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Elogio dello Shaolin-Mon Kung Fu

Un’arte marziale pacifica che non predica l’aggressività. Anzi, insegna prima di tutto a conoscere se stessi, rendersi autonomi e capaci di assumere le responsabilità della propria vita. Si tratta .

Movimenti e posizioni del corpo che un tempo servivano per fare la guerra e che sono stati trasformati in una pratica attiva fondata sulla ricerca del benessere fisico. Una pratica che allo stesso tempo diventa opportunità di crescita spirituale. Uno stile di vita tra forma e movimento. Un esempio di metamorfosi e trasformazione che segue le regole del Buddha: imparare a guardarsi dentro, vivere una vita semplice, mangiare in modo corretto, tenere in esercizio il corpo, l’anima e lo spirito.

Una forma di “combattimento” che tende innanzitutto a contrastare il proprio “doppio” o la propria “ombra”, a limitare i danni possibili; ad esempio, una scalmanata gestione delle proprie emozioni o le evidenti tensioni muscolari derivanti da una eccessiva rigidità di pensiero.

Un medicamento per le molte migliaia di persone frustrate che cercano un riscatto ai loro fallimenti quotidiani e considerano ogni “sorpasso” una vittoria.
Non si può che essere d’accordo con chi oggi ci porta a considerare che la cosiddetta civiltà occidentale è in preda a grandi paure e si è accorta della sua estrema fragilità. Che ha perso quasi completamente la propria memoria e non riesce più a trovare le radici del proprio passato. Che la sua spinta verso il futuro, non è in difesa di valori ai quali più non crede ma soltanto in difesa dei privilegi che ha conquistato.

Per colmare il vuoto che ha in sé, la gente cerca di negare gli altri. Sembra questo il solo modo per riconoscersi e sopravvivere dando un senso alla vita. Che peccato.

Ho ritrovato su alcune vecchie agende delle annotazioni che trovo ancora interessanti: brevi riflessioni, credo non banali rispetto al tempo in cui le ho scritte.
Ne ho scelto cinquantadue, risalenti al 2002, 2003 e 2004, con l’intenzione di proporre un motivo di ispirazione settimanale per il corso dell’anno.
Questa è la n. 19:
Elogio dello Shaolin-Mon Kung Fu (2003)

Blu notte

La depressione è indubbiamente un oggettivo disturbo dell’umore che colpisce moltissime persone. E tale stato d’animo continua ad essere trascurato e addirittura “mal visto” da quanti pensano che se ne possa uscire dicendosi che in fondo si tratta del male del secolo, oppure che è soltanto un problema di volontà. Occorre fare di più e diffondere una informazione puntuale sul problema e sulle opportunità di cura.

A volte, quando osservo i comportamenti all’interno di un’azienda o di un gruppo di lavoro, mi capita di pensare che gran parte delle difficoltà che gravano sulle persone e le organizzazioni, possa dipendere soprattutto da un “atteggiamento” mentale che ingenera un comportamento depressivo.

Ad esempio, quanti modi di esprimersi esistono per mortificare una idea, un progetto, una nuova iniziativa? Proviamo ad elencarne qualcuno:
– è stato già fatto
– non abbiamo mai fatto così
– abbiamo già provato ma senza successo
– questo non è previsto dal nostro budget
– non abbiamo il personale adatto
– noi non ne avremo alcun beneficio
– con quali soldi finanzieremo questo progetto?
– i rischi intangibili sono troppo elevati
– non siamo ancora pronti per questo ma, al tempo opportuno …
– bisognerebbe avere l’approvazione di …, ma sono sicuro che direbbe di
no
– è una soluzione a lungo termine, ciò di cui avremmo bisogno ora è
qui e presto!
– noi facciamo già meglio dei nostri concorrenti
– questo è qualcosa di radicalmente diverso da ciò che facciamo in
questa azienda
– il cliente non lo accetterà mai
– è troppo complicato, nessuno lo capirà
– questa iniziativa è contraria alla nostra politica
– questo probabilmente funzionerà negli altri paesi, ma da noi
– se questo è opportuno e vantaggioso, perché nessuno lo ha ancora
fatto?
– è già da tempo che avremmo voluto farlo, ma …
– È una ottima idea, facciamo una riunione per organizzare un gruppo
di studio
. . . . . .

Ho ritrovato su alcune vecchie agende delle annotazioni che trovo ancora interessanti: brevi riflessioni, credo non banali rispetto al tempo in cui le ho scritte.
Ne ho scelto cinquantadue, risalenti al 2002, 2003 e 2004, con l’intenzione di proporre un motivo di ispirazione settimanale per il corso dell’anno.
Questa è la n. 18:
Blu notte (2003).

La foto riproduce l’opera “Layer” (Collagraph print on denim, 40cm x 40cm, 2018) di Holly E Brown – https://www.hollyebrown.com/denim.html

Perdersi e ritrovarsi

 

Capita di trovarci di fronte a una situazione difficile in cui non sappiamo cosa fare, come affrontarla, oppure non abbiamo gli strumenti necessari per intervenire in modo efficace su di essa, non possiamo agire in modo adeguato. Si tratta in genere di un evento, un compito o una prova che in quel momento è capace di fare emergere il limite delle nostre possibilità e che viene da noi vissuto con un certo grado di disagio.

Il segnale della nostra inadeguatezza si manifesta attraverso l’ansia che a sua volta sottintende l’indice della nostra fatica psicofisica o del nostro stress. Tutto questo capita quotidianamente: in famiglia, a scuola, al lavoro, ecc.

Quel momento in cui non riusciamo a raggiungere l’obiettivo, a realizzare cioè quel compito che abbiamo di fronte, può – in moltissimi casi – tramutarsi in una minaccia nei nostri confronti. Diventa un attacco alla nostra autostima, uno sconvolgimento della nostra zona di confort. E quando viviamo una tale situazione, abbiamo la possibilità di dire: “io mi sento minacciato da questa difficoltà e però posso lottare, posso far fronte alla minaccia contro la mia autostima”.

In linea del tutto schematica, nel caso mi trovassi nella situazione appena descritta, potrei prendere coscienza di quanto sta accadendo in due modi:
posso entrare in contatto con il mio corpo, attraverso il quale mi “sento” e “capisco” qual è la situazione al mio interno, valutando così le mie energie e le mie risorse (bisogna considerare però che tale situazione potrebbe essere vissuta anche come minaccia e in questo caso il “sentirsi” in tale stato può diventare l’anticamera dello stress).
Posso entrare in contatto con l’esterno, mi sintonizzo e valuto ciò che sta accadendo; per comprendere se il mio “potere” personale è sufficiente e adeguato ad affrontare la situazione. Vivrei pertanto l’evento come sfida e nel momento in cui vivo qualcosa come competizione, mi attivo in modo sicuramente positivo. Questo diventa il modo ideale per affrontare le cose, anche se naturalmente non possiamo sempre interpretare o re-interpetare gli eventi in termini di competizione.

Esiste tuttavia un rischio incombente, quello di voler vincere ad ogni costo, di superare con ingenuità e entusiasmo sprezzante il limite che si pone come sfida; e allora…

 

 

 

Ho ritrovato su alcune vecchie agende delle annotazioni che trovo ancora interessanti: brevi riflessioni, credo non banali rispetto al tempo in cui le ho scritte.
Ne ho scelto cinquantadue, risalenti al 2002, 2003 e 2004, con l’intenzione di proporre un motivo di ispirazione settimanale per il corso dell’anno.
Questa è la n. 17:
Perdersi e ritrovarsi (2003).

Un pesce tropicale

Si dice che certi pesci tropicali crescano in funzione delle dimensioni del loro acquario o, meglio, dello spazio di cui essi dispongono. Se li lasciamo in un piccolo acquario tutta la loro vita, essi resteranno sempre piccoli! Se, al contrario, diamo ad essi uno spazio adeguato, essi cresceranno!
Lo stesso vale per noi Se ci accontentiamo del nostro spazio ci ritiriamo e ci sarà difficile “crescere” e crearci migliori opportunità. Rischieremo di vivere quindi in una condizione di insoddisfazione, di impotenza, di mancanza di tempo, di relazioni difficili, ecc.
Poi cominceremo a credere che la nostra vita è fatta in questo modo e che noi non possiamo far nulla. Senza pensare che la nostra vita è un dono del cielo e che il nostro compito consiste nel trarne il massimo profitto (dare il massimo valore) a quanto ci si presenta, sviluppando appieno il nostro potenziale. Vivendo le nostre giornate legate al flusso del tempo, dove possiamo cogliere il momento presente (l’attimo fuggente), svolgendo ogni compito o attività che abbiamo scelto e mettendo in campo il meglio delle nostre possibilità.
La metafora del pesce tropicale ci insegna a creare costantemente intorno a noi (ma anche dentro di noi) uno spazio sempre più grande che ci permette di evolvere. Guardare sempre più in alto e più lontano per sentire uno slancio naturale verso ciò che desideriamo, perché più l’acquario è spazioso, più il “pesce” si trova a proprio agio, prendendo levatura e vigore.
Proviamo a dare forma alla nostra vita e l’universo la riempirà di significato e sostanza.

Ho ritrovato su alcune vecchie agende delle annotazioni che trovo ancora interessanti: brevi riflessioni, credo non banali rispetto al tempo in cui le ho scritte.
Ne ho scelto cinquantadue, risalenti al 2002, 2003 e 2004, con l’intenzione di proporre un motivo di ispirazione settimanale per il corso dell’anno.
Questa è la n. 16:
Un pesce tropicale (2002).

Per essere “io” bisogna essere almeno in due

Le caratteristiche generali degli esseri viventi assumono nell’uomo forme molto più complesse e singolari. Negli esseri umani le forze “naturali” appartenenti alla sfera vegetativa e quelle legate alla “istintualità” sono certamente meno attive e evidenti, essendosi metamorfosate in capacità superiori tipiche dell’umanità. Tutto ciò ha portato la persona a crescere individualmente, ad interiorizzarsi sempre di più, ad evidenziare la unicità e la irripetibilità del proprio Io, in un processo continuo di crescita spirituale. Sottolineando così la diversità e la differenza esistente tra ciascun essere umano.

Per essere “Io” però bisogna essere almeno in due. Non è possibile crescere se si è da soli, l’Io si trova in divenire soltanto in rapporto a un Tu; solo nel momento in cui si confronta con l’altro.

François de Singly ha sviluppato il tema della costruzione/ricomposizione dell’identità adulta all’interno delle relazioni e ha evidenziato una struttura a quattro termini: un sé visto da se stessi e un sé visto dagli altri, sdoppiati a loro volta in un sé intimo, privato, e un sé “sociale”, quello che da statuto a una persona. Sottolineando che la questione dell’identità che sta alla base della definizione di sé, non è mai compiuta una volta per tutte ma richiede costanti aggiornamenti o riaggiustamenti.

Ne deduciamo che la costruzione dell’identità diventa un progressivo svelamento e/o rafforzamento di sfaccettature nascoste di noi stessi, da parte di altre persone significative.

Ecco allora che per lo sviluppo spirituale-identitario dell’essere umano “l’ambiente” che può facilitare o ritardare la sua crescita diventa maggiormente complesso e complicato dalla presenza e dalla necessità dei rapporti interpersonali che sono alla base della esistenza di ciascuno di noi.

Ho ritrovato su alcune vecchie agende delle annotazioni che trovo ancora interessanti: brevi riflessioni, credo non banali rispetto al tempo in cui le ho scritte.
Ne ho scelto cinquantadue, risalenti al 2002, 2003 e 2004, con l’intenzione di proporre un motivo di ispirazione settimanale per il corso dell’anno.
Questa è la n. 15:
Per essere “io” bisogna essere almeno in due (2002).