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La evoluzione del concetto di “prossimità”

Da un intervento di Mauro Famigli, Comandante della Polizia Locale di Torino, al IV Forum della Polizia Locale, (24.10.2011). Titolo originale: La Polizia di prossimità

 

Parlo della polizia di prossimità, non nascondendo che c’è una certa stanchezza sul termine “prossimità”, che nel corso degli anni è diventato una parola, come spesso capita in altri casi, svuotata di senso. Se provassimo a distribuire un questionario, chiedendo che cosa si intende per prossimità, salterebbero fuori duecento o trecento definizioni, l’una diversa dall’altra. Le definizioni sono, per loro natura, molto soggettive, ma quando si parla di una attività di polizia credo che sarebbe necessario un minimo di glossario, perché altrimenti va a finire che c’è chi parla di una cosa ma l’altro ha in testa un altro concetto e si finisce per non capirsi. Nel corso del tempo sono state date 40.000 definizioni di prossimità, a partire da quella francese iniziale. L’ultima che ho sentito, che mi ha fatto molto piacere, definiva la prossimità come una filosofia. Manca solo, nell’elenco delle definizioni di prossimità, che sia anche un’inclinazione sessuale e poi c’è tutto!

 

Continuo a ritenere, almeno per quanto riguarda noi, che la “prossimità” sia semplicemente un modo di fare polizia, un modo di esercitare il mestiere di polizia, che ha due o tre caratteristiche fondamentali, che poi proverò a declinare; soprattutto un modo di fare polizia per risolvere problemi. Io credo (anche in questo caso senza inventare nulla di nuovo) che una definizione generale dell’attività di polizia è quella di una funzione di servizio, per risolvere alcuni problemi di oggi. Quindi nel concetto di polizia, soprattutto quello di prossimità, è contenuto lo stimolo per non cadere nella tenaglia o nella tentazione autoreferenziale, quella di continuare a fare sempre quello che si è fatto. Una caratteristica fondamentale è quella di essere disponibili al cambiamento, perché se cambiano i bisogni, i problemi da risolvere, occorre cambiare anche il modo di agire, le strategie, le azioni messe in campo …

Questa è una prima condizione per risolvere problemi, se la prossimità è una funzione della credibilità e dell’affidabilità della forza di Polizia che è chiamata a farlo.

 

Sì, è vero quello che è stato detto; sulla affidabilità, sulla credibilità qualche problema c’è. Credo che un male fondamentale sia (a parte, non bisogna nasconderlo, qualche errore interno, ma non è determinante) secondo me la campagna nazionale, con le punte più accese di città in città, che identifica l’attività della Polizia municipale, locale e dei Vigili come quella che serve per fare cassa. Non contano niente tutte le attività, tutti i servizi di Polizia giudiziaria, più o meno qualificati, di Polizia commerciale, tutto quello che ogni Polizia Locale fa in tutta la città. L’unica cosa che si sente dire è che noi lavoriamo per fare cassa. Io penso sia offensivo per tutti quelli, fra noi, che lavorano tutto il giorno per il rispetto della legalità, per l’applicazione di alcune regole, per risolvere i problemi. È un discorso ingigantito dai media, dai giornali, dalle tv, che in questo modo fanno un pessimo servizio al bene comune, perché più si fa decrescere l’affidabilità di una forza di Polizia, più ci rimettono tutti. Così non si risolvono i problemi, perché viene a cadere la credibilità, nessuno crede che noi siamo in grado di fare cose giuste, perché facciamo solo multe, perché lavoriamo solo per fare soldi.

Un’altra considerazione è che, purtroppo, siamo più o meno rimasti l’unico Corpo di Polizia che mette le mani in tasca ai cittadini e, soprattutto di questi tempi non è una cosa che piaccia, che porti consensi.

 

Per la prossimità, intesa come modo di fare di Polizia, i punti fondamentali, i punti cardine sono due o tre, ormai ampiamente accettati da tutta la dottrina, perfino dai Ministeri. Il centro dell’attività di Polizia non è soltanto il contrasto al crimine, ma, soprattutto per quel che guarda noi, il lavoro per migliorare la qualità della vita. Tutti sappiamo – cerco di riannodare alcuni concetti ampiamente conosciuti – che sulla qualità della vita non incide soltanto il reato. Le indagini infatti hanno dimostrato che in parecchi contesti, in presenza della diminuzione degli indici di criminalità, dei reati, a volte aumenta il senso di allarme, il senso di paura, che è determinato non soltanto dai reati, ma anche da come si vive in un determinato contesto. Sulla percezione della sicurezza incide molto il senso di allarme, la paura.

 

Il capo della Polizia di Stato, qualche anno fa, disse – e io sono convinto che abbia centrato il punto – che uno dei compiti più importanti, forse uno di quelli principali dell’attività di Polizia, sia quello di garantire alle persone la libertà dalla paura. È un bell’impegno, perché la paura è determinata da tante cose, dai fatti della vita quotidiana che conosciamo tutti, che capitano frequentemente. Questo è, credo, sulla qualità della vita, sui disturbi, sul degrado, su tutto quello che compone la filiera dell’attività nostra, lo spazio più o meno esclusivo in capo alla Polizia Locale.

Un’altra caratteristica, pure ampiamente discussa e accettata, è relativa non più e non soltanto all’oggettività, ma alla percezione soggettiva. Anche qui si scopre l’acqua calda, credo che una delle caratteristiche fondamentali dell’attività di prossimità, variamente denominata, sia quella di prendere in considerazione le persone, di agire sulla metà del problema della sicurezza relativo alla rassicurazione. Io ritengo che sia ovvio che ognuno di noi quando ha un problema, se qualcuno è disposto ad ascoltarlo, a prendere in considerazione le sue lamentele, in quel momento, si sente meglio, anche se si tratta di una cosa che non finirà mai nelle statistiche criminologiche. Io credo che in questo modo una buona metà del problema della sicurezza sia risolto, perché tutti noi amiamo essere presi in considerazione, ci sentiamo vivi, stiamo meglio, se qualcuno ci ascolta, soprattutto se abbiamo un problema, dalle malattie a tutto resto.

 

È importante ascoltare, questo è l’inizio, sono le prime esperienze di prossimità.

Ricordiamo il Vigile di quartiere, con l’enfatizzazione che ne è stata data, anche in riferimento al Poliziotto di quartiere e al Carabiniere di quartiere; come dice Franco, oltre alla pattuglia che girava a piedi, un po’ più discosto c’era sempre un altro agente con la telecamera che riprendeva. Questa era una sua battuta! È importante ascoltare, raccogliere le segnalazioni. Ascoltare il negoziante che racconta il suo problema magari con i mendicanti o con i ragazzi indisciplinati, è una delle prime cose da fare. Se ti fermi soltanto ad ascoltare, rischi di diventare, dopo poco tempo, inutile. È vero che la prima volta funziona, perché magari prima nessuno lo ascoltava e allora diventa importante quello che fai. Infatti se qualcuno ha un problema e arriva una persona in divisa con la quale può parlare delle vicende sue, questa presenza è importante. Se però tutto si ferma all’ascolto e alla rassicurazione, si rischia di diventare in breve tempo una terapia inutile. Dopo un po’ una persona si sente troppo ascoltata ma il problema rimane, allora si sente presa in giro.

Questo per ragionare sempre sulla teoria antica, che però io credo sia ancora attuale per l’attività di Polizia, del problem solving, ovvero: c’è un problema, ti ascolto e ti rassicuro, ti prendo in considerazione, agisco sulla tua percezione soggettiva. Se però sotto casa tua continua il disagio dovuto al gruppo dei ragazzi che non ti fanno dormire da tre mesi, ti avrò anche ascoltato 15 volte, ma non ti ho risolto il problema.

Io vedo che da molte parti, compresa la città in cui lavoro, si è cercato di fare un passo avanti, di concentrare l’attività sul fare le cose: va bene ascoltare, però bisogna anche fare. Adesso è un po’ diversa, l’attività di prossimità, al puto tale che non so se sia possibile chiamarla ancora in questo modo, ma tanto ormai è invalso l’uso. Se in un’organizzazione di Polizia Locale non c’è la parola prossimità, se non c’è qualcosa che faccia prossimità, questo è politicamente scorretto e non va bene.

 

Io ho vissuto parecchie esperienze, compresa la mia, molto diverse dall’iniziale Vigile di quartiere, dalla raccolta di segnalazioni, di problemi, dal portare in giro la divisa, dal farsi vedere, dall’ascoltare la gente così via. Adesso stiamo cercando di lavorare su alcune direttrici di specializzazione, quindi il nostro è diventato – almeno nella mia esperienza, come in quella di altre città – un nucleo ad alta specializzazione, che fa alcune cose di alta qualità e con grande specializzazione. Quali cose? Io credo che questo nucleo, questa attività di prossimità sia quella più esposta al cambiamento, perché ritengo che debba specializzarsi ed intervenire sui problemi di quell’area di problematica, sulla convivenza civile, sulla qualità urbana di un contesto che magari a Torino è in un modo, a Verona in un altro, a Frosinone in un altro ancora, su quelli che sono prioritari momento per momento. Se tutti noi continuiamo a fare le stesse cose – nelle attività di Polizia c’è una forte tendenza al conservatorismo – a fare oggi quello che facevamo ieri, non va bene.

Questa è una difesa personale, è una sicurezza personale malintesa, perché se continuo a fare quello che facevo ieri, so come si fa, sono tranquillissimo e sicuro. Se devo fare delle cose nuove, invece, il cambiamento diventa un po’ difficile, ti chiedi se saprai farlo oppure no, devi inventarti qualcosa di nuovo. Io penso faccia parte di una matrice fondamentale dell’attività della Polizia urbana, o dei Vigili urbani: imparare sul campo, essere continuamente stiracchiati per la giacchetta, una delle tante che portiamo in giro, e doversi inventare sul lavoro, direttamente sul posto, una soluzione, una professionalità. Questo non ci ha mai spaventato.

 

Adesso vedo, anche con strumenti comuni, due o tre aree di specializzazione abbastanza diffuse in tutte le città, che si prestano molto bene. Una è quella delle aggregazioni giovanili, del bullismo, delle baby gang e così via, la seconda è l’attività dello stalking, allargata a tutti i maltrattamenti in famiglia, la terza è quella dei conflitti di caseggiato, di condominio, che sono un una miriade ovunque. In questi campi possono essere messe in piedi moltissime attività di collegamento, ad esempio protocolli d’intesa con le Procure: nella mia città, come in altre, questo è stato fatto. Sui maltrattamenti in famiglia è possibile, perché ho visto che c’è disponibilità, fare protocolli d’intesa con la comunità di riferimento: ci si impegna a fare qualcosa anche loro. Noi abbiamo sottoscritto un protocollo con una comunità ortodossa, perché capita questo: sarà malamente inteso un mediatore culturale, però è vero che sui maltrattamenti in famiglia la

pensiamo da italiani. Nell’ambiente può essere, molto spesso, che gli stranieri non capiscano, perché non si tratta di maltrattamenti, per loro è un modello educativo un po’ tirato, un sistema di relazioni familiari, fra coniugi, un pochino tirato, e stiamo parlando di botte. Il fatto oggettivo è che si tratta di botte. Allora, con l’intervento della comunità di riferimento, io credo che si possa intervenire in maniera migliore, perché se sono i loro referenti a spiegare che non va bene picchiare il figlio o la moglie, forse vengono ascoltati.

Se, invece, questo viene spiegato loro da uno dei miei vigili, quest’ultimo diventa il cattivo della situazione.

 

Un’ultimissima cosa: non so se serva una modifica legislativa, io credo che potrebbe essere fatta anche come indirizzo operativo, mi riferisco allo stalking, con un ammonimento del Questore. Tutti ci si interessa, giustamente, della vittima del reato, ma dello stalker non si interessa nessuno: verrà condannato, verrà ammonito eccetera, ma se non si interviene su di lui, c’è un’altissima probabilità che lo rifaccia. Per quale motivo non pensare che nell’ammonimento si possa inserire la prescrizione? So che esistono già esperienze di questo tipo fuori dall’Italia, purtroppo: si tratta di obbligare lo stalker a frequentare dei momenti rieducativi, che in qualche maniera – è meglio di niente, sicuramente – possono contribuire a migliorare la situazione. Lo stalker deve frequentare un corso, questa è una prescrizione dell’ammonimento.

Io credo che tutte le cose che ho detto, in maniera confusa, oggi siano il significato più concreto e reale di una parola, prossimità, che sennò rischia di rimanere solamente una bandiera e basta.

 

A margine dell’assemblea sindacale di una Polizia Locale

I tragici fatti di questi ultimi giorni e la nostra sofferenza ad essi connessa, esortano a prestare la necessaria attenzione su un argomento verso il quale non possiamo più rimanere indifferenti: il disagio costante degli operatori di PL, che ogni giorno vivono realistiche tensioni esistenziali legate innanzitutto alla impossibilità di sapere a cosa andranno incontro nel corso del loro servizio quotidiano.

Si pongono di fronte all’imprevedibile, non potendo prevedere in anticipo ciò che potrà accadere, e allo stesso tempo sfidano l’imprevisto, ovvero quanto potrà capitare al di fuori della loro capacità di “immaginare” il potenziale rischio correlato alla loro specifica attività di lavoro.

A tutto ciò si aggiungono le situazioni straordinarie e drammatiche che possono intervenire in servizio e in particolari eventi critici; ma pure in quei casi in cui ci si sente esposti al pericolo di perdere la vita, vivendo contemporaneamente un sentimento d’estrema impotenza e di massima vulnerabilità.

Inoltre, essere minacciati o vedere un collega ferito o ucciso, trovarsi in situazioni di violenza in cui sono coinvolti dei bambini o persone deboli, sono tutti momenti particolarmente shoccanti che mettono a dura prova la stabilità delle persone.

In questi casi, l’impatto degli eventi supera i limiti che gli operatori sono abituati ad affrontare ed è l’essere umano, la persona, che ne subisce le conseguenze; non l’agente (e ciò che rappresenta) in servizio.

Allora, qualunque sia la preparazione professionale, l’età e l’esperienza sul campo dell’operatore, l’entrare in contatto con situazioni che possono generare angoscia, dolore, violenza, morte, può sfociare inevitabilmente in profonde e importanti reazioni sul piano emotivo che, in casi estremi, possono addirittura sfociare in patologie gravi e tentativi di suicidio.

In modo del tutto superficiale si crede che la sofferenza sia appannaggio delle persone fragili e indifese. In realtà il fenomeno colpisce tutti, anche quelle categorie di lavoratori che almeno nell’immaginario collettivo ne sarebbero esenti. Chi soffre, non necessariamente è malato. Tuttavia, la difficoltà di poter ”confidare” aspetti che riguardano la sofferenza esistenziale, seppur circoscritta al momento, nel timore di incorrere in giudizi negativi che possano pregiudicare il proprio percorso professionale, costringe le persone a rimanere chiuse nel loro disagio e, di conseguenza, essere meno perforanti.

Il contesto sociale e culturale nel quale è nato il “vigile” si è completamente trasformato e non è un caso se oggi non siamo più vigili urbani ma Agenti di Polizia Locale, alle prese con nuove forme di delinquenza, sempre più dure, verso le quali non sono adeguatamente preparati. Occorrerebbe rivedere la formazione sul piano psicologico, lavorando di più sulla conoscenza di se, il modo in cui si reagisce alle situazioni di violenza, ma anche sulle rappresentazioni dei delinquenti che si incontrano.

Le ricerche internazionali, sull’organizzazione del lavoro in polizia locale, segnalano la necessità di tener conto del “fattore umano” come elemento fondante la qualità di resa del servizio espletato dagli agenti e come fondamento imprescindibile dell’efficienza degli operatori.

Vi auguro buon lavoro, con molta stima e riconoscenza

Le risorse della Psicologia e i soccorsi sanitari nelle catastrofi

Capita che durante l’estate, quando si ha la possibilità di “staccare” per un breve periodo di vacanza, si possa pensare al dopo, a progettare il futuro – di impegni e di svago – che riprenderà con il nostro lavoro in città. Per alcuni di noi l’anno inizia veramente il primo settembre. Quest’anno, però, a settembre ciascuno di noi ha dovuto rivedere i suoi piani. Per migliaia di americani addirittura la vita è stata interrotta all’improvviso, per altre migliaia è cambiata repentinamente e per milioni sta mantenendo una condizione di instabilità latente.

Eventi come quelli sopraggiunti a New York e Washington l’undici settembre scorso, ci obbligano a riflettere anche sul senso della nostra professione di psicologi e psicoterapeuti. Affinché dopo un primo disorientamento si consideri seriamente, sulla base delle evidenze, la importanza del contributo umanistico e umanitario, oltre che scientifico, della psicologia nell’ambito delle emergenze. In particolare l’impegno di persone professionalmente preparate ed esperte a garanzia di interventi specifici in occasione di incidenti critici o gravi calamità.

Il carattere improvviso, imprevedibile e drammatico, di tali eventi, colpisce fortemente la nostra sicurezza psichica. Gli effetti vanno molto al di là del reale pericolo che è “relativamente” limitato per la sopravvivenza delle persone. E’ soprattutto la nostra fiducia, o meglio il nostro bisogno di contare su un mondo costantemente stabile e prevedibile, a trovarsi fortemente scossa o seriamente incrinata. E questo incrinamento si rispecchia innanzitutto sulla fiducia in se stessi.

Tutto avviene come se i meccanismi e le forze che fino a quel momento hanno mantenuto un certo “ordine” o “equilibrio” naturale, vadano per un’altra via, quella del caos e del disorientamento. Queste condizioni di forti e drammatici cambiamenti richiedono altrettanto forti e veloci adattamenti. Gli stili di risposta delle persone – funzionali o disfunzionali che siano – possono essere molteplici. Nella maggioranza dei casi non hanno gravi conseguenze. Tuttavia nei momenti in cui è faticoso o difficile mettere in atto adeguati processi di coping o quando gli stress sono troppo prolungati, possono emergere problematiche di tipo psicologico tra le quali assume una certa “ridondanza” quella sindrome a tutti nota come PTSD (post traumatic stress disorder). Che tutta via non rappresenta l’unica e più frequente conseguenza psicopatologica dei disastri.

Sullo scenario dell’evento critico o della catastrofe, possiamo così immaginare – e drammaticamente vivere nell’esperienza diretta – la forza altamente sconvolgente degli eventi e il trauma, a vari livelli, delle persone coinvolte. E’ garantito che tutto sarà diverso da prima. Ma, nei momenti di pace, è lecito pensare ad un “prima”, cioè ad un sano e serio lavoro di prevenzione, per limitare i danni derivanti dagli eventi calamitosi. Facendo innanzitutto tesoro della esperienza personale e decidendo di “scambiare” tale nostra esperienza con quella di altri. Per crescere insieme e affrontare insieme i nuovi problemi che ogni emergenza porta con sé.

 

Ecco che allora gli psicologi potrebbero investire o “arrischiare” le loro capacità professionali per rispondere con competenza alle chiamate delle emergenze ed essere all’altezza del compito ad essi richiesto.

Altre categorie professionali lo stanno facendo da tempo ed è giusto che ognuno presti la propria opera e sappia fare bene il proprio lavoro: il medico, l’infermiere, il tecnico, il volontario … e lo psicologo.

Questo è anche quanto sottende l’articolato “Criteri di massima per l’organizzazione dei soccorsi sanitari nelle catastrofi” (suppl. ordinario alla GU n.109 del 12 maggio 2001 – serie generale), sul quale ritorneremo in chiusura.

 

Vale quindi la pena tentare una definizione approssimativa del concetto di psicologia delle emergenze, che a tutta prima è del tutto superfluo ben sapendo che “la psicologia è una sola”. Risulta però utile soprattutto sul piano operativo, perché offre la possibilità di utilizzare una “cornice” e dei riferimenti molto promettenti per la ricerca sul campo e gli interventi diretti.

In questo ambito specifico la nostra disciplina si occupa dei comportamenti e in particolare delle problematiche di tipo psicologico che generalmente si manifestano in situazioni di emergenza. Per ottimizzare gli interventi di aiuto verso le persone coinvolte in incidenti critici e/o gravi calamità e individuare quei sistemi di trattamento più idonei ad evitare nelle persone effetti psichici negativi oppure a ridurne al minimo le possibilità di insorgenza.

Tiene perciò conto del “fattore umano” nel contesto delle emergenze. Studia il comportamento umano prima, durante e dopo un evento critico, in relazione alla personalità, alla motivazione, ai livelli d’ansia e di aggressività, alle dinamiche di gruppo nelle prove collettive. Perché le persone coinvolte sperimentano situazioni psichiche estreme e corrispondenti sensazioni impulsive che non è dato verificare nelle normali situazioni.

 

La psicologia delle emergenze dovrà costituire un corpus di conoscenze sulle attività di intervento sul campo, per migliorare la efficacia delle prestazioni e il benessere delle persone, conoscenze psicologiche che ogni operatore dell’emergenza o della sicurezza dovrebbe avere o utilizzare nella sua interazione con le persone alle quali presta aiuto o assistenza.

Gli interventi della psicologia delle emergenze riguardano anche la selezione del personale, attraverso opportuni interventi rivolti a individuare le attitudini specifiche in vista delle attività e delle aree di applicazione. Sono importati anche per la razionalizzazione dei sistemi di apprendimento e la formazione, attraverso misurazioni del rendimento e delle prestazioni.

In questa prospettiva essa dovrebbe occuparsi anche delle indagini psicosociologiche in vista dei rapporti interpersonali, del comportamento in situazioni eccezionali, della motivazione, delle relazioni tra leadership e consenso, del maggiore o minore adattamento dell’individuo al gruppo dei compagni e al sistema organizzativo. A delle tecniche di cooperazione e di empowerment in ordine allo spirito di collaborazione, alla sopravvivenza, al superamento della sfiducia e delle crisi di angoscia, al ruolo e alle modalità di comunicazione dei mass media in situazioni di emergenza o disastri.

La psicologia delle emergenze coinvolge anche gli psicoterapeuti e li impegna a fornire risposte puntuali alle difficoltà di coping delle persone coinvolte nelle emergenze e intervenire nei casi più gravi per seguire con scienza e coscienza le persone colpite più pesantemente.

Non si può dimenticare però che, se da una parte è la cultura dell’emergenza quella che prevale, dall’altra è completamente trascurata la cultura del rischio cioè quella attenzione rivolta alle capacità di gestione delle eventualità di subire danni, con conseguenze che tutti conosciamo.

 

E’ vero, con l’emergenza siamo istintivamente coinvolti, la gestione del rischio però è un’altra cosa, perché innanzitutto richiede un certo grado di consapevolezza e poi competenza, attenzione, organizzazione, risorse e, soprattutto, implica assunzione di responsabilità e mantenimento della giusta distanza emotiva.

Nel campo delle emergenze la professione e la professionalità dello psicologo possono contribuire sensibilmente alla qualità degli interventi e alla organizzazione dei soccorsi sanitari in occasione di calamità e catastrofi così come possono dare un contributo importante alla valorizzazione (in termini di qualità della relazione e prevenzione dello stress degli operatori) del servizio garantito dalle Centrali Operative 118.

Se si prende in considerazione il provvedimento della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Protezione Civile “Criteri di massima per l’organizzazione dei soccorsi sanitari nelle catastrofi”, pubblicato sul supplemento ordinario alla GU n.109 del 12 maggio 2001 – serie generale possiamo rilevare che esso chiama direttamente in causa la professione dello psicologo. In modo specifico all’art. 1.1 (definizione), all’art. 1.7 (funzione di supporto n.2), all’art. 1.9.2 (eventi attesi); nonché agli artt. 3.2.1 e 3.2.3 (evento catastrofico che travalica le potenzialità di risposta delle strutture locali). Imponendo di occuparsi attivamente del sostegno psicologico delle persone e delle popolazioni (non tenendo però conto del sostegno psicologico ai soccorritori).

 

Entrando nei dettagli, vediamo che già nella Premessa, si parla di “organizzazione dei soccorsi sanitari durante una catastrofe …” coinvolgendo direttamente la psicologia come professione sanitaria (volta cioè a tutelare la salute dell’uomo).

Quando definisce il piano di emergenza (art. 1.1) la norma motiva a tener conto degli aspetti fisici e psicologici al fine di ristabilire le condizioni di vita. Viene infatti detto che (il piano) ” … è lo strumento che consente alle autorità competenti di predisporre e coordinare gli interventi di soccorso a tutela della popolazione e dei beni in un’area a rischio, e di garantire con ogni mezzo il mantenimento del livello di vita “civile” messo in crisi dalla situazione che comporta necessariamente gravi disagi fisici e psicologici”.

Ciò che non è stato scritto, ma può essere legittimamente sostenuto, riguarda la necessità di garantire una condizione e un livello di vita che non favoriscano una traumatizzazione secondaria. Pertanto è del tutto fondato porre l’accento sulla importanza della psicologia anche nella prevenzione, ad esempio, degli stati di PTSD.

All’art. 1.7 , si afferma che le tematiche sanitarie affrontate nella pianificazione dell’emergenza sono varie e molteplici anche se “abbastanza comunemente, il settore viene limitato alla medicina d’urgenza”.

Aggiunge però che “in realtà, l’intervento sanitario in seguito a un disastro deve far fronte ad una complessa rete di problemi che si inquadrano nell’ambito della medicina delle catastrofi e che prevedono la programmazione ed il coordinamento delle seguenti attività: primo soccorso e assistenza sanitaria, interventi di sanità pubblica, attività di assistenza psicologica e di assistenza sociale alla popolazione”. Come si vede, lo psicologo viene chiamato in causa direttamente, essendo la assistenza psicologica peculiare attività degli psicologi. Pertanto, anche quando nello stesso articolo, all’ultimo comma, si dice esplicitamente che la vastità dei compiti “presuppone, soprattutto in fase di pianificazione, il coinvolgimento dei referenti dei vari settori interessati tra cui i rappresentanti di: …. Ordini Professionali di area sanitaria” vengono chiamati in causa gli psicologi e in particolare gli Ordini Regionali e l’Ordine Nazionale degli Psicologi.

 

Anche nel successivo art. 1.8, che riguarda le Centrali operative sanitarie 118, la norma chiama direttamente in causa la nostra professione quando, riconoscendo che la Centrale operativa 118 “costituisce l’interlocutore privilegiato in campo sanitario”, sottolinea che la centrale operativa “dovrà individuare i maggiori rischi sanitari che insistono sul proprio territorio in modo da prevedere un’organizzazione sanitaria in grado di fronteggiare gli eventi catastrofici più probabili”. Individuare i maggiori (inteso come più importanti o prevalenti) rischi sanitari significa anche tener conto della gravità, prevalenza, ricorrenza, di alcuni traumi psichici direttamente correlati con gli eventi catastrofici più probabili. Anzi, ci permettiamo di dire che se si possono definire alcuni degli eventi catastrofici più probabili, si possono anche definire alcuni dei traumi psicologici più probabili.

 

L’art. 1.9.2 – “Eventi attesi”, impone la redazione di un elenco dei rischi che interessano il territorio, sottolineando che “nella valutazione degli eventi attesi sarà utile, ai fini dell’organizzazione del soccorso sanitario, tener conto di alcune ipotesi di rischio associabili ai rischi principali …” Varie conseguenze possono essere valutate già nella pianificazione delle risposte come gli effetti sulle persone (lesioni o morti).

 

Non vi è dubbio che con il termine “lesioni” si faccia riferimento a vari traumi che, per quanto riguarda il campo di attività degli psicoterapeuti, potranno essere differenziati in traumi psichici diretti e indiretti, correlati agli eventi.

Il documento al quale facciamo riferimento risente purtroppo di una formulazione che risale a circa dieci anni fa e pertanto non ha avuto modo di sottolineare quanto sia importante prestare attenzione ai traumi a carico dei soccorritori nonché alla garanzia delle condizioni di salute nei luoghi di lavoro prevista dalla legge 626.

 

Ribadendo (all’art. 3.2.1) la complessità dell’argomento in fatto di coordinamento degli interventi, fa ancora un esplicito riferimento al “sostegno psicologico alle popolazioni sinistrate” non esplicitando minimamente la importanza di un intervento a favore dei soccorritori traumatizzati (traumatizzazione vicaria).

 

All’art. 3.2.2 (valutazione della situazione), quando tratta della valutazione presumibile del numero di (morti e di) lesi, la natura delle lesioni prevalenti, la situazione delle vittime, la situazione dei profughi (da intendersi come: coloro che sono costretti a lasciare il luogo in cui abitualmente vivono) e il loro stato psicologico è chiaro il coinvolgimento della nostra professione, anche se esplicitamente previsto solo verso i profughi. Tutto ciò dovendosi imputare ad una formulazione che probabilmente ha tenuto conto più della situazione medica e meno della situazione psicologica. Anche in considerazione del fatto che, a quell’epoca, i progressi e i contributi scientifici delle realtà estere (USA, Inghilterra, Finlandia, Australia, ecc.) erano ancora sconosciuti o limitati nel nostro paese.

 

In conclusione, l’invito a investire le competenze della psicologia e le esperienze degli psicologi nel vasto e complesso campo delle emergenze è chiaro. Nell’economia di questo scritto ci siamo limitati ad evidenziare soprattutto le emergenze legate alle catastrofi, ma è evidente che gli sconvolgimenti sempre più frequenti – in situazioni e condizioni diverse – sono una chiamata importante e una sfida che è importante raccogliere.

 

titolo: Le risorse della Psicologia e i soccorsi sanitari nelle catastrofi

autore: Vittorio Tripeni

argomento: Psicologia Emergenza e Psicotraumatologia

fonte: Vertici Network

data di pubblicazione: 12/11/2001

 

pubblicato in forma ridotta anche sul notiziario OPL (Ordine degli Psicol della Lombardia), n, 1 gennaio 2002

www.opl.it/allegati/Numero%201%20gennaio%202002.pdf