicologia del lavoro e delle organizzazioni, contribuiscano ad aumentare la qualità delle salute psicologica in ambito lavorativo ed organizzativo. Soprattutto alla luce della strategia comunitaria per la salute e la sicurezza 2002-2006.

La strategia comunitaria per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro, si conferma impostata sulla prevenzione e progettata a livello del benessere individuale, di quello organizzativo e sociale, con misure diversificate, interdisciplinari, capaci di affrontare i rischi tradizionali e quelli emergenti nelle aziende.
Lo scopo rimane quello di creare ambienti di lavoro che forniscano e facilitino un ritorno di benessere economico e sociale nonché un ritorno di vantaggi competitivi per le aziende.
Le indicazioni comunitarie confermano la importanza della qualità della vita lavorativa per il benessere delle persone e costituiscono uno schema di riferimento per accogliere una specifica domanda sociale di professionalità psicologica nei contesti di lavoro e per potenziare gli appositi servizi a livello aziendale.

Facendo riferimento a gli obiettivi che la Comunicazione della Commissione europea 2002/118 pone in primo piano e che, nel loro insieme definiscono un profilo di psicologo esperto dei problemi della sicurezza e della salute occupazionale, si possono schematizzare almeno le seguenti aree di attività psicologica:
a) essere in grado di effettuare una diagnosi della qualità e degli effetti del lavoro, a livello individuale, correlata al contesto di lavoro;
b) essere in grado di effettuare una diagnosi della qualità e degli effetti del lavoro, a livello di gruppo e di organizzazione;
c) essere in grado di identificare e di effettuare valutazioni dei rischi di natura “trasversale”, psicosociale, connessi con le specifiche situazioni di lavoro, cooperando con gli altri specialisti e funzioni aziendali deputati alla valutazione dei rischi e alla individuazione di misure di sicurezza e salute lavorativa;
d) essere in grado di effettuare valutazioni di rispondenza ai principi ergonomici degli strumenti di lavoro;
e) essere in grado di progettare programmi multidisciplinari di intervento preventivo e soluzioni correttive;
f) essere in grado di progettare e realizzare progetti di stress management, di counseling individuale e di gruppo;
g) essere in grado di progettare interventi informativi e formativi efficaci adottando le tecniche psicologiche più adatte ad attivare processi di apprendimento da parte degli operatori;
h) essere in grado di cooperare con gli altri specialisti allo sviluppo di programmi di promozione e di sistemi di comunicazione

Il tema della salute e del benessere al lavoro non si limita alla considerazione degli effetti negativi individuali, ma si connette con i numerosi fattori che incidono sulla qualità della vita lavorativa in una organizzazione
Lo sforzo di rispondere alle nuove domande sociali di qualità della vita lavorativa e di salute e benessere segnalate dalla Commissione europea può concretizzarsi in una nuova figura professionale che renderà progressivamente più articolata la categoria generale degli psicologi del lavoro e dell’organizzazione.
In tale contesto di riferimento il convegno trae spunto e si propone come momento di presentazione e diffusione di una cultura della prevenzione nel campo della salute mentale al lavoro alla luce della Psicologia del Lavoro e dell’Organizzazione.
Intende inoltre stimolare dibattito e riflessioni più ampie sui meccanismi che presiedono le scelte in questo particolare settore e sulle prospettive ed opportunità nuove che si aprono, a livello europeo, nazionale e delle singole Regioni, nell’attuale scenario normativo, politico istituzionale, economico e sociale, in forte evoluzione.

L’assistenza agli anziani nel corso di eventi critici

Gli anziani costituiscono un gruppo vulnerabile che ha bisogno di attenzione e di servizi specializzati, durante e dopo un’emergenza.
Lo stato di salute, la situazione finanziaria e sociale, l’isolamento come pure la mancanza di risorse che permettono di superare le situazioni difficili, costituiscono alcuni dei numerosi fattori che possono aumentare i bisogni delle persone anziane alle prese con un evento critico. Come quello rappresentato dalla grande epidemia di Coronavirus che ci sta coinvolgendo ora.

Il primo obiettivo di un intervento nei confronti delle persone anziane riguarda la eliminazione degli stereotipi che di solito si hanno nei loro riguardi.
La maggioranza delle persone anziane non sono fragili, malate, disorientate, inattive, dipendenti, ecc.
Gli anziani costituiscono, nella stragrande maggioranza, un gruppo autonomo pieno di risorse che vuole soddisfare i propri bisogni e pianificare in che modo soddisfarli.

Dalla letteratura scientifica e dalle ricerche sul campo, emerge chiaramente che molte persone anziane provano notevoli difficoltà prima di un evento critico. Ad esempio, non ricevono sempre adeguate segnalazioni concernenti la incombenza di un pericolo, una emergenza imminente o in corso. Anche perché a volte queste persone si trovano fuori del circuito di allertamento della protezione civile, oppure non inserite nelle reti sociali parentali o amicali.
Poi ci sono i casi di disabilità fisiche, come ad esempio la sordità o altre malattie, tanto che l’isolamento può impedir loro di udire i messaggi di allerta.

Anche se le persone anziane comprendono i segnali o i messaggi di allarme, diversi fattori possono impedire di allontanarsi dai luoghi dell’emergenza o di auto proteggersi. Ad esempio:

Inabilità
L’inabilità fisica o mentale, lo stare su una sedia a rotelle, la cecità, la sordità, le difficoltà di muoversi autonomamente, sono alcuni dei fattori che possono diminuire la loro capacità di lasciare – se necessario – il loro appartamento o di prendere le necessarie misure di auto tutela.

Mancanza di risorse e di informazioni
Alcune persone anziane spesso non dispongono dei mezzi di trasporto necessari o di assistenza fisica sufficiente per evacuare il loro alloggio. Può capitare anche che esse non sappiano dove andare o che fare per proteggersi, ne’ dove reperire le informazioni necessarie per conoscere meglio il pericolo che le minaccia.

Rifiuto di lasciare il luogo in cui stanno
Alcune persone anziane possono porre molta resistenza ad una evacuazione, per il fatto di sentirsi molto legate affettivamente ai loro beni: la casa, gli oggetti o gli animali, che esse si rifiutano di abbandonare. Perché hanno paura che entrino degli estranei, non vogliono lasciare la loro casa vuota per paura di essere derubati, o perché sono incapaci di valutare adeguatamente la situazione che si sta presentando.

Cosa fare?
Dato che la maggior parte delle persone anziane sono in grado di gestire autonomamente gli eventi, è importante occuparsi di quelle che sono a rischio; affinché si possa intervenire in tempo per avvertirle e nel caso evacuarle, oppure aiutarle a mettere in atto tutte le misure di autotutela necessarie per proteggersi.
Le persone che corrono maggiori rischi potrebbero essere quelle che:
– hanno più di 75 anni;
– abitano sole o che sono socialmente isolate;
– presentano problemi di locomozione;
– hanno perduto una persona cara nel corso degli ultimi due anni;
– sono state ricoverate in ospedale recentemente;
– sono incontinenti;
– sono disorientate e/o confuse;
– abitano in zone a forte concentrazione di anziani, come quelle in cui vi sono centri di accoglienza, di abitazioni protette, di luoghi di cura specializzati per persone anziane.

Ecco qualche punto di riferimento che può migliorare la pianificazione di interventi di urgenza per gli anziani a rischio:
un registro (tutelato dai vincoli previsti dalla legge) in cui scrivere nomi, indirizzi e bisogni (in termini di inabilità) delle persone anziane maggiormente sensibili;
un piano di emergenza comprendente le modalità e i meccanismi di avvertimento diretto delle persone anziane a rischio, così pure dei metodi e mezzi di evacuazione da parte della polizia, il 118 o il volontariato;
allo scopo di accelerare le procedure di evacuazione in caso di evento improvviso, sarà bene evidenziare sulla topografia comunale le residenze delle persone anziane a rischio.

Avvertire le persone anziane
Considerate le problematiche di natura sensoriale di numerose persone anziane, una segnalazione di un evento imminente o di una evacuazione fatta attraverso i sistemi di informazione audio e video potrebbe rivelarsi insufficiente.
Sarebbe dunque opportuno discutere, prima di tutto, di queste difficoltà con gli operatori dei mezzi di informazione e suggerire loro un sistema di allarme più appropriato; tale da compensare i disturbi visivi o uditivi che riguardano le persone anziane. Ad esempio, nei loro messaggi di allerta, i mezzi di informazione potrebbero consigliare ai loro ascoltatori di avvertire le persone anziane a loro vicine dell’evento imminente e aiutarle a evacuare o ad attivarsi per prendere le necessarie precauzioni.

Collegamenti
I responsabili di organizzazioni sociali che rappresentano interessi di categoria o attività di cura e assistenza per le persone anziane, il volontariato e le parrocchie (naturalmente anche le altre rappresentanze religiose) dovrebbero costituire una rete con l’organizzazione della protezione civile locale. Questa a sua volta sarà in continuo contatto con gli operatori dell’emergenza incaricati di seguire la evoluzione dell’imminente evento. Tutti questi organismi possono così lavorare in rete concertando le loro iniziative e assicurando in questo modo un adeguato coordinamento del piano di emergenza.

Assistenza in caso di evacuazione
– Il personale del soccorso pubblico 118, la polizia urbana, il volontariato di protezione civile, devono entrare immediatamente in comunicazione con le persone anziane a rischio che abitano la zona coinvolta dall’evento.
– Occorre prevedere delle modalità di assistenza per l’evacuazione ed anche dei mezzi di trasporto verso i centri di accoglienza o verso altri ricoveri temporanei.
– Rassicurare le persone anziane, che esse possono lasciare le loro abitazioni e i loro beni, perché la polizia sorveglierà le case e proteggerà le loro cose. (il piano di emergenza potrebbe contenere anche un piano di evacuazione degli animali domestici).
– Ricordare alle persone anziane di portare con loro le medicine e non soltanto le pillole. Quando si è pressati dall’urgenza, si dimenticano facilmente altre cose importanti: le gocce per gli occhi, gli inalatori, le pastiglie antiacido, le pastiglie di nitroglicerina. Sarebbe bene portare con se le eventuali grucce oppure l’apparecchio acustico o la dentiera.
– Gli operatori del soccorso 118 e gli altri soccorritori devono essere informati dei problemi particolari di trasporto delle persone anziane fragili verso i centri di accoglienza di urgenza o presso altre sedi, e della necessità di garantire loro le necessarie cure.

Reazioni emotive negli anziani
La maggior parte delle persone danno prova di resistenza e di coraggio di fronte all’emergenza, perché la loro esperienza (separazioni, divorzi, perdite di persone care, malattie, ecc.) ha permesso loro di costruirsi una capacità di recupero. Secondo la letteratura sulle emergenze,  le persone anziane, in quanto gruppo, hanno la tendenza a recuperare in fretta e più a loro agio, nel giro di un anno, rispetto ad altre fasce di età.
Tuttavia, per il fatto che certi anziani presentano effettivamente delle reazioni emotive e un certo stress, gli operatori del soccorso dovranno essere pronti a riconoscere queste situazioni e a soccorrere coloro che, nel periodo successivo all’evento critico, provano una reazione depressiva, confusione, accompagnata da una scarsa capacità di organizzarsi; oppure un sentimento di disperazione, di impotenza, di desolazione di fronte alla prospettiva di rifarsi una vita.

L’ansia, la depressione, la paura, la collera, i sensi di colpa e la tristezza sono sentimenti normali, anzi anche appropriati, c’è da aspettarseli.
Per le persone anziane, ciò può essere un mezzo per esprimere la propria inquietudine di fronte al loro avvenire, alla perdita della salute fisica, dei loro ruoli familiari, dei contatti sociali e della loro sicurezza finanziaria. Gli anziani tengono a conservare un senso di autonomia e in una certa misura di controllo sulla loro vita e il loro ambiente.
La collera è ugualmente una reazione normale da prevedere poiché essa permette alla persona di rispondere a ciò che l’ha colpita. Questa collera può essere diretta contro i bambini, i familiari o gli operatori del soccorso che non dovrebbero però allarmarsi ma anzi vedere in questa reazione delle persone anziane una modalità terapeutica di confrontarsi con le loro perdite.

La tristezza costituisce una reazione altrettanto normale e occorre permettere ed incoraggiare le persone anziane a piangere le loro perdite. I soccorritori dovrebbero riconoscere questo bisogno che hanno le persone anziane di piangere le loro perdite e dovrebbero tenere a bada i ragazzi o i familiari e tutti coloro che pensano di far bene cercando di evitare questa manifestazione di tristezza.

Il processo di lutto nelle persone anziane può esprimersi in maniere diverse:
– dimenticarsi di prendere le medicine;
– rifiutare di mangiare;
– incapacità di decidere che fare;
– rimuginare sull’incidente occorso.

Talvolta la reazione iniziale delle persone anziane è di dire che “tutto va bene”, ma ciò può essere una falsa impressione; queste persone hanno in realtà bisogno di aiuto per superare le perdite. E’ allora che gli operatori del soccorso rivestono un ruolo molto importante prestando loro un ascolto attivo.

 

 

 

Già pubblicato in:
V. Tripeni – La gestione dell’emergenza. I rapporti con la cittadinanza nel corso di eventi critici sul territorio. Il ruolo degli amministratori pubblici durante l’emergenza
Dispensa del corso FORMEL, Venezia, 21 settembre 2007

Trasformare le disfunzioni e gli elementi critici in esperienze pro-positive

Star bene con se stessi e con gli altri è certamente un obiettivo ambizioso e faticoso da raggiungere, ma perseguibile con facilità proprio partendo dal presupposto che è un diritto dovere curare e confortare il proprio stato d’animo.

E dato che il benessere psicologico di ciascuno di noi dovrebbe essere considerato il nucleo fondamentale e indispensabile per una buona qualità della vita, ad esso dovrebbe essere conferito il giusto merito ed attribuito un adeguato valore.

Proprio per questo, chi si trova nella condizione di voler richiedere un supporto psicologico, ma non ha le possibilità economiche per conseguire tale obiettivo privatamente e deve purtroppo confrontarsi con liste d’attesa lunghissime per accedere ai servizi pubblici, va aiutato.

Dobbiamo essere consapevoli che, in tema di salute e qualità della vita, il lavoro – inteso in senso lato come investimento di energie personali per il conseguimento di un determinato fine – è innanzitutto una fonte di riconoscimento individuale e, di conseguenza, con un forte impatto sulla nostra identità sociale.
Se proviamo a renderci conto che viviamo la maggior parte della nostra giornata immersi nelle nostre attività di lavoro, non possiamo nasconderci che attualmente la qualità della nostra vita è rappresentata soprattutto dalla qualità della vita professionale; cioè dalla qualità del lavoro (sia quando c’è lavoro che quando non c’è).

Viviamo già da tempo una mutazione “genetica” nelle nostre condotte di lavoro. In alcune circostanze possiamo verificare una vera alterazione dei parametri qualitativi della nostra vita e sono presenti nuove disfunzioni che attualmente stanno affliggendo la salute delle persone.
Da una parte vi sono problematiche di tipo “fisico”: disturbi molto spesso cronicizzati e in stretto rapporto con la fatica mentale e lo stress; dall’altra sono evidenti le problematiche di natura “psichica” o “mentale”, derivanti da un non armonico rapporto con se stessi, i propri colleghi, i dipendenti, il lavoro e il ruolo.
Si tratta di campanelli d’allarme che mostrano molto chiaramente la necessità di una riflessione sulla salute al lavoro nell’attuale clima di accresciuta competizione e di cambiamenti nei modelli di occupazione e trasformazioni nelle pratiche professionali.

Con sempre maggiore frequenza oggi proviamo una certa inquietudine per le conseguenze di modelli organizzativi e di procedure di lavoro che sembrano aumentare soprattutto la gravosità dei carichi mentali.
Alla richiesta di fare presto, meglio e a meno costi, le aziende e le organizzazioni sono costrette a introdurre nuove pratiche e procedure organizzative che comportano l’assunzione di compiti nuovi e più impegnativi per le persone che vi lavorano.
Le difficoltà e i problemi nuovi, sono segnali che impongono di aggiornare i nostri strumenti professionali i quali, naturalmente, coinvolgono a vario livello specifiche competenze e professionalità.

Questo presuppone che venga posta una attenzione più marcata alla “socializzazione” della psicologia, che essa non resti solo appannaggio degli esperti, ma faccia parte delle competenze di base di ogni individuo: per la vita quotidiana, per il lavoro, per le relazioni che essa vorrà intessere.

Da qui la necessità di trasformare le disfunzioni e gli elementi critici emergenti in esperienze pro-positive, avviando interventi di formazione e di ricerca adeguati alle mutate condizioni.

La psicologia e gli psicologi non sono esclusi in queste trasformazioni. Perché ormai qualsiasi intervento di promozione della salute, qualsivoglia attività di prevenzione in fatto di salute, non può prescindere dalla cultura della psicologia
La psicologia ha davanti a sé una lunga strada di continua ricerca azione, un costante “cimento” che offrirà a ciascuno la opportunità di sentirsi al passo con le evoluzioni dei bisogni professionali autodiretti ed eterodiretti.

In questo faticoso momento dell’emergenza Coronavirus (in cui è forte anche il pericolo di una pandemia mentale) si parla spessissimo nei mass media soprattutto del disagio esistenziale, ma sono poco diffuse le conoscenze su quanto si può fare e si fa per promuovere il benessere psicologico.

La nostra iniziativa per promuovere il benessere psicologico si basa sulla convinzione, ormai diffusa, che il migliore modo di prevenire il malessere delle persone non è quello di intervenire direttamente su di esso, ma di perseguire iniziative volte a potenziare abilità fondamentali per l’adattamento nei diversi contesti di vita.

Le condizioni di autoefficacia in questo caso costituiscono gli indicatori più possibili di tali capacità e pertanto rappresentano fondamentali determinanti del benessere delle persone.
Occorre considerare gli individui come agenti attivi del loro sviluppo, perché essi sono in grado di trarre vantaggio dalle relazioni con se stessi, gli altri, il lavoro, la famiglia, ecc.

Ciò che contraddistingue le condinzioni di autoefficacia delle donne e degli uomini è la loro specificità: tali condinzioni variano in relazione alle diverse aree del funzionamento umano ed in relazione ai diversi ambiti in cui si declina l’esperienza individuale.
Molti studi, anche nel contesto italiano, hanno sottolineato l’importanza del senso di autoefficacia, nelle sue diverse articolazioni relazionali, nel promuovere il benessere psicologico ed ostacolare le condizioni di rischio.

Lo psicologo è in grado di fornire suggerimenti di indirizzo e intervento, per agevolare nelle persone le abilità cognitive, emotive ed interpersonali indispensabili per il loro benessere. Aiuta a riconoscere che le strategie proattive possono agevolare il benessere psicologico, legato alla attività lavorativa, all’allevamento dei figli, ecc.
Mettendo in evidenza che esse svolgono un ruolo importante anche sulla collaborazione e l’aumento di engagement dei collaboratori.
Prende parte attiva nella eliminazione di pregiudizi sul disagio psichico e facilita lo scambio di buone pratiche per agevolare nelle persone abilità cognitive, emotive ed interpersonali indispensabili per il loro benessere.
Rendendo così evidente che è sempre più necessario tener conto dei bisogni più esplicitamente e dichiaratamente psicologici e spirituali, per mantenere una sana e soddisfacente qualità della vita.

Il benessere delle relazioni

Spesso quando incontro dirigenti o manager, per un parere professionale o anche per un breve scambio di impressioni a margine di un evento, ogni tanto li sento raccontare di “problemi umani” verso i quali provano una legittima difficoltà. A volte la situazione rischia di degenerare miseramente, in altre si corre anche il pericolo di essere oggetto di aggressioni verbali o fisiche. Talora non è infrequente incontrare elementi veramente difficili da gestire, eterni insoddisfatti, persone continuamente scontente che rendono la vita pesante a colleghi e collaboratori.

I miei interlocutori vogliono farmi capire quanto certe volte possa essere complicato, se non impossibile, portare avanti una iniziativa, una attività nuova o un progetto. Svolgere un compito di guida o di coordinamento, mantenere un minimo di agio all’interno di una riunione. Talora si fa molta fatica a organizzare le persone e il gruppo, farle partecipare attivamente, ricondurre le discussioni sul tema all’ordine del giorno, gestire le tensioni e i conflitti. Far fronte ai pensieri negativi, alle frasi killer, al fuoco incrociato per evidenziare tutte le difficoltà e tentare di affossare definitivamente l’idea.

Un collaboratore “problematico” è una spina nel fianco per un capo diretto. Talvolta, lo è anche per i suoi colleghi e spesso questi ultimi fanno pressione sul dirigente affinché egli possa risolvere il problema e faciliti un’atmosfera di lavoro più tranquilla. In alcuni casi la stanza del capo può diventare l’ufficio del pianto (“il mio ufficio è diventato un ufficio reclami …”) di eventuali clienti insoddisfatti o addirittura offesi dal comportamento del dipendente.

Sarà forse perché in azienda si è più interessati alla valutazione delle performance, ai bilanci e ai risultati delle vendite e meno all’interesse per le relazioni tra le persone che lavorano? Senza dubbio i numeri sono fondamentali per la sopravvivenza e il progresso dell’organizzazione aziendale e per la definizione delle strategie future. Tuttavia è necessario considerare che il successo passa anche attraverso un esame approfondito della disposizione mentale dei dipendenti e di quel loro patrimonio di competenze e abilità individuali specificamente umane. Ad esempio, chiedersi chi fa che cosa, come, in quale stato d’animo, è fondamentale per considerare il valore della relazione tra le persone e il loro lavoro.

Le aziende stanno di nuovo lasciando il passo a logiche autoritarie di funzionamento organizzativo. Probabilmente questo è dovuto ai cambiamenti in corso e soprattutto alla pressione del breve termine dovuta agli imperativi dei “numeri”, Ad esempio, è vero che i dirigenti attualmente sono meno numerosi di un tempo, tuttavia non è una spiegazione sufficiente quando alcuni di essi si fanno notare per il loro sbrigativo modo di porsi in relazione con i collaboratori.

Sembra quasi che la cultura manageriale moderna, in fatto di miglioramento dei processi comunicativi interni e di un cambiamento di cultura e di comportamenti nella gestione delle risorse umane, non sia ancora entrata del tutto nelle nostre aziende. Forse c’è una scusante, tenendo conto che i manager vengono valutati più volentieri rispetto alla realizzazione di risultati quantitativi (tassi di produttività, riduzione dei costi, standard di lavoro o quote di vendita) e quasi mai rispetto alle loro capacità di mettere in collegamento idee e persone. È raro che li si giudichi sulla base delle loro abilità di far crescere una equipe o sulla perizia di far crescere i propri collaboratori; ambedue elementi fondamentali per l’evoluzione dell’azienda e la sostenibilità organizzativa.

A loro volta molti i manager affermano che, per loro esperienza, è difficile ottenere i rendimenti desiderati senza esercitare una certa autorità sui dipendenti; che ci si arrabbia perché costoro non prendono iniziative e stanno ad aspettare che gli si dica cosa fare. Vero che si può ottenere, attraverso l’autorità, che i dipendenti eseguano i loro compiti, però … per ottenere di più, occorre farseli alleati, mobilitarli, ma soprattutto tenere conto delle loro attese di riconoscimento e rispetto. Ciò che di solito prelude a una maggiore motivazione.

All’interno delle aziende le difficoltà relative ai problemi tecnici sono abbastanza limitate; è veramente difficile riscontrare lacune nelle competenze specifiche (soprattutto se sono state ben valutate in ingresso). Tuttavia, nei gruppi di lavoro, tra le persone coinvolte in un progetto, talvolta, non è facile coordinare gli elementi e articolare le differenze. Il ruolo di responsabilità spesso richiede ora capacità prima impensate; ad esempio, fluidificare i meccanismi della comunicazione interna, lavorando sull’ascolto, la gestione dello stress e delle emozioni, i problemi relazionali. In azienda diventa sempre più importante “curare” un clima di reciproca fiducia e migliorare la coesione del gruppo dei collaboratori.

Chi dirige una azienda o è responsabile di un settore di essa, deve considerare che l’incremento della produttività e la qualità dei servizi si trova sempre più in relazione con il morale dei collaboratori e il benessere (nei termini di “qualità delle relazioni interpersonali”) nei luoghi di lavoro.

Contribuire alla qualificazione complessiva della comunicazione interna, migliorare il clima organizzativo, significa in sostanza agevolare le transazioni relazionali di chi vi lavora, metterne a punto i relativi meccanismi di regolazione per garantire il successo dell’azienda e dei suoi prodotti/servizi.

Le ricerche scientifiche di Psicologia delle Organizzazioni hanno da tempo dimostrando che chi lavora in un contesto relazionale sano e privo di tensioni, da alle aziende un netto vantaggio sulla concorrenza. Le aziende che investono sul clima interno ne traggono benefici, per il fatto che favoriscono un lavoro di qualità, una più grande creatività e un miglior servizio alla clientela. Riducono il numero dei contenziosi e mantengono un basso tasso di assenteismo. Riescono a far crescere i talenti migliori e fidelizzare le persone più competenti.

Promuovere il benessere delle relazioni che le persone hanno con il proprio lavoro e nei luoghi di lavoro, risolvere i problemi relazionali che intossicano l’atmosfera, è un investimento fondamentale per l’azienda. Soprattutto quando recuperiamo il valore delle persone valutando e, allo stesso tempo, incoraggiando un atteggiamento mentale positivo dei collaboratori.

I rapporti interpersonali, il clima relazionale ed organizzativo nei vari settori dell’azienda, il ruolo dell’emotività e della passione, sono alcuni degli elementi fondamentali costituenti le condizioni favorevoli per “fare squadra”, che scaldano i cuori e le menti delle persone e delle organizzazioni. Non basta mettere in atto una buona idea per renderla realtà operativa e nemmeno è sufficiente che il capo la comprenda perché i collaboratori la mettano in pratica.

La tecnica o le tecniche in questo caso non sono sufficienti. Ecco perché diventa legittima una psicologia delle risorse umane: in termini di opportunità di lettura, di messa a fuoco, necessaria per trovare il bandolo della matassa e avviare un processo di crescita a partire da una situazione critica. Una psicologia come “capacità relazionale”, di “comprensione della psicologia delle persone”, per fornire opportune chiavi di accesso ai problemi di comunicazione e permettere a ciascuno di aprire la porta alla sua personalità e trovare la propria strada, dando prova di intelligenza e autonomia.

Sviluppare capacità collaborative non è facile e tantomeno alla portata di ognuno. I manager tuttavia sono chiamati ad essere all’altezza del compito perché tale risultato è uno dei punti cardine delle loro capacità. Ovvio pertanto che dalla qualità del management dipenderà in gran parte il successo o l’insuccesso dell’organizzazione. Ma come può un manager garantirsi il successo?

È facile perdersi. Se proviamo a metterci nei panni di chi è chiamato a navigare in queste acque, è facile vivere insieme ad essi un senso di smarrimento.

A volte è stato sufficiente svolgere una serie di 8-10 incontri di consulenza, per risolvere in modo soddisfacente situazioni completamente degenerate, frutto di un lungo processo di impoverimento delle relazioni. Spesso i dirigenti, ne sono usciti più forti come persone di fronte alle reazioni emotive che prima li destabilizzavano e, ancora di più, l’apprendimento che ne hanno tratto, è stato acquisito per il resto della vita.

Talora è necessario ricreare una dimensione più umanizzata del lavoro e delle organizzazioni, tenendo conto che le conquiste tecnologiche sono per noi irrinunciabili, per la nostra crescita e il nostro benessere; allo stesso tempo, che le donne e gli uomini fanno la differenza, soprattutto per quanto riguarda il loro valore immateriale.

Dunque, diventa importante per il “capo” essere consapevole delle proprie capacità relazionali, farle emergere e canalizzarle, saper gestire le proprie difficoltà e diventare cosciente del loro funzionamento per aumentare la propria lucidità, per cambiare il proprio modo (legittimamente soggettivo) di vedere gli altri e le proprie relazioni. Apprendere a osservare con obiettività la propria situazione per rafforzare la efficacia delle proprie azioni e i relativi margini di manovra. Formarsi.

La proposta è quella di incentivare un’ecologia del lavoro e delle relazioni umane a tutto vantaggio delle aziende, dei loro clienti e, naturalmente, di chi vi lavora. Insomma, scoprire che si può lavorare e allo stesso tempo si può anche vivere in salute e trarre soddisfazione da ciò che si sta facendo. Questo, va a vantaggio delle persone e delle loro relazioni, ma è anche un’opportunità – in termini di valore aggiunto – per le aziende.

Bisogna ascoltare, fare un uso intelligente delle competenze dei collaboratori e prendere in considerazione (far emergere dalla loro esperienza diretta) ciò che occorre per far crescere l’azienda, in modo da interessare le persone al processo collettivo. A partire dal momento in cui si da la parola ai nostri collaboratori e in cui si prendono in considerazione le loro conoscenze, la qualità delle decisioni che vengono prese da noi è naturalmente migliore. Inoltre, se le persone sono coinvolte nella ricerca di soluzioni, esse saranno anche più motivate a metterle in pratica. E in genere fanno di tutto perché la cosa vada in porto, anche se in partenza esse potrebbero trovarsi in difficoltà.

Vittorio Tripeni
psicologo del lavoro e delle organizzazioni

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